La Gallina
Bello e buono e nuovo. Non sono aggettivi che si possano spendere spesso tutti insieme. Bello anzi bellissimo il ristorante La Gallina, come il verde delle colline di quest'angolo di Piemonte che è quasi Liguria, dove bucolici boschetti convivono con le vigne di Cortese, l'uva bianca da cui si ricava il Gavi. Fantastico il vecchio fienile trasformato in ariosa sala da pranzo galleggiante sul magnifico panorama. Per tutta la durata del pranzo osserviamo incantati gli enormi lampadari di ferro, reggenti decine di lumini di cera: vengono accesi solo in particolari occasioni (l'operazione è laboriosa), in sere di sfrenato romanticismo. Per arrivare alla Gallina si attraversa un edificio storico nel cui sottosuolo si trovano le cantine di Villa Sparina mentre al piano di sopra ci sono le camere dell'Ostelliere. L'arredamento dell'intero complesso, ovviamente ideale per fughe d'amore, è stato curato da Monica Lupi che meriterebbe discorsi e applausi a parte. Buono anzi buonissimo: la trippa è una delle due migliori mai assaggiate (l'altra è di Davide Oldani). Il problema della consistenza di questa frattaglia di perigliosa riuscita viene qui risolta non tagliandola a bistecca, come avviene al D'O, ma al contrario riducendola a fini striscioline. Una leggera e gustosa e candida (sbiancata col limone) trippa capelli d'angelo. Altissimo esito anche la trota della Val Borbera con salsa all'uovo. Coraggiosa la milanese di cervella. Indiscutibile l'agnolotto. Tenerissima la guancia di Fassone. Notevoli i dolci. Meritevole l'attenzione a microproduzioni locali come le pesche di Volpedo e la commovente fragola profumata di Tortona. Il palato di Roberta Schira non sbaglia un colpo: è stata lei a segnalarci il giovane cuoco Massimo Mentasti, talento inedito ancora assente dalle guide. Nuovo anzi nuovissimo: Mentasti non proviene dalle cucine di chissà quale star ma da una gavetta periferica (Valle d'Aosta, Sardegna) presso locali i cui nomi dobbiamo farci ripetere perché non ci dicono molto. Tutti i meriti sono quindi suoi personali, compresa la saggezza di mantenere in carta una riserva indiana di ingredienti databili (il tonno degli anni Novanta, le capesante degli anni Zero) per rassicurare i clienti casuali. Per comprendere appieno la sua abilità tecnica bisogna com'è ovvio mobilitare il gusto mentre per capirne il carattere basta la vista, osservare la forza tranquilla dell'impiattata, senza dispersioni pseudodecorative, su bianchi piatti rotondi. Un amico ci racconta di aver mangiato molto bene da Davide Palluda all'Enoteca di Canale. “Ma usa piatti quadrati!” reagiamo sdegnati. “Sì”, conferma rassegnato. “E' un giovane chef, che ci vuoi fare.” Invece Palluda è un semigiovane, ha 37 anni, mentre Mentasti è giovane davvero. Tenetevi stretti: 25 anni. (recensione del 15 giugno 2008)
Il Foglio sportivo - in corpore sano