Donald Trump e Theresa May (foto LaPresse)

Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi

Il Novecento è finito con l'elezione di Donald Trump

Le figurine della vecchia foto scattata a Jalta, in Crimea, dopo la seconda guerra mondiale vanno sostituite. Churchill, Stalin e Roosevelt spariscono, entrano in scena May, Putin e Trump.

Mario Sechi

Le figurine della vecchia foto scattata a Jalta, in Crimea, dopo la seconda guerra mondiale vanno sostituite. Churchill, Stalin e Roosevelt spariscono, entrano in scena May, Putin e Trump.

Santa Geltrude

Jalta 2.0 Il Novecento è finito con l’elezione di Donald Trump. Il secolo breve raccontato da Eric Hobsbawm ha esalato il suo ultimo respiro la notte dell’8 novembre. C’è un nuovo inizio, serve un nuovo ordine mondiale (nota sul taccuino: si consiglia la lettura di World Order di Henry Kissinger) e le figurine della vecchia foto scattata in Crimea dopo la seconda guerra mondiale vanno sostituite. Churchill, Stalin e Roosevelt spariscono, entrano in scena May, Putin e Trump. Non vi piace? Alla storia non interessano i gusti del pubblico, va avanti come un treno. Quello di Trump. Sulla nuova Jalta il titolare di List ha detto umilmente la sua ieri sul Foglio. Oggi sul Corriere della Sera il lesto e desto Paolo Valentino sferruzza abilmente un articolo dove parlano un po’ di esponenti della diplomatic community e tra i sospiri (ah, Trump) ecco affiorare Jalta sulle labbra di Joschka Fischer, ex ministro degli esteri della Germania: “Sulla Russia, credo che Trump pensi a una Yalta 2.0, un grande accordo con Putin. Ma non è più così semplice. Non funziona dicendo: Ucraina e Georgia sono vostre, questo è nostro»”. Può darsi che non funzioni, ma le aree di influenza esistono, è la storia che uscita dalla porta del paradiso di Francis Fukujama (Fine della storia, 1992) rientra dalla finestra infuocata di Samuel Huntington (Lo scontro di civiltà, 1993) e propone ai governi un nuovo patto per il futuro. Tesi ardite del titolare di List? Non siamo soli nell’universo, ecco un articolo di Shadi Amid, studioso della Brooking Institution pubblicato ieri su Foreign Policy, titolo: “The End of the End of History”. I leader delle grandi potenze contemporanee coltiveranno l’idea di una nuova Jalta? Non lo sappiamo ancora. Ma il treno corre, attraversa le grandi pianure del cuore d’America, fa sosta sul Tamigi, passa sui binari posati sul permafrost della Siberia, punta verso la Grande Muraglia: Stati Uniti, Regno Unito, Russia e Cina. E il resto del mondo? Brucia, per questo servono i pompieri.

Trump? Lo scenario di ieri, oggi (e forse domani). Ieri in un seminario sulle elezioni americane alla Commissione Esteri della Camera. Con la lucida Marta Dassù, il coriaceo Andrew Spannaus e il classico Massimo Teodori c’era anche il titolare di List con il suo taccuino pieno di scarabocchi su Trump e il nuovo secolo americano. Qui il video della mattinata di lavori.

E Wall Street? Il Dow Jones ha messo a segno il suo quarto record storico consecutivo, perfino in una seduta (quella di ieri) che non sembrava da guiness dei primati.

 

 

C’è spazio di crescita anche per i titoli delle banche, considerati declinanti prima della vittoria di Trump. Perché? Il programma fiscale di un’amministrazione repubblicana e la riforma delle regole. Succede per le banche americane. In Europa e soprattutto in Italia la musica è triste, vedere alla voce Monte dei Paschi di Siena. Il problema italiano è sempre alla cassa.

Ford vs Trump. Il numero uno della Ford, Mark Fields, dice che le idee protezioniste di Trump sono un problema. Per chi? Per lui, ovviamente. La Ford infatti ha un programma di delocalizzazione della produzione di auto di piccola cilindrata in Messico. Camion e van in America, il resto un metro fuori dal confine americano. C’è un dettaglio: produrre dove il lavoro costa poco e lo stato è un semilavorato di classi politiche corrotte e cartelli della droga, per poi vendere le tue merci dove c’è la libertà conquistata e pagata a caro prezzo dal popolo americano, non è il fondamento del capitalismo, è la lezione numero uno di Gordon Gekko: l’avidità.

Global Trumpism. Per sapere, per capire, leggere su Foreign Affairs l’articolo di Mark Blyth, docente della Brown University: “La vittoria di Trump era prevedibile ed era stata prevista, ma non guardando i sondaggi”. I segni c’erano tutti – List in questi mesi ne aveva individuato parecchi – e bastava unire i puntini delle elezioni inglesi, della Brexit e del voto americano per avere un quadro più attendibile rispetto ai sondaggi. Bisognava guardare a destra e a sinistra per vedere i vulcani attivi della politica: “L’era del neoliberalismo è finita, l’era del neonazionalismo è cominciata”. Buona lettura.

Giornali italiani. Renzi ha messo il pre-veto a un pre-bilancio dell’Unione europea. Disperazione fiscale? Mossa elettorale? Entrambe, ma soprattutto un altro segnale sulla crisi profonda della governance dell’Unione europea. I quotidiani fanno l’apertura sul tema. Il primo caffè se ne va con il Corriere della Sera: “Il veto italiano a Bruxelles”; Repubblica inserisce la variante climatica: “L’Italia gela Bruxelles. Veto sul bilancio Ue. Renzi: traditi i patti”; Carlino-Nazione-Giorno vanno giù piatti: “Renzi, lo stop all’Europa”; La Stampa è più hard rock con punte di pop: “Renzi: basta soldi a questa Europa”; caffè ar vetro e Il Messaggero: “Bilancio Ue, il veto di Renzi”. Titoli tutti uguali, il giornalista collettivo è tornato, anzi, non se n’è mai andato. Altro? Un titolo sul Mattino: “Palcoscenico allagato, paura per il San Carlo”. L’alluvione a teatro ci mancava. Acquazzone? Temporale? Catastrofe climatica? Calma, siamo a Napoli, le cose non possono essere così scontate: è entrato in funzione alla grandissima l’impianto anticendio, senza neanche l’ombra di una fiamma, di uno zolfanello, di una candela nel buio. Geniale.

Berlusconi: Renzi unico leader dentro la politica. Silvio l’ha detto stamattina. Che succede? Succede che Berlusconi fiuta aria di Sì al referendum. Succede che se vince il No c’è sempre la carta Salvini. E dunque succede che il neoliberale mite, Stefano Parisi, è già a pre-fine corsa. Fare il delfino con Berlusconi ha un esito certo: si finisce sempre nella rete. Alla prossima battuta di pesca.

16 novembre. Nel 1914 apre i battenti la Federal Reserve. Comincia l’epoca delle banche centrali.

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