Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi
May va da Trump e sigla il ritorno dell'Anglosfera
La relazione speciale tra l’Isola d’Inghilterra e le sue ex colonie diventate impero ritorna al centro di una serie di scambi di binario che condurranno a un nuovo disegno del sistema di relazioni internazionali
Sant'Angela Merici.
May be. Il busto di Winston Churchill è tornato al suo posto alla Casa Bianca e il primo capo di Stato a calpestare il soffice prato del bellissimo Rose Garden (fu Ellen Loise Axson, moglie del presidente Wilson a allevarlo per prima nel 1913) nella villetta al numero 1600 di Pennsylvania Avenue sarà Theresa May, primo ministro del Regno Unito. Così Trump rimette le cose in ordine: torna l’Anglosfera. La relazione speciale tra l’Isola d’Inghilterra e le sue ex colonie diventate impero ritorna al centro di una serie di scambi di binario che condurranno a un nuovo disegno del sistema di relazioni internazionali. E il ruolo di Downing in questo nuovo Risiko sarà decisivo: gli inglesi sono ancora oggi un passaggio in Asia (il sistema finanziario di Hong Kong è di matrice inglese) e un ponte per il medio oriente (Londra è la residenza europea delle petromonarchie) su cui Trump potrà far viaggiare i convogli della sua diplomazia d’acciaio. L’incontro di oggi alla Casa Bianca è stato preceduto ieri da un discorso della May a Philadelphia di fronte ai vertici del partito repubblicano. Un intervento che è il preludio di quanto accadrà nei prossimi mesi: May ha ribadito l’importanza delle relazioni globali, l’importanza dell’alleanza anglo-americana nel “nuovo mondo”, spinto a ricucire con la Russia di Putin – “ma stando in guardia” – e dato un avviso che è la chiusura netta di un’epoca: “I giorni in cui la Gran Bretagna e l’America intervengono nei paesi sovrani nel tentativo di rifare il mondo secondo la loro immagine sono finiti”. Esportare la democrazia no, esportare le merci sì. Scindere le due cose non è affatto semplice, ma sono tempi in cui abbiamo visto il presidente della Cina, Xi Jinping, esaltare la globalizzazione e prendere gli applausi compiacenti dell’Homo Davos al World Economic Forum in terra svizzera.
Come andrà il vertice? Trump è sempre un imprevisto sul campo, può essere una catapulta o una gigantesca boa da superare. Il Times di Londra ritrae May e Trump con questa vignetta intinta nell’inchiostro di una tagliente metafora delle reciproche diffidenze:
L’arcigna New Lady di Downing Street e il cotonato biondo della Casa Bianca s’incontrano ma non si incrociano. Lei con lo sguardo in basso, lui con il volto in cerca di un flash, le mani destinate a non incontrarsi in una stretta d’intesa. La vignetta è un complemento d’arredamento su un articolo firmato da Michael Gove (leader del fronte del Leave) e su alcuni punti si coglie lo spirito di quello che sarà il ruolo futuro della diplomazia britannica: temperare il trumpismo, riequilibrarlo, bilanciarlo. Gove naturalmente scrive subito che Theresa May non sarà la Mary Poppins di Trump, pronta a correggere l’uomo della Casa Bianca, ma traccia un quadro molto interessante dell’agenda inglese: la premessa è che “la politica estera di Obama è stata un disastro” e da qui sale per i rami della diplomazia, dunque si rafforzino le alleanze a Est con il Giappone e in Medio Oriente con Israele e “non c’è spazio nell’intero giornale per elencare gli errori di Obama” che hanno favorito “l’ingresso della Russia nel vuoto” creato, “dopo 40 anni di assenza” dallo scenario. Il titolare di List ne consiglia vivamente la lettura, si possono opporre altre idee a quelle di Gove, ma di certo la sua è una visione destinata a diventare politica. Andranno d’accordo May e Trump? Questa è la domanda semplice, diretta. La vignetta inesorabilmente british, fa emergere la naturale distanza con un umorismo che dipinge un tratto, ma non tutto il disegno. Ci sono molte sfumature da cogliere, la prima è che gli inglesi dal 23 giugno dell’anno scorso (referendum, vittoria del Leave) sono un sommergibile nel fondo dei mari, esplorano gli oceani, ma prima o poi usciranno a quota periscopica e lanceranno i loro siluri. Trump è l’occasione per l’Exit della Brexit, non l’unica, ma la più ghiotta. Perché? E’ una formidabile arma di pressione nei confronti dell’Europa e in uno scenario dove la mongolfiera delle nazioni è sganciata dai punti d’ancoraggio, piazzare il primo colpo di cannone a Washington è un punto di vantaggio. May tenterà un’operazione di equilibrio tra il mondo nuovo di Trump e il Vecchio Continente. Il problema – o il vantaggio - è che gli inglesi e gli americani parlano la stessa lingua, la forza d’attrazione è quella del ciclopico magnete della storia. La fortezza America e l’isola d’Inghilterra sono metafore simili di una cultura che fu sintetizzata negli anni Trenta da un formidabile titolo del Times: “Fog in Channel, Continent cut off”. Stati Uniti e Regno Unito riusciranno nella modesta impresa di ridisegnare il sistema di relazioni internazionali? May be.
Sovranisti d’Italia. Ci sono anche loro. Piccoli, senza un reale programma, una cultura politica che ne razionalizzi le pulsioni. Sono cominciate le prove tecniche di piazza e domani a Roma cominciano la loro lunga (o corta) marcia. Giorgia Meloni e Matteo Salvini partiranno da piazza San Silvestro a piazza della Repubblica. “Saranno in piazza tutte quelle forze che vogliono ricostruire una proposta politica partendo dal concetto di sovranità, cioè dalla difesa degli interessi degli italiani, prima di tutto. In pratica vogliamo la difesa dei confini, la difesa della nostra economia, dei nostri prodotti, della nostra identità, del nostro interesse in politica estera”, questo dice la Meloni. Elementare Watson, direbbe Sherlock Holmes, solo che non c’è la soluzione, la proposta politica concreta, la cultura che dà una prospettiva e profondità alla politica. Hanno con loro il vento della storia, ma può non essere sufficiente in un sistema politico tentato dal ritorno al paludismo della Prima Repubblica. Per esser chiari: Meloni, Salvini, Toti e compagnia si propongono come una forza rivoluzionaria in un paese che sta prendendo dosi titaniche di camomilla. Risvegliare il gattone italiano significa costruire un paesaggio, un immaginario, se l’orizzonte è quello di un campo Hobbit, non si va lontano. In ogni caso domani quello è l’appuntamento da segnare nell’agenda politica.
Berlusconi e Renzi. Sono attratti dalla condizione naturale del sistema tripolarizzato, ma con problemi interni speculari. Renzi non deve favorire una scissione interna, subisce il richiamo del centrosinistra unito, la riedizione dell’Ulivo, sa che può prendere un certo numero di voti ma non fa un governo del domani da solo. Berlusconi ha un partito-non-partito con un problema di voti, ma un peso specifico superiore a quello che può oggi esprimere nell’urna. Come capitalizzarlo? Andare verso le larghe intese con Renzi o seguire l’idea sovranista? Sta nel mezzo. Spesso ha funzionato, stavolta però è un rischio gigantesco che ha un nome: Grillo.
Make Five Stars Great Again. E’ il Movimento 5Stelle quello che è salito sul treno a vapore di Trump con tutte le truppe. Grillo sul Journal de Dimanche ha abbracciato il programma protezionista del presidente americano, lo ha definito “un moderato”, ne ha colto l’essenza. Qui sta il punto chiave di tutto il prossimo scenario italiano: chi beneficerà della spinta che arriva dall’America di Trump? E qui sta anche il dilemma di Berlusconi e Renzi: siamo sicuri che il giorno dopo le elezioni non esca dalle urne una maggioranza sovranista in grado di andare a Palazzo Chigi? No, non ne sono sicuri. Senza alleanze e coalizioni dichiarate prima (e dopo), con il gioco delle mani libere, tutto è possibile. La Corte costituzionale ha dato ai partiti un Paludellum che è una porta aperta verso una terra ignota, è un Exitellum. E questione di un attimo. Vince chi lo coglie. E questa volta il visto si stampi potrebbe essere l’imprevisto. Al voto al voto? In queste condizioni? Tanti auguri.
27 gennaio. Nel 1861 si svolgono le prime elezioni politiche dopo l’unità d’Italia.
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