I prefetti di Francia
Mustier, Donnet, Bolloré: cosa può aspettarsi la finanza italiana dal triangolo che viene da oltralpe
E’ in atto un takeover strisciante della finanza francese sulle banche italiane e su quella che ai tempi di Enrico Cuccia si chiamava la Galassia del nord? Parlare di scalata così, papale papale, negli uffici ovattati dalla patina del passato o negli open space in cima ai nuovi grattacieli milanesi assume il sapore oltraggioso di chi mesta nel torbido. Tutt’altra musica davanti agli schermi febbrilmente accesi dei cambiavalute: se c’è battaglia c’è denaro, e fusioni, acquisizioni, matrimoni e divorzi montano una panna chiamata profitto. La settimana si è aperta con il tam tam sulle nozze tra Unicredit e Société Générale (SocGen per gli addetti ai lavori) e si è chiusa con il piano industriale di Mediobanca, della quale Unicredit resta azionista numero uno. Nel mezzo si consuma la saga senese. L’ultima puntata vede entrare sulla scena del Monte dei Paschi anche le Assicurazioni Generali. Alla guida di Unicredit e di Generali ci sono due francesi, Jean Pierre Mustier e Philippe Donnet, il primo ha fatto carriera in SocGen, il secondo nella compagnia di assicurazioni Axa per poi entrare nel consiglio di amministrazione della conglomerata Vivendi controllata da Vincent Bolloré, socio forte e secondo azionista di Mediobanca.
Vincent Bolloré
Coincidenze, forse, ma il triangolo di manager e azionisti transalpini fa muovere anche altre tessere nel puzzle franco-italiano, portando un’aria prefettizio-napoleonica. Tutto resta aperto e solo dopo il referendum sulla riforma costituzionale si capirà se esistono dei pupari dietro le quinte. Analisti internazionali in attesa di succulente commissioni sottolineano che le banche italiane sono appetibili, ma prima debbono sistemare i conti. C’è un numeretto diabolico che stabilisce di per sé la gerarchia, si chiama return on equity, tasso di remunerazione del capitale, e si ottiene dividendo l’utile netto per i mezzi propri. JP Morgan sta sopra il 10 per cento, Citigroup e Morgan Stanley superano quota 7 là dove si collocano anche SocGen e Bnp, Intesa Sanpaolo è al 5 per cento, Unicredit al 3,7 per cento. Solo Mediobanca tiene il passo con il 7 per cento. Dunque, è lunga la via per mettersi “in sicurezza”, ancor più per giocare da protagonisti in prima squadra. Prendiamo Unicredit e Société Générale. Nessuno finora ha detto che il matrimonio si può fare, ma nemmeno che non s’ha da fare. Entrambe sono Sifi, cioè tra le 29 banche mondiali di rilevanza sistemica, quelle troppo grandi per fallire.
Qualche anno fa, quando ancora in Unicredit regnava Alessandro Profumo, c’era stato un forte avvicinamento, ma non se ne è fatto nulla. Un po’ la lunga recessione italiana, un po’ la questione chiave su chi comanda hanno rinviato la partita a tempi migliori che, a quanto pare, stanno per arrivare. Chi ha studiato le carte sostiene che ha tutto il senso del mondo mettere insieme SocGen, forte come banca d’affari con alle spalle il mercato francese, e Unicredit che porta in dote l’Italia e una quota importante dell’Europa centrale, dalla Baviera alla Polonia passando per l’Austria. Ma c’è molta pulizia da fare, spiega una fonte che conosce bene il dossier. Nel grattacielo di piazza Gae Aulenti, il capo azienda francese ha portato un piglio nuovo. Viene dalla SocGen e forse anche questo aggiunge pepe alla pietanza. Nella banca parigina è incappato in un tremendo incidente di percorso con il trader infedele Jérôme Kerviel che ha procurato un buco da 5 miliardi di euro: all’epoca Mustier era proprio il suo capo e fu lui a denunciarlo in tribunale, ma pur essendo estraneo alla vicenda, dopo pochi mesi, a fine 2009, si dimise e perse così l’occasione di sostituire Daniel Bouton alla guida della banca in cui era entrato a 26 anni. SocGen gli lascia anche un altro brutto ricordo: una multa da 100 mila euro, comminata dalla Consob francese per insider trading su un piccolo pacchetto di azioni.
Il manager si è sempre professato innocente e ha vinto la causa in tribunale, ma non ha evitato la sanzione amministrativa. E’ arrivato in Unicredit nel 2011 e si è fatto conoscere per razionalità e disciplina quasi militaresche. Tre anni dopo se ne è andato in disaccordo, così si è scritto, sulla necessità di un robusto aumento di capitale. Adesso la sua linea è passata e toccherà a lui gestirla. La candidatura è uscita dai cappelli delle fondazioni Cariverona e Caritorino, una volta tanto unite; l’ha sostenuta il vicepresidente Fabrizio Palenzona, appoggiato anche dall’economista Lucrezia Reichlin (siede in consiglio per conto dei fondi d’investimento), mentre si è astenuto Alessandro Caltagirone (ha l’un per cento) perché avrebbe preferito Corrado Passera, candidato sostenuto anche da Luca di Montezemolo il quale rappresenta gli interessi di Abu Dhabi. Mustier ha subito riorganizzato Unicredit secondo un modello centralistico vicino alle altre grandi banche multinazionali, a cominciare da quelle francesi. Tutto il potere è nella holding, alla quale rispondono le varie diramazioni in Europa e nel mondo, comprese la tedesca Hypovereinsbank ripescata dall’orlo della bancarotta e alla fine risanata, o la Bank of Austria. Senza pensarci due volte ha venduto alcuni pezzi pregiati: dal 10 per cento della banca polacca Pekoa ha incassato 749 milioni, da Fineco (gestione patrimoni) altri 328.
Ora tocca a Pioneer, la società che piazza fondi di investimento: viene ceduta in blocco e si sono fatte avanti le Poste insieme all’onnipresente Cassa depositi e prestiti, in concorrenza con Amundi del Crédit Agricole con gli inglesi di Aberdeen e gli australiani di Macquarie. Anche questo può fruttare un bel gruzzolo, tra i 3 e 4 miliardi di euro. Passi importanti prima dell’operazione più ambiziosa: un taglio ai crediti deteriorati da 7-8 miliardi di euro (ci sono in bilancio 51,3 miliardi di sofferenze lorde) che prepara una richiesta al mercato di circa 13 miliardi. Sarà l’occasione per riequilibrare il rapporto tra gli azionisti, a cominciare dalle fondazioni. Cariverona ha detto sì, ma mette le mani avanti e non vuole sborsare troppo. Caritorino è rappresentata da Fabrizio Palenzona che ha perso lo smalto e il sostegno politico di un tempo, anche se continua a godere fiducia nel giro Mediobanca. Chiara Appendino, sindaco pentastellato di Torino, non ha nascosto di voler condizionare la fondazione dopo aver tentato un blitz anche alla Compagnia di Sanpaolo, grande azionista della Banca Intesa. Tutto spinge verso un ridimensionamento di questi ircocervi creati dalla legge bancaria. A favore di chi? I libici, che hanno circa il 3 per cento, chiedono un ruolo attivo. Gli sceicchi lamentano la perdita di valore del loro pacchetto del 5 per cento. I tedeschi intendono presidiare i propri interessi nazionali. L’occhio sempre più vigile della Bce chiede un consiglio snello, composto da amministratori indipendenti e da professionisti. Tre vicepresidenti sono troppi; è troppo persino uno, si è lasciato sfuggire Alessandro Mazzucco, che ha sostituito Paolo Biasi al vertice della fondazione veronese.
L’obiettivo di Mustier è una public company con più spazio ai fondi. Vedremo se tutto ciò basterà ad accontentare la Bce e le autorità regolatorie attente alla solidità patrimoniale e a una governance trasparente. Ma quel che rende una banca davvero solida è la redditività, il profitto è la dote principale, perché senza macinare utili grassi e grossi anno dopo anno, il capitale si consuma, svanisce nel vento. Lo scenario europeo mostra che una ulteriore concentrazione è inevitabile. Resteranno sempre meno banche, sempre più grandi e robuste, per fare concorrenza ai colossi americani i quali, anche se Trump metterà mano alla legge Dodd-Frank, restano fuori portata per tutti. Le aziende di credito di media taglia che insistono nel fare di tutto un po’ verranno spazzate via, per lasciare spazio a strutture specializzate, snelle, agili, efficienti, che non hanno bisogno di immobilizzare tante risorse perché utilizzano al massimo le tecnologie informatiche e macinano utili. Del resto, non si può contare sulla vecchia forbice tra tassi attivi e passivi, un tempo fonte di profitti garantiti: bisogna puntare sui servizi alla clientela, sugli affari, sul sostegno alle imprese, sulla finanza, demonizzata da un’ideologia fasulla che scambia il mercato per il baratto, ma senza la quale non si può fare nulla. E proprio qui la concorrenza si fa più acuta. Prendiamo Mediobanca, nel bel mezzo di una metamorfosi che il nuovo piano triennale presentato giovedì da Alberto Nagel intende accelerare.
Mustier
L’istituto fondato da Cuccia ha comperato l’intera banca Esperia prendendo la metà posseduta da Mediolanum. Andrà a completare la trasformazione in “gruppo bancario diversificato” anche se la sua resterà una clientela di gamma alta. Finora la maggior parte degli utili veniva dalle partecipazioni, adesso i servizi dovranno fare la parte del leone. Tre saranno i rami principali: banca d’affari, gestione dei patrimoni e credito al dettaglio o meglio, spiegano in Piazzetta Cuccia, una banca che raccoglie le risorse per la stessa banca. Quanto alle partecipazioni, nei prossimi tre anni verranno cedute quote per 1,3 miliardi, ma Mediobanca non molla le Generali, anche se la quota scenderà (non subito) dal 13 al 10 per cento. E’ una scelta strategica, che ha come sfondo la possibilità di creare uno scudo insieme agli azionisti italiani come Del Vecchio, Caltagirone e la De Agostini rappresentata in consiglio da Lorenzo Pellicioli. Un nocciolo duro del 20 per cento, un argine contro le velleità di scalate o anche rispetto alla ventennale attrazione francese esercitata da Axa. Le voci corrono e non sono rumori fuori scena. “Non c’è nessun progetto di fusione”, ha detto e ripetuto Donnet, ma tra il bianco e il nero esistono mille sfumature di grigio. Il 30 settembre, in una intervista programmatica al Sole 24 Ore, ha annunciato un “turnaround industriale” perché “i tassi d’interesse per noi sono come l’ossigeno e siamo entrati in un mondo senza ossigeno”. Alle istituzioni italiane ha chiesto “un atteggiamento positivo nei confronti del settore assicurativo”.
L’italianità ha i suoi onori, ma anche i suoi oneri, questo è il messaggio lanciato senza peli sulla lingua. E ci sono mille modi per dimostrarsi amici. Si pensi solo alla messa in sicurezza del patrimonio abitativo: i francesi hanno l’obbligo di assicurare la casa, perché gli italiani no? Quanto a Bolloré, “l’ho incontrato per la prima volta quando è entrato nel consiglio di Vivendi, del quale ho fatto parte per otto anni – ha raccontato Donnet – In seguito, prima del mio ingresso in Generali nell’ottobre del 2013, ho avuto degli incontri preliminari con il comitato nomine e i vicepresidenti, uno dei quali proprio Bolloré. Posso dire che ci conosciamo e che siamo in buoni rapporti, ognuno nel rispetto dei propri ambiti di competenza”. Mustier “è un amico”, ma ciascuno si occupa dei propri interessi. Eppure nel piccolo mondo delle grandi banche, i sentieri s’incrociano più spesso di quanto s’immagini o si voglia. Adesso, per esempio, salta fuori la possibilità che le Generali convertano in azioni i bond del Monte dei Paschi di Siena rimasti in portafoglio, diventando così il socio numero uno prima ancora del Tesoro, con un pacchetto che potrebbe aggirarsi tra il 7 e l’8 per cento. Guarda caso, tra gli azionisti importanti della tribolatissima banca senese c’è Axa, prima compagnia di assicurazioni francese, concorrente delle Generali, ma da almeno un quarto di secolo sempre in procinto di maritarsi con il Leone di Trieste (inutile chiedere in piena èra gender chi sarà lo sposo e chi farà da moglie).
Si profila un conflitto d’interessi o una collusione oligopolistica se i concorrenti diventano cooperanti. A meno che non sia l’occasione per uno scambio azionario tra le due compagnie. Anche la Bnp, che controlla la Bnl, s’è fatta avanti con il governo italiano come possibile acquirente del Montepaschi (una volta salvato e ripulito), ma ha posto due condizioni: via libera alla ristrutturazione (con chiusura di sportelli ormai sempre più inutili e taglio di 10 mila dei 25.700 dipendenti) e l’impegno che non venga richiesto subito un altro aumento di capitale. L’amministratore delegato Jean-Laurent Bonnafé ha trovato Palazzo Chigi freddo sui tagli e la Bce non ha promesso nulla sul capitale, quindi ha fatto marcia indietro. Per il momento. Occhio poi al Crédit Agricole, l’istituto di credito dei paysan diventato un colosso di rilevanza sistemica, che zitto zitto s’interessa alla Banca Leonardo, una boutique finanziaria fondata e controllata da Gerardo Braggiotti, figlio d’arte allevato nella fertile nidiata cucciana. L’Agricole possiede Cariparma, già Cassa di Risparmio di Parma, se l’è trovata in casa quando era azionista importante della Banca Intesa, chiamato da Giovanni Bazoli per difendersi dalle mire di Enrico Cuccia. Comme d’habitude: i francesi hanno sempre varcato le Alpi su invito di italiani in lizza contro altri italiani; accadde con Carlo VIII incoraggiato da Ludovico il Moro, signore di Milano, o con Napoleone III irretito da Cavour.
Nel mondo della finanza, è successo anche in casa Mediobanca: Cuccia, come pegno della sua alleanza con la Lazard guidata da André Meyer, ha portato Antoine Bernheim al vertice delle Generali per controbilanciare gli appetiti politici rappresentati, secondo lui, dal senatore Cesare Merzagora. Il suo delfino e successore Vincenzo Maranghi ha aperto le porte a Vincent Bolloré contro Alessandro Profumo e Cesare Geronzi. E adesso? In questa Italia priva di capitalisti di riferimento, in questo sistema disarticolato dove blasoni eccellenti ricchi di passato (da Pesenti a Pirelli per fare due nomi storici) non hanno più un futuro nazionale, cosa accadrà se un nuovo sovrano transalpino suonerà le sue trombe? Qualcuno cerca un altro Pier Capponi che faccia suonare le nostre campane, siano quelle del Tesoro o della Cassa depositi e prestiti. Ma si fa anche strada la teoria dell’oro del Reno: di fronte alla Brexit e al Trumpower, non resta che cedere al canto di Lorelei e mettere al sicuro tra le sue braccia quel che resta dei gioielli di famiglia. Sempre che Marine Le Pen a primavera non conquisti la Bastiglia e in autunno i neo-nazionalisti tedeschi non marcino sotto la porta di Brandeburgo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano