Europa nata morta
Le profezie di uno scrittore. Bernanos, il cattolico che ha irriso le palingenesi sociali, i moralismi religiosi e tutti i conformismi
“Strage stillante sangue spirano le case” (Cassandra, “Agamennone” di Eschilo) “E’ necessario che tutti sappiamo che la minaccia che grava su di noi è di morire ma di morire come imbecilli” (Georges Bernanos) Quando si chiudono gli occhi per l’ultima volta e si dice “A noi due” alla morte, (e/o a Dio), non si è certamente banali. Georges Bernanos non lo era mai stato. La sua vita e la sua scrittura avevamo mostrato che anche nel cuore convulso della modernità si può essere artisti cattolici senza recinti confortevoli o pietismi sdolcinati, capaci di pensare, guardare e narrare con la stessa vertigine e intensità dei propri colleghi atei o agnostici. Se non di più. Sulle testate confessionali, quando si scrive di artisti inquieti e tormentati, si sente spesso citare il versetto biblico dove Dio vomita i tiepidi, “coloro che non sono né caldi né freddi”. Leggendo però Bernanos, si scopre quanto il gelo e il fuoco sappiano effettivamente mordere, e quanto tempo preferiremmo forse trascorrere in compagnia di quella tiepidezza che a parole condanniamo tanto. Per una di quelle misteriose coincidenze che poi assumono un sentore inevitabile, aveva sposato una discendente diretta del fratello di Giovanna d’Arco. E quando scrisse una lettera furiosa a un avversario politico o ideologico, premise un “Debbo amarvi moltissimo”, visto che Cristo aveva detto di amare i propri nemici. Amava le motociclette e i cavalli e rifiutò sempre, sistematicamente, ogni onorificenza. Fu proprio questo romanziere che il teologo più colto del ‘900, Von Balthasar, scelse per interrogarsi sulla natura della vocazione artistica. Così come sarebbe stato ai suoi romanzi che si sarebbe ispirato il regista Bresson.
Da monarchico era rimasto fedele all’Action française anche dopo la condanna della chiesa, con la quale si sarebbe duramente scontrato a sua volta quando sarebbero state le gerarchie ecclesiastiche ad appoggiare la dittatura franchista. I suoi romanzi hanno raccontato Satana (“Ed egli apparve, solerte, improvviso, senza lotta, terribilmente pacato e sicuro. Per quanto si sforzi di rassomigliare a Dio, nessuna gioia potrebbe mai procedere da lui, ma, di molto superiore alle lascivie che non toccano più delle interiora, il suo capolavoro è una pace taciturna, solitaria, glaciale, paragonabile alla dilettanza del nulla”) e anonimi curati di campagna, che muoiono tossendo sangue, senza sacramenti eppure sussurrano che tutto è Grazia, carmelitane che vanno cantando alla ghigliottina e ragazze stuprate che si suicidano. Eppure mal digeriva i convertiti (“sono ingombranti”) e i miracoli (“troppo spesso colpiscono la mente ma induriscono il cuore perché danno l’impressione di una brutale ingiunzione”). Ha irriso le la palingenesi sociali (“Può darsi che la società moderna debelli la povertà, non fosse altro che eliminando a ogni generazione i bambini nati in famiglie povere, i disadattati e quelli che non si adattano, grazie a una regolamentazione delle nascite a una severa selezione. Non credo affatto che riducendo il numero di poveri si riduca di colpo anche quello dei miserabili”) e i moralismi religiosi (“anche se i devoti conformisti fossero molto sfacciati, questi infelici non potrebbero farci dimenticare che Cristo un tempo camminò sulle nostre strade, parlò sulle nostre pubbliche piazze, bevve o mangiò con noi, e che le sue esperienze umane non sembravano affatto essere ispirate al conformismo devoto”).
Ma soprattutto, sempre e comunque, dal glaciale romanzo “Monsieur Ouine” a “I grandi cimiteri sotto la luna”, ha sempre additato e sfidato il compiacimento e il conformismo col quale l’uomo moderno incede strascicando fino alla tomba. E le conseguenze collettive di questo oblio umano spirituale sono l’oggetto di una serie di formidabili di discorsi degli anni 40, tenuti poco prima di morire e in taluni casi pronunciati alla Sorbona: un’analisi impietosa sull’Europa che pare scritta domani, e che spazza via tanti luoghi comuni del nostro battibeccare quotidiano con l’ardore d’una grande, accorata visione esistenziale, capace di tener testa a moniti non dissimili lanciati poi da Camus e Pasolini; e, al pari loro, con l’intensità che è propria della grande scrittura. Del resto si tratta di chi era in grado di iniziare un romanzo sulla lotta tra Dio e il demonio con “Già il branco umano brulica nell’ombra, con le sue mille braccia, e le mille bocche; il boulevard si mette alla vela e inalbera i fanali: il poeta, coi gomiti sul tavolino di marmo, guarda sorger su, come un giglio, la notte”. Oggi la retorica è stata degradata a insulto, ruffianeria insincera, quando nel mondo antico costituiva la nobile arte di muovere la ragione e la volontà infiammando le passioni. Si sente spesso dire che l’Europa deve tornare allo spirito genuino della sua fondazione, ai grandi ideali dei suoi padri e sognatori. Nel 1946 (sì, 1946!) per Bernanos l’Europa era già nata morta. Un aborto o un vecchio cadavere attorniato da esperti e tecnici che sono solo pomposi imbecilli (e la parola imbecilli ritornerà spesso, nelle citazioni che seguono): “Niente è più raro di un uomo realmente intelligente, e il gran numero, il grandissimo numero, il numero continuamente crescente degli intellettuali ci porterebbe piuttosto a credere che sia necessario distinguere tra le due specie”.
La parabola storica che traccia è impietosa: “Per lo meno storicamente, una civiltà è sempre stata una specie di compromesso tra il potere dello stato e la libertà dell’individuo. Gli stessi imbecilli dovrebbero capire che l’avvento delle macchine ha rotto l’equilibrio”. Tuttavia (prima grande luogo comune da smascherare) “è un’impostura denunciare il denaro come causa di tutti i mali. Da centocinquant’anni, esso ha potuto essere soltanto il segno e il simbolo del crollo dei valori spirituali e della disperazione latente nell’uomo, rivelatasi improvvisamente nelle guerre senza inizio e senza fine”. Anche nei tempi di successo e ricchezza, eravamo già marci: “Il secolo XIX ha potuto farsi illusione fidando in una prosperità che somigliava alla felicità come il rumore di un autocarro carico di traverse di ferro traballanti somiglia alla musica”. L’esito è quel mostro onnivoro che è lo stato moderno, tanto che “se Luigi XVI oggi volesse riprendere la sua celebre formula, sarebbe costretto a modificarne un po’ le parole, dicendo ‘Il cancro sono io!’ “Ma è l’adorazione del dinamismo e del cambiamento, tanto in voga da essere usati come sinonimi di vitalità e efficienza, a suscitare in Bernanos una delle sue immagini più crude e geniali. Certo che l’Europa contemporanea è piena di fermenti. Ma questo non perché sia viva: “Il cadavere in decomposizione somiglia molto a un mondo in cui l’economia ha superato decisamente la politica”. Certo, “gli imbecilli possono ridere. Per tutta la mia vita ho fatto a meno della loro approvazione”.
Quello che non vedono è che “il dramma dell’Europa è un dramma spirituale”, e questo li porta a sbandierare l’altro accecante luogo comune, quello del progresso tecnologico e della sua inevitabilità (un mantra che non è certo appannaggio della sinistra, viste le reazioni di certo mondo cristiano all’ecologia): “La loro idea – possiamo dire l’unica idea che resta loro – è che il mondo segua la sua strada come una locomotiva lanciata sui binari; e non appena si chiede loro di cambiare qualcosa di ciò che esiste, parlano di marcia indietro. Se, per ipotesi, domani le radiazioni emesse su tutti i punti del globo dai laboratori di disintegrazione modificassero tanto profondamente il loro equilibrio vitale e le secrezioni delle loro ghiandole da farne dei mostri, essi si rassegnerebbero a nascere gobbi, storcinati, o coperti di un folto pelame come i porci di Bikini, e ancora una volta ripeterebbero che non possiamo opporci al progresso”. E’ questo lo sguardo tragicamente opaco dell’“uomo economico, l’uomo che non ha prossimi ma cose”. Padrone e al tempo stesso schiavo: “La civiltà delle macchine ha considerevolmente rimpicciolito nell’uomo il senso della libertà. Le discipline imposte dalla tecnica hanno a poco a poco se non rovinato, per lo meno consapevolmente indebolito i riflessi di difesa dell’individuo contro la collettività. Per convincersene basta notare questo fatto considerevole al quale ci siamo abituati tanto che passa inosservato: la maggior parte delle democrazie esercita una vera dittatura economica”. Questo perché “quando le macchine distribuiscono a tutti la luce e il calore, chi controlla le macchine è padrone del freddo e del caldo, della luce e delle tenebre”.
L’accusa che sale subito alle labbra è che l’unica alternativa parrebbe il luddismo e prendere a mazzate computer e cellulari: “Indubbiamente, tutto questo vi sembra molto naturale. Voi alzate le spalle, dicendo che voglio tornare alla candela. No! Non voglio tornare alla candela; desidero solo dimostrarvi che le macchine sono un’arma spaventosa tra le mani dell’uomo collettivo. Non si tratta di distruggere le macchie, si tratta di rialzare l’uomo, cioè di restituirgli la fede nella libertà del suo spirito, insieme alla coscienza della sua dignità”. Già in quegli anni, Bernanos ammoniva che aiutare le nuove generazioni a trovare la propria vocazione e soddisfazione lavorativa sarebbe stata anche la grande battaglia culturale di un’intera società: “L’orientamento professionale dei giovani sembra una cosa da nulla! Eppure si tratta in definitiva dell’orientamento di tutta la loro vita, del loro destino sociale, che in molti casi si confonde senz’altro col loro destino”. Ma, anziché persone libere, capaci di trovare il loro vero posto in un mondo da costruire insieme, “le dittature totalitarie hanno prodotto e producono ancora una serie di tecnici su cui preferisco non insistere per non turbare il vostro sonno di stanotte”. Certo, abbiamo assistito alla nascita di tigri come Hitler e Stalin, e abbiamo esorcizzato il trauma con le giornate della Memoria e ripetendo “Mai più!”. Bernanos sorride amaro: “Poco importava che fossero nati. Il dramma, il vero, l’unico dramma fu che una nuova specie d’uomo cominciava a nascere con loro e… quella specie d’uomo ha avuto ragione di Hitler stesso”.
La minaccia è solo più diffusa e per questo meno facile a identificarsi. Di concerto, seppure da tutt’altra angolazione Hannah Arendt, Bernanos è capace di ricordarci che “la formazione dell’uomo totalitario precede la formazione del regime totalitario”, e non viceversa. E’ troppo facile sdegnarsi per Trump o Kim Sung se non capiamo che la fame per una risposta semplificata alle domande dell’esistenza è già lì, dentro di noi. Per questo anche la retorica sulla pace, nel mondo contemporaneo, è solo un’eco sempre più flebile di un fantasma, se non un esito più odioso ancora del conflitto stesso: in una trama di rapporti puramente economica, “le cifre diventano folli. Se non si riesce a negoziare la pace non è colpa dei negoziatori, ma è perché la pace che si cerca a tastoni non corrisponde affatto all’immagine che ne abbiamo; è perché la sola specie di pace possibile dovrebbe essere fatta a somiglianza o almeno secondo lo spirito di un’umanità degradata della quale lei dovrebbe consacrare e legittimare l’esistenza. La guerra totalitaria non potrebbe risolversi che con una pace totalitaria”. Il politicamente corretto la fa da padrone, e tutto ciò che obbliga a pensare viene sentito come divisivo. Come offensivo: “Verrà il giorno in cui in mezzo a un mondo completamente succube del conformismo totalitario, il più piccolo testo preso dai più classici, dai più tolleranti, dai più umani dei nostri pensatori (Montaigne, per esempio, o Montesquieu), risuonerà alle orecchie degli imbecilli come un tuono e alle orecchie dei tiranni come una campana a martello”.
I cristiani non sono affatto esenti da questa nube tossica, e si sono accontentati di lamentare che “una volta attrezzato il pianeta, secondo le migliori ricerche tecniche, con questi animali industriosi, ci sarebbe sempre meno tempo per convertirli e battezzarli… così pensa quella specie di imbecilli che è caratteristica di certi ambienti cattolici”. A tutto questo Bernanos non ha alcuna ricetta da opporre: “Mi si rinfaccia di aver spesso ragione ma di non concludere. Che cosa si vuol dire con concludere? Forse adottare un sistema? Schierarsi per un partito? Ma i sistemi e i partiti servono solo a rassicurare gli imbecilli. La mia vocazione sulla terra non è di rassicurare costoro, che d’altronde finiscono sempre col rassicurarsi da soli e tendono alla sicurezza come un blocco di ghisa tende all’immobilità”. La vocazione di uno scrittore e più quella di suonare una certa ‘nota’ che sappia librarsi sul nostro cicaleccio, sul fracasso degli slogan (e oggi degli hastag), per aiutarci, anzitutto, a fare silenzio, e cercare così le parole giuste. Una volta lo scrittore ateo Christopher Hitchens, citando un altro cattolico tragico come Leon Bloy e il suo “ci sono luoghi nel povero cuore dell'uomo che ancora non esistono e nei quali il dolore entra affinché abbiano vita”, si chiedeva se fosse una frase sottoscrivibile solo per chi creda nella Transustanziazione. C’è molto di parziale e financo d’irricevibile nello sguardo di Bernanos, nella sua diffidenza sprezzante per la democrazia (“significa molto meno libertà che uguaglianza; la democrazia è infinitamente più egualitaria che libertaria”); eppure, come non sottoscrivere con lui che “i regimi totalitari sono i più egualitari di tutti: la totale uguaglianza nella schiavitù totale”?
Non solo: qualunque soluzione possiamo cercare oggi ai tanti problemi che affliggono l’Europa e il mondo o saranno in grado di fronteggiare e assorbire la severità e la forza di quel suo grido di oltre settant’anni fa (“La barbarie continua a distruggere e non è mai tanto minacciosa come quando finge di costruire. Nel momento in cui parlo, la nostra peggiore disgrazia è che non fu mai difficile distinguere tra costruttori e distruttori, perché mai la barbarie dispose di mezzi così potenti per abusare delle disillusioni e delle speranze d’un’umanità insanguinata, la quale dubita di sé stessa e del suo avvenire”) o non potrà neppure essere all’altezza del bene, personale e collettivo, che a sua volta è stato capace di ricordarci: “La speranza è una virtù eroica. Si crede che sia facile sperare. Ma sperano soltanto coloro che hanno avuto il coraggio di disperare delle illusioni e delle menzogne, nelle quali trovano una sicurezza e che scambiavano falsamente per speranza. La speranza è un rischio che bisogna correre. E’ il rischio dei rischi. La speranza non è una compiacenza verso sé stessi. E’ la più grande, la più difficile vittoria che un uomo possa riportare su sé stesso”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano