Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi
Immigrati e Brexit, le ultime mosse di Merkel e May
Titoli. Deserto e tribù. Il Fezzan è l’immensa metafora della Libia, un paese dall’identità inafferrabile e dall’unità impossibile. Due italiani sono stati rapiti, è l’apertura di tutti i giornali, il titolo è uguale per quasi tutti, la notizia secca, la vicenda è in fieri. C’è chi mette l’accento sulla polemica politica, applica un nesso di causa-effetto tra l’annunciata missione italiana a Misurata (cento infermieri e duecento militari) e il rapimento (così fanno Libero e Il Fatto quotidiano). Per ora non c’è alcuna prova che sia andata così, è più probabile che si tratti di un rapimento per ottenere un riscatto e il pericolo potrebbe essere quello – già visto in altri teatri di guerra – di una cessione degli ostaggi ai gruppi islamisti presenti in Libia, ma non ci sono ancora elementi sufficienti per fare una analisi precisa. Resta lo scenario arroventato della Libia, il suo deserto, le sue tribù, i suoi clan, la sua guerra. Per sapere, per capire, è utile leggere un report pubblicato dalla Camera dei Comuni sulla storia della caduta di Gheddafi e l’esito della rivoluzione in guerra civile permanente. Il punto di vista è quello del Regno Unito, l’analisi è sull’operato del governo inglese, le visioni del problema sono quelle di Londra, ma il documento è di grande interesse quando spiega che la caduta del Colonnello è stata decisa sulla spinta più della retorica che delle affidabili informazioni di intelligence; quando afferma che la democrazia è un’esperienza che ha bisogno di tempo e non si possono dare solo 18 giorni di campagna elettorale a partiti semi-nati; quando rivela che l’arsenale accumulato da Gheddafi (trenta miliardi di sterline spesi in armi dal 1969 al 2010) non fu messo al sicuro e finì nelle mani delle milizie che a loro volta andarono ad alimentare i conflitti nel Nord Africa e in medio oriente; quando ricorda che ventimila bazooka armati con missili anti-aerei sono una minaccia costante per l’aviazione civile; quando racconta che il problema della ricostruzione in Libia non è finanziario ma politico perché il paese è ricco ma senza stabilità non può sfruttare le sue ingenti risorse. E’ la realtà dell’era post-Gheddafi e insegna – ancora una volta – che quando si organizza una rivoluzione, bisogna sapere che cosa fare dopo la caduta del regime. Nel caso libico il dopo non c’era, è rimasto il caos. L’Italia ha un interesse strategico in Libia, immigrazione e energia sono le parole in cima alla nostra agenda, ha scommesso sul governo Serraj, è in conflitto con la Francia che a Bengasi continua a fare i suoi giochi di guerra (come nel 2011) e sostiene l’azione militare del generale Haftar che punta di fatto alla dissoluzione della formula di governo favorita dalle Nazioni Unite. Vinceremo?
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Le mosse di Angela e Theresa. Germania e Regno Unito sono i paesi da osservare per capire le sorti dell’Unione europea. I passi di due donne, Angela Merkel e Theresa May, sono quelli da seguire per provare a vedere il futuro. Dopo le elezioni di Berlino la cancelliera ha pigiato il pedale del freno sulla sua politica migratoria, si azzera tutto, il milione di rifugiati siriani accolti in Germania nel 2015 sono stati un episodio. Non siamo ancora all’azzeramento del calendario politico, ma è chiaro che si riparte da un’altra prospettiva: quella di accoglierne il meno possibile. Questo annuncio della Merkel avrà conseguenze anche sull’Italia. E qui si aprono una serie di problemi legati allo scontro tra Matteo Renzi e la cancelliera. Le relazioni con la Germania sono al minimo storico dell’èra Renzi che ieri ha risposto duramente anche alle critiche del presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Abbiamo una posizione di forza sulla quale giocare per ammorbidire i tedeschi su immigrazione e flessibilità di bilancio? Forse, ma abbiamo anche debolezze, prima fra tutte il debito pubblico che è al record storico. Resta sul tavolo del risiko l’indietro tutta della Merkel sull’immigrazione, l’impatto dell’ascesa degli ultra-conservatori di Afd in Germania che ormai corrono verso il Bundestag – partito guidato da un’altra donna, Frauke Petry – e la sensazione che a Berlino, dopo il fallimento del vertice di Bratislava, stia bollendo in pentola una strategia di duro confronto con gli altri partner europei. Rompono i piatti e i patti? Per la Germania si (ri)aprirebbe lo scenario della Kerneuropa, teorizzato guarda caso da Wolfgang Schauble e Karl Lamers nei primi anni Novanta: la creazione di un nocciolo di paesi con una cooperazione rafforzata e gli altri – il Club Med riunitosi a Atene qualche giorno fa - fuori da questo mini-sistema. Se non c’è l’Unione, prevalgono naturalmente forze che tendono all’uscita verso altri mondi.
E’ un fenomeno reso visibile dalla Brexit e dalle mosse del primo ministro britannico Theresa May che in queste ore è in visita negli Stati Uniti. La May ha incontrato alcuni esponenti di primo piano della comunità finanziaria a Wall Street: Goldman Sachs, Morgan Stanley e BlackRock. Gli interessi dell’Inghilterra sono noti: mantenere il primato della City come centro finanziario globale, saltare come un canguro la complessa trattativa con l’Unione europea stringendo partnership economiche bilaterali. Ci riuscirà?
Fortezza America. Il nemico è in casa, l’attentatore di New York era nato in Afghanistan, abitava e lavorava nel New Jersey, la fortezza America non è sicura e il dibattito sul terrorismo è tornato in cima alla lista degli argomenti elettorali. Hillary Clinton sta provando a respingere la carica di Donald Trump sul tema quando mancano sei giorni al duello televisivo tra i due candidati. La sensazione che “dobbiamo prepararci a Trump” si sta diffondendo. Il New Yorker pubblica un articolo con questo titolo: “Il primo mandato del Presidente Trump”. E’ un’analisi molto interessante sulle forze che muovono The Donald, le sue idee, i suoi primi ipotetici provvedimenti, il suo pragmatismo che confida nella bontà della pratica dell’accordo commerciale applicata al contesto politico. Prima di tutto questo però bisogna vincere e nonostante il grande recupero, Hillary resta in testa nel conteggio dei voti. Ha sempre meno margini, in Florida Trump sta consolidando il consenso e di solito chi vince la Florida vince gli Stati Uniti. Questo grafico elaborato da Nate Silver mette in fila gli stati che saranno decisivi nell’assegnare la presidenza:
Ora confrontate la tabella qui sopra con questa mappa dei collegi elettorali, quelli blu sono guidati dai democratici e quelli rossi sono dei repubblicani. La Clinton ha ancora buone possibilità di vittoria, ma si stanno riducendo velocemente. L’appuntamento chiave a questo punto della campagna elettorale è il 26 settembre, giorno del confronto televisivo tra Hillary e The Donald. Il voto a Trump per molti commentatori appare impossibile, la parola ricorrente è bugia. Vero, l’iperbolica campagna di Trump appare spesso surreale, il nemico numero uno di The Donald è proprio Trump, ma forse per capire cosa sta accadendo in America bisogna rovesciare il punto di vista, invertire il quesito, come ha fatto il titolare di List la notte scorsa a Tg3 Linea Notte. La domanda che debbono farsi i democratici (anche quelli di casa nostra) non è: “Perché molti americani vogliono votare Trump” ma: “Perché molti americani non vogliono votare Hillary?”. Unite i puntini e troverete una parola: establishment.
20 settembre. Nel 2004 gli Stati Uniti revocano l’embargo commerciale e militare con la Libia. Il presidente era George W. Bush e il tentativo era quello di far rientrare Gheddafi in pieno nella comunità internazionale. Dodici anni dopo, sotto la presidenza di Barack Obama e dopo l’iniziativa militare della Francia e del Regno Unito, la Libia è uno stato semi-fallito.
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