Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi
Meno quattro al referendum, avanti miei Prodi
L'ex premier ha detto Sì. Che doveva fare? Prodi non è D’Alema e negli ultimi anni ha pure fatto un suo originale percorso e dunque il Sì ci sta tutto, svuota Prodi dall’ombra del rancore e riempie le prime pagine dei giornali
Sant’Eligio.
Meno quattro, miei Prodi. Romano Prodi ha detto Sì. Sofferto, un po’ piegato, proprio un tormento tutto da confessionale, quasi un cilicio. Eh sì, dover dare una mano al Bomba di Palazzo Chigi, pure questo gli è toccato al Prof. Domanda del titolare di List: ma che doveva fare? Prodi non è D’Alema e negli ultimi anni ha pure fatto un suo originale percorso – “critico”, direbbero le professoresse col cerchietto in testa – e dunque il Sì ci sta tutto, svuota Prodi dall’ombra del rancore e riempie le prime pagine dei giornali. Repubblica fa l’apertura: “La scelta di Prodi: sì per le riforme”. Il titolo è ammobiliato benissimo da Eugenio Scalfari che sferruzza uno dei suoi pezzi, tesse una trama sull’appuntamento con il referendum (e la storia), sono passaggi intrisi nel ricordo (l’appello dei repubblicani), la cronaca del giornale fondato e amato (l’amaca di Michele Serra, l’intervista di Arturo Parisi) e la storia, questa maestra inesorabile, puntuale, onesta fino in fondo, la storia che Scalfari mette sul suo telaio per riscoprirne una trama del contemporaneo, Renzi e lo spettro della sconfitta: “A Waterloo Napoleone era sicuro di vincere perché a metà della battaglia sarebbe arrivato sul fianco destro del fronte il generale Grouchy con le truppe di rinforzo. Invece arrivò il feldmaresciallo tedesco Blücher che prese Napoleone alle spalle e la battaglia finì con la ben nota storica sconfitta”. E il Sì di Scalfari, un memento che si scioglie in un augurio: “Buona domenica cari lettori e carissima Italia”. Meno quattro.
Petrolio. L’Opec taglia la produzione, il prezzo sale, i mercati acquistano velocità e fiducia, la geopolitica dà un segnale di cambiamento (Arabia Saudita e Iran trovano un terreno comune) e in un batter d’occhio siamo tra pozzi e giacimenti, pompa di benzina e catena di montaggio, la storia, la realtà. La vita è una questione leggermente diversa rispetto alla realtà virtuale di Zuckerberg e degli aspiranti ammaestratori di scimmie da Facebook. La vita è semplicemente, inesorabilmente, energia materiale e spirituale. Quando fa freddo accendi il fuoco, non posti un like in bacheca. Il petrolio è una delle risposte a questo bisogno. E lo sarà ancora per lungo tempo, basta guardare i numeri sulle fonti, la diffusione nel settore della mobilità. Sui mercati la faccenda è tradotta da questo balzo:
Una notizia flash, e cade a pezzi tutto il racconto della contemporaneità hi-tech, quella che avrebbe archiviato il lavoro, la produzione, la manifattura, l’operaio, la fatica, il sudore e sostituito la realtà con due messaggi su Twitter e un clic di Instagram. Se il prezzo del petrolio torna sopra i 50 dollari, succedono cose che hanno a che fare con i bilanci delle aziende e delle famiglie, con il ferro, il gas, il carbone e l’acciaio, gli elementi che continuano a costruire il domani. Le materie prime, una cosa lontana anni luce dalla storia degli startappari da happy hour.
Fabbrica. L’8 novembre 2016 – elezione di Donald Trump – quella storia scritta per somministrare gli anabolizzanti alle capitalizzazioni di borsa e distrarre la massa dal problema (dov’è il lavoro?) è finita. Le performance dei titoli per la gente elegante sono crollate, è tornata la fabbrica, la tuta sporca di lubrificante, il camice bianco dove il laboratorio è precisione e competenza. Produzione. Manca solo il meraviglioso fruscìo della carta dei giornali, il battere ritmico della rotativa e poi il ritorno a un futuro dove sono ristabilite due o tre gerarchie di merito è completo. Un sogno? Seguite il titolare di List. Il mercato riflette questo passaggio, traduce il linguaggio, ecco un quadro significativo delle quotazioni dei settori di Wall Street nell’ultimo mese:
Operai. Serve altro? Conglomerati, beni industriali, finanza, materie prime, servizi e sanità. I titoli tecnologici sono in zona retrocessione, il posto che meritano in un campionato che sta tornando rapidamente sui campi da gioco della manifattura. Quale manifattura? Quale realtà? Questa, il presidente degli Stati Uniti che twitta sulle vendite di condizionatori d’aria!
Indiana, stabilimento Carrier, 2.100 posti di lavoro stavano traslocando in Messico, Trump ne ha salvati 1.000. Ok, alzate il ditino e ditelo: “Sono pochi! Sono niente!”. Sembra una commedia di Mel Brooks, ma è solo il presente che avanza con la sua logica, quei mille posti sono una faccenda maledettamente concreta: la vita delle persone, una parola dimenticata, gli operai.
Manifattura. Certo, non fa fino in terrazza dire “hai visto Trump che vende sistemi di condizionamento?”, ma forse questo grafico sulla storia della manifattura americana (dunque occidentale) pubblicato in un recente studio del National Bureau of Economics può essere utile per posare (soavemente, mi raccomando) la tartina e il calice di champagne e tornare sulla terra:
Obiezione, vostro onore: quella discesa nell’abisso è figlia del progresso, dell’efficienza, della tecnologia, della globalizzazione! Vero, chi lo nega, solo che quando si scambia il mezzo per il fine, l’esito è quello del paradosso di Keynes: “Il governo dovrebbe pagare operai per scavare buche e poi riempirle”. Senza lavoro, arriva la fame. Con la fame, arriva il caos. Prima del caos totale, arriva il treno di un Trump.
Ricchezza. L’amministrazione di Donald Trump ha già un record: è la più ricca della storia moderna. Il Washington Post ha cominciato a fare i conti sui portafogli dei ministri. Il solo responsabile del Commercio, Wilbur Ross, ha un patrimonio di 2.5 miliardi di dollari, la famiglia di Betsy DeVos ha una fortuna da 5.1 miliardi di dollari. Messaggio ai cospirazionisti: calma e gesso è una novità della storia americana, i multimilionari sono un’infinità. Come ricorda il WP, il governo di Eisenhower era chiamato così: “Nove milionari e un idraulico”.
Big Mac. Michael “Jim” Delligatti non è un regista indipendente di Hollywood, non è uno scrittore di nicchia talmente di nicchia da essere celebrato sulle pagine del New Yorker, no, Jim Delligatti è semplicemente l’inventore di una cosa che è entrata nell’immaginario di tutto il mondo: il Big Mac, quel panino così speciale da essere venduto in cento paesi. Fu creato nel 1967 da Delligatti nel suo ristorante di Uniontown, in Pennsylvania. E’ morto a 98 anni, dopo aver aperto 48 ristoranti McDonald.
1 dicembre. Nel 1913 la Ford introduce la prima catena di montaggio. La fabbrica, il Novecento, il lavoro. Alla fine, la storia è un eterno ritorno.
Il Foglio sportivo - in corpore sano