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Sei ragioni per cui Renzi spinge per votare subito

Mario Sechi

Il premier si interroga sulle prossime mosse. Farsi logorare in questi mesi? O andare subito alle elezioni?

San Nicola.

 

Che fare? E’ la domanda del compagno Lenin che si sta ponendo in queste ore Matteo Renzi. Farsi logorare in questi mesi? O andare subito al voto? Renzi preme per la seconda ipotesi e ha molte valide ragioni per provare a percorrere quella strada. Il titolare di List ne elenca un paio, in rigoroso ordine sparso:

 

  1. Il logoramento. Renzi dovrebbe sostenere un governo transeunte oggetto di martellamento da parte delle opposizioni, esserne azionista di maggioranza senza condividerne le ragioni della nascita e lo scopo finale. Non solo, se si ragiona sulla scadenza naturale della legislatura (2018) Renzi dovrebbe assistere alla minoranza interna (che nel frattempo si irrobustirà, è la fisiologia del potere) che taglia con la sega le gambe della sua sedia di segretario. Il tutto in un clima in cui l’unico reale vincitore della partita referendaria è il Movimento 5Stelle;
     
  2. Il momentum. La forza del mercato elettorale. Renzi con una campagna solitaria ha totalizzato il 40 per cento dei consensi sul Sì. Sono tutti suoi? No, ma è indubbio che siamo di fronte a una delle due figure carismatiche (l’altra è Beppe Grillo) capace di attrarre voti. Ha perso? Sì, ma contro un cartello elettorale che il giorno dopo si è già sciolto, mentre Renzi pur sconfitto resta in campo come soggetto singolo;
     
  3. Il progetto. Una delle risposte al “che fare?” del compagno Lenin è il progetto: l’idea per andare avanti senza farsi abbattere dalla sconfitta del Sì. Quel 40 per cento non è la fine, ma il nuovo inizio sul quale costruire un movimento d’opinione. I grandi leader colgono le occasioni, fanno tesoro delle lezioni della storia, imparano dalle cadute e si rialzano. Se hai di fronte un cartello diviso, alle elezioni puoi vincere per effetto della frantumazione del quadro politico. Per farlo devi unire quelli che oggi si sentono smarriti in un paese che ha bisogno più che mai di una mappa per il futuro. Come tracciarla?
     
  4. Il Pd. Va chiuso. L’idea renziana di superarlo resta valida, ma l’esecuzione è stata sbagliata. Il Pd paradossalmente oggi è il partito che ha meno capacità attrattiva. C’è osmosi nell’area della protesta e della destra (gli elettori leghisti e della destra votano i grillini ai ballottaggi e viceversa) ma nessun elettore moderato, di centro, liberale vota il Pd che tratta come figli di un Dio minore i riformisti senza casa. Chiudere il Pd significa tagliare definitivamente – una volta per tutte – il cordone ombelicale che lega quel partito alle macerie della storia. Il settarismo del Pd è un problema enorme e si risolve solo con scelte radicali. Farlo dentro significa portare il progetto alle estreme conseguenze: la scissione e la rifondazione del partito su altre basi culturali. Il Sì va ben oltre il Pd, ma per sfruttarne le potenzialità serve un altro contenitore. Restare segretario di una formazione che è di fatto isolata, incapace di allargare gli spazi (Carl Schmitt) e con una piattaforma politica lontana dalla contemporaneità è un gioco inutile. Deve dimettersi anche dalla segreteria, avere le mani libere e fare altro;
     
  5. Il tempo. Renzi non ne ha molto a disposizione. Deve scegliere ora. Ogni giorno perso tra governicchio e papocchio lo trascina nella palude e lo trasforma in un perdente. Di leader logorati, consumati e poi dimenticati è lastricata la storia della politica italiana;
     
  6. Il sistema. Si va chiaramente verso la scrittura di una legge elettorale proporzionale, con sbarramento minimo e premio di maggioranza (forse) altrettanto flebile. Questo significa un ritorno al vecchio schema dei governi di larga coalizione. In questo caso il modello storico di riferimento è quello della Democrazia cristiana: un grande sole intorno a cui ruotano gli altri pianeti. La conseguenza sul piano dell’azione politica è semplice: fa il governo ed esprime il presidente del Consiglio chi arriva primo e taglia il traguardo con un partito robusto, capace di aggregare altri soggetti. Il Pd per le ragioni esposte nei punti precedenti per ora non ha le caratteristiche per essere il centro di tutto, manca di forza aggregatrice. Si impone anche un cambio di stile per Renzi: deve trasformarsi da rottamatore a federatore. E deve farlo diventando trasformatore della sua esperienza e del partito. Ci riuscirà?

  

Zeitgeist in Italia. Il New York Times fa un punto sullo scenario in Italia e in Europa. Tra gli altri, c’è anche il commento del titolare di List:

 

In analyzing the results, Italian pundits did not always agree, except on one point: the severe consequences for Mr. Renzi.

“Does Renzi represent the country from a political, cultural point of view? Yesterday’s vote is a clear rejection of Renzi’s economic policies and of how he envisioned the country,” the political commentator Mario Sechi said. Mr. Renzi “doesn’t represent the zeitgeist of the nation, which did not follow him,” he added.

For Mr. Sechi, the Five Star Movement is the clear victor, even if the “no” campaign brought together divergent political forces.

  

Idee. Da dove si parte? Dalla realtà. L’Istat oggi ha pubblicato i dati sulle condizioni di vita e reddito degli italiani. Sono un buon punto di partenza per tornare con i piedi sulla terra e leggere la contemporaneità: “Nel 2015 si stima che il 28,7% delle persone residenti in Italia sia a rischio di povertà o esclusione sociale ovvero, secondo la definizione adottata nell'ambito della Strategia Europa 2020, si trovano almeno in una delle seguenti condizioni: rischio di povertà, grave deprivazione materiale, bassa intensità di lavoro”. Basta per costruire un soggetto politico capace di rispondere alle domande degli elettori? Le condizioni della middle class in Occidente sono più che mai precarie. La crescita economica – che pure c’è stata – non è una bussola fedele, perché c’è una crescente diseguaglianza e la frantumazione di quella che un tempo si definiva borghesia. Brexit, Trump e 4 dicembre hanno questa origine, non è l’unica ragione, ma non si può ignorare questo punto d’attacco. Molti mesi fa il titolare di List aveva pubblicato questo grafico tratto da uno studio di McKinsey, illuminante:

 


 


  

Unite i puntini, incrociate il dato economico con lo scenario politico: Italia (Grillo), Stati Uniti (Trump), Regno Unito (Brexit), Olanda (Exit dall’Ue), Francia (Le Pen e Fillon), Svezia (è finita la pax sociale). Non ci vuole una laurea all’università di Tubinga per capire che cosa sta succedendo. E’ la storia in movimento e dopo l’elezione di Trump sta accelerando. Dove va? Seguite il titolare di List.

 

L’Asia in movimento. Shinzo Abe andrà in visita a Pearl Harbor, non era mai accaduto nella storia politica, sarà la prima volta di un primo ministro giapponese nel luogo simbolo della Seconda guerra mondiale. Xi Jinping, il presidente della Cina andrà al vertice di Davos. Anche questa è una prima volta, il leader di Pechino al World Economic Forum con l’elite del capitalismo mondiale. Cosa sta succedendo? Effetto Trump: il Giappone è la portaerei degli Stati Uniti in Asia e sta collidendo con la Cina che, a sua volta, sta perdendo le sue certezze sulla collaborazione con Washington e sta aprendo il dialogo con altri attori della globalizzazione e del commercio mondiale.

 

Trump. What? Al Gore? Sì, Trump è uno spiazzista unico: ieri ha incontrato Al Gore per discutere sui temi del cambiamento climatico. Chi lui? Sì, chi altri. Quando i giornalisti hanno visto Gore all’ingresso della Trump Tower a New York non credevano ai loro occhi. E invece sì, l’alfiere del clima insieme al presidente che aveva affermato che il cambiamento climatico è un complotto della Cina. Grande sorpresa e dichiarazione finale di Trump: “Abbiamo avuto un incontro molto produttivo”. Come avevano detto in contemporanea Rudy Giuliani e Barack Obama, Trump non è ideologico, ma pragmatico. Incontrare Al Gore è un esempio di questo metodo di lavoro. E’ la grandezza dell’America.

 

6 dicembre. Nel 2005 David Cameron diventa il nuovo leader del Partito Conservatore Britannico. Sembrava destinato a durare vent’anni, la Brexit nel 2016 lo ha spedito a mangiare fish and chips nei (sempre meravigliosi) giardini di Londra. Sono tempi accelerati. Non ci credete? Il titolare di List consiglia la lettura di Social Acceleration. Allacciate le cinture e buon viaggio.

 

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