Fatti, commenti, appuntamenti del giorno presi dal taccuino di Mario Sechi
L'attacco alla Siria dà un colpo all'immaginario di cartapesta dei Never Trump
L’isolazionista non è isolazionista, l’amico dei russi non lo è per niente e il protezionista vi sorprenderà
San Giovanni Battista de la Salle.
L’isolazionista non è isolazionista, l’amico dei russi non lo è per niente e il protezionista vi sorprenderà (forse) tra qualche ora dopo l’incontro con il presidente cinese Xi Jinping. L’attacco alla Siria ha dato un altro colpo all’immaginario di cartapesta dei Never Trump, i quali ora si trovano alle prese con un dilemma: ma se attacca la Siria da solo e lo fa contro Putin, tutto il nostro racconto dell’eletto da Mosca crolla, il mito dell’isolazionista che si chiude nella fortezza America evapora, e ora come ce la caviamo con l’audience dei nostri show? Tranquilli, il generatore di giustificazioni per intelligenti a prescindere, è inesauribile e dunque, ladies and gentlemen, si fa un altro passo indietro, si apre lo scatolone degli anni Ottanta, si dà una spolveratina alla foto di Ronald Reagan e via, la mattinata parte contro il ritorno del “gendarme del mondo”.
Uno dopo l’altro, tutti i feticci retorici costruiti intorno alla figura di Trump si stanno sbriciolando di fronte alla realtà aumentata di un non ipotecabile Trump. I lettori di List conoscono il punto e il contrappunto di un presidente sopra e sotto le righe, ma profondamente diverso dallo storytelling della rotativa collettiva. Non è una questione di meglio o peggio – Trump ha i suoi grandi difetti, come i suoi pregi – è che le categorie semi-ideologiche con cui è stato interpretato non entrano nel personaggio, lo trasfigurano come lo immaginano i suoi avversari – e i fan in preda alla sbornia sovranista - ma non lo raffigurano nella sua poliedrica imprevedibilità. Trump non è un repubblicano (ma è più vicino di quanto si immagini al partito delle origini), non è ideologico ma pragmatico (l’unica cosa che di lui capì subito Obama), non è un roccioso portatore di verità inscalfibili, ma un negoziatore abituato anche a perdere. Bombardare Assad fa parte di questo tratto flip flop, è un gioco d’azzardo dove può vincere o alla fine perdere, è Trump.
L’attacco alla Siria si incrocia con le provocazioni balistiche dello svitato dell’Asia, Kim Jong-un il dittatore della Corea del Nord, e il vertice in corso in Florida tra Trump e il presidente della Cina Xi-Jinping. Il timing è fondamentale: la Casa Bianca ha lanciato il pre-avviso a Kim, detto a Xi che è meglio che la Cina si occupi subito del suo vicino radioattivo, recapitato a Putin un pizzino con la scritta: il Commander in Chief non si chiama Obama.
Riepiloghiamo i fatti e vediamo dove ci conducono.
Il fatto. Gli Stati Uniti hanno lanciato nella notte un attacco missilistico contro la Siria.
L’antefatto. L’attacco americano arriva dopo un bombardamento delle forze di Assad nel Nord della Siria, a Khan Shaykhun, che ha provocato 70 morti. Il regime avrebbe usato agenti chimici. La Russia nega che il regime di Assad abbia usato il gas. L’indagine dell’Onu ha trovato tracce di Sarin.
Dove. Il bersaglio numero uno dell’attacco americano è la base aerea di Shayrat, vicina al confine a Nord del Libano, il luogo da dove sono partiti i bombardieri che hanno bombardato Khan Shaykhun. Il Pentagono ha detto di aver colpito hangar, depositi di armi, radar e altre strutture logistiche dell’esercito di Assad.
Come. Cinquantanove Tomahawk sono stati lanciati dalle navi lanciamissili USS Porter e USS Ross, in missione al largo delle coste del Mediterraneo orientale. L’attacco è partito quando in Siria le lancette dell’orologio segnavano le ore 4.40.
Le armi. I Tomahawk sono missili a lungo raggio prodotti dalla Raytheon. Viaggiano a velocità subsonica, a bassa quota, sono teleguidati, sono stati usati per la prima volta in un teatro di guerra nell’operazione Desert Storm nel 1991. Ogni Tomahawk costa circa 600 mila dollari. Il bombardamento di ieri notte è costato – per la parte riguardante i soli missili – circa 36 milioni di dollari.
Raytheon. L’azienda del Tomahawk è il più grande produttore di missili teleguidati del mondo. E’ quotata a Wall Street e la sua capitalizzazione di borsa è di 43.92 miliardi di dollari, ha 63 mila dipendenti, il titolo negli ultimi cinque anni è passato da 52.53 a 150.75, nell’assemblea del 31 marzo scorso ha aumentato il dividendo del 9 per cento e lo ha distribuito (aumentato) ai suoi azionisti per la tredicesima volta consecutiva, le forniture all’estero sono pari al 31 per cento delle vendite totali, il settore geografico che ha contribuito di più alla crescita è il Medio Oriente e Nord Africa.
Tra gli azionisti figurano il fondo BlackRock e Bank of America. Sarà interessante vedere l’andamento del titolo in Borsa nelle prossime ore.
Wall Street. L’attacco in Siria conduce a un’ulteriore evoluzione del Trump Trade in Borsa, legata alla politica estera da hard power della Casa Bianca. Gli investitori hanno cominciato ad acquistare oro, yen e titoli di Stato. L’oro ha toccato il massimo degli ultimi cinque mesi, il prezzo del petrolio è salito dell’1.7 per cento, il Brent è quotato 55.79 dollari a barile, si temono ripercussioni nella produzione dell’area medio orientale. I mercati europei stamattina sono tra il rosso e il verde pallido, vedremo le chiusure nel pomeriggio, tutti stanno con gli occhi puntati al vertice tra Trump e Xi in Florida.
Putin. E’ la più temibile incognita sul tavolo di Trump. Cosa farà Putin dopo l’attacco? I russi erano avvisati, il Pentagono ha lanciato i Tomahawk subito dopo essersi assicurato di non avere nel radar le forze del Cremlino. E’ scontata la reazione di condanna della Russia, ma sono le mosse successive ad essere tutte a carte coperte. Definire la Siria uno stato sovrano è come cercare di afferrare l’aria, sostenere Assad ora e sempre è impossibile, morire per lui ancora meno, ma rinunciare al ruolo di game changer in Medio Oriente per Putin è altrettanto fuori discussione. La ritirata di Obama gli ha dato uno spazio di manovra che Putin ha rafforzato con l’alleanza con l’Iran e il ripescaggio della Turchia di Erdogan. E’ cominciata una partita a scacchi lunghissima. E gli americani hanno vinto il mondiale di scacchi una sola volta nella storia, il 1° settembre del 1972 in Islanda, a Reykiavik, quando Bobby Fischer con le sue mosse da labirintite strappò l’applauso dell’avversario, il sovietico Boris Spasskij, il gentleman degli scacchi. Chi giocherà meglio tra Trump e Putin? E chi è il gentleman tra i due? Forse nessuno.
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