Decoratori & imbianchini
Magnifica questa zona di Torino sopra la Gran Madre di Dio. Non è ancora l'isolamento superbo ma sterile della collina e non è più il traffico e i traffici del centro alla sinistra del Po, affollato di schiavi dell'aperitivo. A dire il vero il Vitel Etonné in via San Francesco da Paola è semideserto, forse per l'ora (essendo vicino all'università, facoltà di Lettere, sarà frequentato di giorno). A parte il nome curioso ha il raro merito di esibire le bottiglie di Camillo Donati, vignaiolo di Parma che nessun locale di Parma osa proporre siccome i suoi vini fanno impressione da quanto sono naturali e sani. Pullulante invece la Drogheria di piazza Vittorio Veneto: visto il nome si pensava a chissà quali loscaggini e invece la birra è buona e il buffet ottimo e abbondante. Qui purtroppo finiscono i portici, tocca fare sotto la pioggia il ponte Vittorio Emanuele e poi la lunga via Lanfranchi dall'inizio alla fine per arrivare fradici alla trattoria in questione, l'ultima casa prima della collina. Il giardino e le fiaccole accese e l'arredamento sono da cenetta romantica, la sala al piano di sopra ha un soffitto gozzaniano, da qualche parte potrebbe spuntare Amalia Guglielminetti. Ma per il resto è soltanto un posto alla buona, con gli antipasti già pronti sul tavolo come alla trattoria Valenza: insalata russa, gianduia (che qui non è un cioccolatino ma un misto di verdure), involtino di bresaola e formaggio (nutrizionalmente scorretto). Però il servizio, diversamente che alla Valenza, è garbato. Lista corta, cortissima, bene così, quindi agnolotti di zucca e risotto con salsiccia di Bra al quale i vicini, non paghi di tanta sostanza, infliggono abbondante formaggio grattugiato. Brasato al barolo, filetto di maiale con le noci, flan di verdure, fagiolini bolliti molto sodi. Come dolci lo zabaione e una pesca simil-Melba (cioccolato e amaretto). Carta dei vini piccola ma più seria che in tanti locali blasonati e presuntuosi, con nomi di livello: Martinetti, Braida, Cascina Gilli… Noi che andiamo sempre a caccia di inediti scegliamo il Pelaverga di Verduno del commendator Burlotto, rosso iperautoctono che si fa bere. Spesso questa rubrica abbassa locali celebrati, stavolta alza un posticino che gli amici torinesi giudicano come segue: “Ci andavo negli anni Ottanta. Un covo di comunisti con pessimo vino, lì sono cominciati i miei problemi di stomaco”, “Una volta era il quisibeve di poveri veri, adesso è il ritrovo dei giovani noglobal anoressici e delle rossande. Il secondo era un gulasch”. I tempi sono cambiati, il vino è migliorato, le rossande e il gulasch non li abbiamo notati, e se la cucina non è suprema (nemmeno lontanamente) non ci vengono in mente locali da trenta euri, vino compreso, il cui soffitto ricordi gli amori di un poeta. (recensione del 19 gennaio 2007)
Il Foglio sportivo - in corpore sano