Icone di Sicilia

Salvo Toscano

La vecchia antimafia non tira più, troppi scandali. E la politica non sa chi scegliere. Resiste Di Matteo, ma s’avanza Lampedusa

Alla Casa Bianca s’è presentata in nero. Abito lungo e giacchettino corto, riportavano le cronache della cena alla quale Giusy Nicolini è stata invitata al seguito del premier Matteo Renzi come esempio della migliore Italia da sfoggiare con l’alleato americano. Sorridente e visibilmente soddisfatta, la sindaca di Lampedusa s’è anche concessa un simpatico selfie con la schermitrice paralimpica Bebe Vio, prima di parlare a Barack Obama delle bellezze della sua isola, baluardo d’Europa nel Mediterraneo dei viaggi della disperazione. La Nicolini, spiegavano i media, rappresentava il simbolo “della visione comune sull’immigrazione tra Renzi e Obama”, quando ancora lo spettro di Donald Trump sulla Casa Bianca era appunto solo uno spettro.

 

 

Giusy Nicolini, vista anche alla Casa Bianca, sarebbe la prescelta da Renzi per essere la candidata del Pd per il dopo Crocetta

Pochi giorni dopo, era il settimanale Panorama a rilanciare un gossip che già da un pezzo senza conferme circolava in Sicilia. E cioè che proprio la grintosa Nicolini sarebbe la prescelta da Renzi per essere la candidata del Pd per il dopo Rosario Crocetta. Tra un anno, infatti, in Sicilia si tornerà a votare e dopo la disastrosa esperienza dell’attuale governatore, che da icona antimafia era riuscito nella scalata alla presidenza della regione, il Partito democratico sembrerebbe tentato dal pescare un’altra icona, sostituendo l’antimafia, ammaccata da una lunga scia di scandali, con un nuovo, efficace brand: Lampedusa.

E questo mentre dalle parti dell’antimafia “classica” una stella brilla oscurando tutte le altre, la stella di quel Nino Di Matteo che in queste settimane di campagna referendaria si è visto in prima fila a battersi per il No contro la riforma di Renzi, accostandola, tra le altre cose, ai piani piduisti di Licio Gelli. Con appassionati interventi che hanno fatto fantasticare più d’uno su un possibile futuro nell’agone politico per il magistrato minacciato da Cosa nostra.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il referendum, con la rivoluzione copernicana che questo potrebbe portare nella politica nazionale. Ma a un certo punto, alla Sicilia bisognerà pur pensare, dopo averla abbandonata ai governi delle porte girevoli di Crocetta, con i loro quasi quaranta assessori e la loro lunga collezione di primati negativi. Se n’è accorto il premier in queste ultime settimane di campagna referendaria, quando sondaggi alla mano la Sicilia è apparsa la bestia nera del Sì. Tanto da spingere Renzi a un tour de force elettorale nell’Isola, prodigo di ogni sorta di promesse.

Al governo della regione ormai da sei anni, prima appoggiando Raffaele Lombardo dall’esterno, poi direttamente al timone con Crocetta, oggi il Partito democratico siciliano fa fatica a individuare un nome spendibile per far dimenticare il governatore di Gela, che dal canto suo dice di volersi ricandidare. Visto il palmares di disastri del Pd siciliano in questi ultimi anni, il premier per giocarsi qualche carta potrebbe essere tentato di guardare fuori dal Palazzo. E pescare il solito “santino”, l’immaginetta sacra con tanto d’aureola, che il centrosinistra siciliano periodicamente si gioca per non attingere dai ranghi della sua classe dirigente.

E’ quello che accadde quattro anni fa con Crocetta. “Santino” di quell’antimafia politica allora ancora potente, oggi alquanto ridimensionata. L’ex sindaco di Gela lanciò la sua corsa dal basso, forte del sostegno di una base antimafiosa doc,  di un paio di lobby all’epoca di peso, come la Confindustria siciliana, e persino dell’Udc. Il Pd, privo di un nome da contrapporgli, dovette accodarsi, benedicendo la sua corda per pentirsene molto presto. Crocetta a sua volta aveva pescato il jolly in quella campagna elettorale, arruolando niente meno che Lucia Borsellino, figlia di Paolo, esposta a ogni buona occasione e poi piazzata alla guida dell’assessorato alla Salute. Dal quale Lucia andò via dopo una serie di scandali e scandaletti che lambirono il cerchio magico del governatore, per la cui politica la figlia del magistrato usò alla fine, mollandolo in malo modo, parole non certo d’encomio.

L’isola, avamposto di civiltà e accoglienza in un’Europa avvelenata dalla paura e dai muri, potrebbe essere il nuovo santino

Scottato dalla disastrosa esperienza dell’antimafia al potere, il Pd adesso potrebbe guardare altrove. E potrebbe avere individuato in Lampedusa il santino nuovo di zecca. La splendida isola siciliana, avamposto di civiltà e accoglienza in un’Europa avvelenata dalla paura e dai muri, è un esempio luminoso. Attorno al quale – oltre che una narrazione che sa di ribellione all’odiata Europa degli insensibili burocrati e di ammiccamento a certo buonismo – negli ultimi anni si è raccolto un sentimento carico di rispetto, valori e buona fede. Insomma, qualcosa che in fondo assomiglia per certi versi alla prima antimafia di popolo, quella genuina, quella dei lenzuoli, quella dei mesi dopo le stragi, prima che il movimento assumesse le fattezze di un circoletto per iniziati col rischio di diventare appetibile corriera anche per avventurieri e scalatori.

Che Lampedusa si candidi a diventare qualcosa di mediaticamente simile all’antimafia d’antan sembrano confermarlo le numerose passerelle dei politici nell’isola e il fiorire di una sempre più corposa produzione letteraria e cinematografica ispirata alle sue vicende: emblematico il caso di “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, documentario vincitore a Berlino e in rampa di lancio per un possibile Oscar dal sapore politico che potrebbe arrivare l’anno venturo come uno sfregio della sempre liberal Academy a Donald Trump. E ancora, a proposito di analogie tra la Lampedusa di oggi e l’antimafia di ieri, ecco soprattutto lo sgomitare per arruolare il “santino” lampedusano alle kermesse di partito e affini. Come alla Leopolda, dove un tempo ci trovavi un Pif con la sua antimafia pop finto svagata, e dove oggi invece ha brillato la stella di Pietro Bartolo, infaticabile medico di frontiera, simbolo del grande cuore degli isolani delle Pelagie nonché superstar del sopracitato “Fuocoammare”, già celebrato in prime time dal gran cerimoniere del progressismo televisivo Fabio Fazio.

E’ in questo contesto che va inquadrata l’indiscrezione di Panorama su una Nicolini asso nella manica di Renzi per la Sicilia. Referendum permettendo, si intende, e sempre che per l’autunno dell’anno prossimo il timone del Partito democratico sia ancora nelle mani del premier. In quel caso, l’opzione Nicolini oggi appare per lo meno verosimile. Tenendo ben presente l’irresistibile presa delle candidature-simbolo, a prescindere dall’effettivo curriculum politico e di governo, esercitata sul centrosinistra in Sicilia, già dai tempi della corsa, sfortunata, di Rita Borsellino. La tentazione di uno switch epocale per la sinistra sicula, che archivi l’antimafia come eterno mazzo da cui pescare per tirare fuori il nome del prescelto, sostituendola con il tema dell’immigrazione e dell’accoglienza, è in effetti nelle cose. Tanto più che già prima dei boatos su Nicolini da un pezzo dalle parti del Pd siculo si sussurrava circa l’opportunità di candidare una donna, tra gli altri era circolato il nome dell’europarlamentare Michela Giuffrida.

E la vecchia cara antimafia? A quella guardano altri. E tutti più o meno nella stessa direzione. Da quelle parti, gli ultimi tempi in Sicilia hanno riservato più di un dolore. Tante le cadute in una lunga scia di scandali, il più clamoroso quello che riguarda la gestione dei beni sottratti ai boss da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo e in particolare della sua guida dell’epoca, il magistrato Silvana Saguto. Feroce il clima di resa dei conti dentro al movimento e la fretta dei veterani più scafati nel tracciare una linea di demarcazione tra buoni e cattivi che risparmiasse la fatica di un’autocritica collettiva. Tanto travaglio non ha nemmeno lambito Nino Di Matteo, la cui stella continua a brillare nitida nel firmamento dell’antimafia “classica”, di cui il pm palermitano finito nel mirino di Cosa nostra è l’indiscusso faro.

Le 50 sfumature d’antimafia che in questi anni hanno affollato la scena del movimento sono pian piano finite nei guai o per lo meno hanno perso smalto nell’ultimo, travagliato biennio. Dall’antimafia in doppio petto degli imprenditori a quella sopra le righe di  capipopolo di un certo folklore, gli scandali recenti hanno fatto traballare un movimento che negli anni aveva assunto dimensioni e potere ragguardevoli. Quella che resiste, a prescindere dagli esiti delle sentenze nei processi (quella è un’altra storia), è l’antimafia più “classica”, incarnata dal magistrato palermitano che indaga sulle vicende della Trattativa di circa un quarto di secolo fa.  Dopo aver rifiutato la proposta del Csm di lasciare Palermo per ragioni di sicurezza (“Costituirebbe un segnale di resa”, ha spiegato lui), Di Matteo è rimasto in città ma in queste settimane ha fatto parlare di sé non tanto nelle cronache giudiziarie quanto in quelle politiche, per la sua adesione alla campagna per il No al referendum, con tanto di interventi a manifestazioni pubbliche. Con un paio di discorsi dal sapore dell’orazione civile, che sono sembrati, appunto, marcatamente politici.

Il magistrato alla campagna per il No al referendum: politici i toni e gli argomenti, politico, più che da giurista, il registro utilizzato

Politici i toni, politici gli argomenti, politico piuttosto che da giurista il registro utilizzato. Così è stato ad esempio al convegno organizzato a Palermo dall’Associazione nazionale partigiani e dalla Cgil, dove tra gli scroscianti applausi dei compagni presenti, il magistrato, tra le altre cose, ha accostato la riforma di Renzi ai piani piduisti di Licio Gelli e ai desiderata di JP Morgan, ha parlato di un difetto di “legittimazione morale” del Parlamento eletto con una legge bocciata dalla Consulta, ha evocato il rischio di “svolta autoritaria”. Sintetizzando la sua posizione nell’efficace slogan: “La Costituzione va attuata, non riformata”.

Un discorso politico, certamente non partitico, ma politico. Che possa essere il preludio di una svolta politica, questo è tutto un altro paio di maniche. Di certo, Di Matteo gode del sostegno di una piattaforma sociale ben definita, in certo senso senz’altro politica, anche se non partitica. Quella che gravita attorno a movimenti come quello delle Agende rosse o come Scorta civica, con tanto di testate di riferimento, sulle cui home page i cinque o sei articoli sul pm palermitano minacciato da Cosa nostra non mancano mai. Ma più in generale Di Matteo è diventato senza dubbio un’icona a cui nell’Isola molti pezzi di società guardano con grande favore ed è innegabile che in tanti oggi farebbero carte false per arruolarlo alle prossime elezioni.

Certo, in questo senso il precedente infelice di Antonio Ingroia non aiuta. La parabola dell’altro pm “trattativista” potrebbe anzi scoraggiare. Ingroia tentò addirittura la corsa a Palazzo Chigi con la sua Rivoluzione (poi Azione) Civile, raccogliendo briciole e dopo l’addio alla toga finì nel sottogoverno di Crocetta, manager di una società partecipata regionale. Ma per Di Matteo la musica potrebbe essere diversa. I racconti dei collaboratori di giustizia sui piani della mafia per uccidere il magistrato che hanno portato alla massima allerta per tutelare la sua incolumità non hanno lasciato indifferente l’opinione pubblica e attorno al pm esiste un apprezzamento e una solidarietà di un pezzo di società che va oltre il ristretto circolo dell’antimafia dei duri e puri.

Un possibile corteggiamento dei Cinque stelle. Il precedente infelice di Antonio Ingroia, altro pm “trattativista”, non aiuta

Cederà la toga alle sirene della politica? Certo non sarebbe il primo caso. A Palermo il gossip politico del momento è quello di un possibile corteggiamento al suo indirizzo da parte dei Cinque stelle. Voci che però fin qui hanno trovato sempre e solo smentite. Dal canto suo, Di Matteo a chi obiettava sulla sua svolta “politica”  per la sua appassionata difesa delle ragioni del No al referendum, ha risposto di avere “non solo il diritto ma anche il dovere di difendere la Costituzione”. L’unica a cui risponde, ha ricordato, con un passaggio al vetriolo: "Ho giurato fedeltà alla Costituzione e non obbedienza ai governi, né tanto meno a soggetti che a mio parere rivestono, alcune volte anche indegnamente, incarichi istituzionali”.

Anche qui, però, l’analogia con il precedente del collega Ingroia non si può non cogliere. L’allora sostituto a Palermo nel 2011 fece scalpore quando intervenendo al congresso del partito dei Comunisti italiani si proclamò “partigiano della Costituzione”. In quella circostanza, Ingroia ebbe a dire: “Ho giurato sulla Costituzione democratica, la difendo e sempre la difenderò anche a costo di essere investito dalle polemiche”. Più o meno un anno dopo il pm scendeva in campo col suo movimento politico.

Difesa della Carta, dunque, dice oggi Nino Di Matteo. Certo, nel farlo però c’è modo e modo. E fra esaminare la riforma articolo per articolo passandola al setaccio del giurista e tirare in ballo Gelli e la P2 forse una qualche differenza c’è. Quel discorso “politico” è stata solo una prova generale? In tanti, a Palermo, vecchi pezzi di sinistra ed elettori a 5 stelle in primis, forse ci sperano.

Quel che è certo è che fra il dire e il fare c’è il referendum del 4 dicembre e il terremoto politico pronto a seguire a stretto giro di posta. Da qui all’ottobre dell’anno prossimo, quando si tornerà a votare per le regionali in Sicilia, un mondo potrebbe essere cambiato. Ma è facile prevedere che ancora per un pezzo, comunque vada, nell’Isola si fantasticherà sulla suggestione della sfida elettorale tra due icone come Nicolini e Di Matteo.