La conchiglia
Ecco Marina di Massa, la villa che zio Fernando prendeva in affitto, tra quei bei pini, e mangiava ridendo gli scampi e maionese, non prevedeva l'infarto così presto” scrive Arbasino nelle “Piccole vacanze” (1957). Chissà se esiste ancora la villa del povero zio, magari è vicina all'albergo d'epoca sul lungomare nel cui seminterrato (però luminoso) si trova la Conchiglia. Sì, siamo noiosi, appena entrati notiamo le applique tremende, per di più accese, forse allo scopo di farle notare maggiormente. Lo chef in persona porta con gesto svogliato qualcosa che somiglia a prosecco, preferivamo del vermentino ma nessuno ha chiesto il nostro parere. Anche i cosiddetti antipastini sembrano obbligatori e come spesso accade sono un pasto. Ma prima arriva quello che lo chef forse straniero chiama “appetizer” e che noi, di lingua italiana, definiamo “benvenuto”: una carnosa alice marinata. Quindi sopraggiungono: 1) triglie anch'esse marinate; 2) granchio svuotato, pulito e riempito della sua stessa carne condita con olio e limone, un bel granseolone per essere precisi, con chele sfruttabili grazie alle pinze spaccachele, ed è il vertice di questo pranzo e non solo di questo, non ricordando nulla di altrettanto goloso da Bocca di Magra a Bocca d'Arno; 3) calamari allo spiedo ripieni di patate e asparagi; 4) carpaccio di “pesce di fondale”, ottimo e abbondante, freschezza memorabile sempre esaltata da un grande olio; 5) scampo con cipolla tipo Tropea. Infine una ciotolina di risotto coi frutti di mare: antipasto pure questo? Se al ben di Nettuno appena elencato si sommano i buonissimi pani che ci siamo spazzolati, anche per eroiche scarpette, si capisce che solo il vizio ci fa ordinare gli spaghetti con le arselle sgusciate, piccolissime e perciò laboriosissime da cucinare: si sente la sabbia, com'è giusto, e il Tirreno ondoso di là dalla strada. La coppia a fianco è alle prese con una grossa occhiata sotto sale, servita con “maionese fatta al momento” dice lo chef, “come quella di Lorenzo”. “Meglio di quella di Lorenzo” precisa la donna, buongustaia. Grazie a una battuta infelice è uscito allo scoperto il complesso di inferiorità del cuoco, immotivato perché la Conchiglia supera il tanto celebrato ristorante di Forte dei Marmi sia per materia prima che per coraggio nei sapori. I problemi sono altri, le applique di cui sopra, i piatti inguardabili e il servizio che cambia a seconda che il tavolo sia amico o indifferente. Lo chef parla troppo e a voce troppo alta con i clienti abituali, facendo scena muta con gli altri. Se i cuochi non sanno stare in sala è meglio che restino in cucina. Il semifreddo al caffè è stradolce e più gettato nel piatto che impiattato. Una buona scoperta i baci di Cherasco e favoloso il croccante finale. Gradevole il Vermentino di Ottaviano Lambruschi (anche in magnum). Si spendicchia. (Recensione del 21 marzo 2008)
Il Foglio sportivo - in corpore sano