America confidential
Il peana di Trump intonato da Taki Theodoracopulos, il “fascista preferito” di Agnelli che sognava di castigare la destra di Reagan. Chiacchierata mondana a Park Avenue
Taki Theodoracopulos racconta le sue avventure riportando i dialoghi con il discorso diretto. Quando s’infervora imita anche le voci e le espressioni, la erre dell’avvocato Agnelli, l’inglese rauco e germanizzante di Kissinger, il tono sguaiato di Trump. Quando la narrazione lo esige, si alza dalla poltrona e mima la scena muovendosi agilmente per la sala, dicendo “io ero qui, lui era lì”, come un regista che conduce l’attore nella sequenza. L’effetto è che una conversazione del 1962 con William Buckley Jr. sul mestiere dello scrittore sembra accaduta cinque minuti prima della scenetta in salotto, e la vicenda viene restituita con il contesto, le sensazioni, i commenti dei protagonisti e degli osservatori, in un grande viluppo dove il romanzo e la cronaca si confondono. Se la fiction prevale non c’è niente di strano, il personaggio va preso con la necessaria sospensione d’incredulità. Dell’unico incontro con Trump, il suo presidente preferito dai tempi di Eisenhower, ha un ricordo scintillante. Erano al ristorante Le Grenouille, a due passi dal Rockefeller Center, per festeggiare il sessantesimo compleanno del comune amico Conrad Black, il magnate canadese poi condannato per frode con un processo ad altissima esposizione mediatica e infine cacciato dagli Stati Uniti. Theodoracopulos era seduto accanto a Melania, e da maestro di conversazione qual è non gli è stato difficile trovare un argomento di dialogo con l’ex modella slovena: la composizione religiosa dei Balcani: “Mi lamentavo con lei di quanto fosse terribile che gli americani avessero creato una striscia abitata da musulmani in mezzo ai Balcani, una terra cristiana, lei era completamente d’accordo, ma dall’altro lato del tavolo c’era un giornalista del New York Times di nome Richard Burn che continuava a interromperci. A un certo punto ho perso le staffe, gli ho detto di smetterla, altrimenti… ‘altrimenti cosa?’, mi fa lui. ‘Altrimenti ti toccherà finire il resto della cena con la cannuccia’, gli dico io, e mi sono alzato. Più tardi mi sono scusato, a mio modo. Gli ho detto che aveva rotto i coglioni ma ho ammesso che non avrei dovuto minacciarlo, lui ha accettato le scuse ed è finita lì. Alla fine ho visto un blob arancione venire verso di me gridando ‘you’re the greatest! you’re the greatest!’ ed è Trump che mi viene incontro e mi abbraccia. Melania gli aveva raccontato la scena, lui era deliziato che qualcuno avesse minacciato un giornalista del Times per difendere sua moglie”.
La notte delle elezioni è stato in piedi fino all’alba a telefonare ai suoi amici di sinistra. “Michael Mailer, il mio migliore amico, che fra l’altro è il figlio di Norman ed è un ottimo pugile, l’ho chiamato che ero ancora ubriaco, lui non mi ha lasciato nemmeno parlare: ‘Se provi a dire qualcosa vengo lì’, mi dice. Gli rispondo: ‘Non vincerai contro di me, Mickey’”. Anche la moglie, la principessa Alexandra Schoenburg-Hartenstein, lo ha chiamato sconcertata: “‘Non ci posso credere, è spaventoso’, mi dice. E io: ‘Cara, non ti preoccupare, tutto sarà perfetto…’. Lei ha riattaccato”. Qualche amministrazione fa il suo amico Tom Wolfe immaginava di aspettare (invano) all’aeroporto gli sdegnati della sinistra al caviale, augurando loro un buon espatrio per evitare di vivere sotto il regime del cowboy George W. Bush, ora Taki s’aggira per l’Upper East Side con un sorriso perenne e la pelle abbronzata che scintilla come un ascensore della Trump Tower. Theodoracopulos è una goccia di concentrato conservatore nell’oceano della società newyorchese liberal, un’anima nazionalista in un corpo cosmopolita, un reactionary chic coperto dalla spessa scorza del disincanto che spetta agli uomini di mondo. Ma Taki non è soltanto un tifoso della squadra meno gettonata presso l’alta società. E’ un fossile ideologico che soltanto quell’impossibile archeologo di Trump poteva riportare alla luce, un “paleoconservatore” cresciuto alla scuola di Pat Buchanan, un suprematista bianco orgogliosamente filopalestinese che vede il mondo nell’ottica di un insolubile scontro di civiltà, non in quello dell’esportazione della democrazia. Per lui Ronald Reagan è il presidente “che non ha fatto nulla per ridurre lo stato federale” e George W. Bush “aveva un quoziente intellettivo inferiore agli anni di sua figlia”.
Dove c’è odore di “nuovo ordine mondiale”, di poteri sopranazionali e valori universali da portare con i carri armati lui si dà alla fuga, ma invece di rifugiarsi in uno scantinato dell’Alabama con i cibi in scatola e la voce di Alex Jones alla radio lo ritrovi nel suo chalet di Gstaad, in Svizzera, a sorseggiare Bordeaux o nel duplex di Park Avenue a scucire il numero di telefono a una giovane invitata a uno dei suoi party; sempre meno spesso lo si trova nella casa di Londra, la città in cui è cresciuto ma che è diventata “troppo cosmopolita” per il suo palato. Se c’è in circolazione un regime autoritario di foggia non marxista è quasi certo che a Taki sfuggirà una parola di apprezzamento, e a chi ascolta tocca indovinare dov’è il confine fra l’ideologo e il provocatore. Una volta ha risposto a una giornalista preoccupata per una possibile presa del potere da parte dei fascisti greci di Alba Dorata: “Purtroppo non avremo questa fortuna”. Gli Agnelli, che ha frequentato dagli anni Sessanta, lo chiamavano “il nostro fascista preferito”, e ogni volta che vuole scandalizzare qualcuno dei suoi amici europei esclama: “Questa è la più bella notizia dal giugno del 1940!”. Taki Theodoracopulos potrebbe essere uscito dalla penna di Céline o dalla telecamera dei fratelli Vanzina. E’ a suo agio a un valzer in un castello degli Hohenzollern e allo Studio 54, sulla copertina di Playboy o su una webzine della destra identitaria. Sullo Spectator il suo gemello professionale Jeffrey Bernard teneva una rubrica, intitolata “Low Life”, sugli eccessi bohemien e pasoliniani della sua vita fangosa, e a lui è toccato il contrappunto altolocato con “High Life”, che dal 1977 racconta il mondo delle genealogie nobiliari e i passatempi della “old money” globale, storie di casinò e vita smeralda, cricket e cocaina, vicende di doppi, tripli e quadrupli cognomi che preferibilmente si muovono su barche a vela d’epoca. Il suo mondo. Dire che Taki ha un debole per la barca è un understatement. L’ha sempre considerato l’unico, definitivo strumento per portare a letto una donna, e quando il suo primo matrimonio è fallito il padre, sentendo che gridava ai quattro venti certi pensieri suicidi, gli ha regalato una barca a vela per risollevarlo un po’. “L’unica cosa che mi è dispiaciuta di quella vicenda è di non aver pensato prima al suicidio”, ha scritto. Guarda caso “l’unico punto debole” della principessa austriaca che poi sarebbe diventata la sua seconda moglie e la madre dei due figli, la prediletta Mandolyna e il predilettissimo J.T., erano proprio le barche d’epoca. La prima moglie, fatalmente, soffriva il mal di mare. Ciclicamente i lettori dello Spectator hanno chiesto di cacciarlo per gli insulti, le iperboli, i sottintesi razzisti, le esplicite apologie del fascismo. Quand’era editore del giornale, anche Conrad Black è intervenuto pubblicamente per castigare gli eccessi antisionisti di un suo editoriale, ma non l’ha licenziato.
C’è qualcosa di irriproducibile nella figura di Taki. Il documentario “Seduced and Abandoned” del 2013 è una grandiosa parodia del mondo del cinema e delle sue mondanità con Ryan Gosling, Alec Baldwin e un altro manipolo di attori formidabili e autoironici, ma quando si è trattato di trovare qualcuno che facesse Taki si sono dovuti rivolgere all’originale. Lo Spectator ha titolato: “Ryan Gosling non riuscirebbe a interpretare Taki meglio di Taki”. Nel ruolo di se stesso, Taki è perfetto, così come Trump è stato perfetto tutte le volte che in tv ha fatto la parte di Donald. Dice: ma quelli erano film trash! Appunto. Taki è un nativo dell’alta società, l’opposto di un nouveau riche. Non si è mai illuso di aver costruito la propria fortuna. E’ un rampollo della classe dirigente greca che è stato mandato in Inghilterra e poi in America perché i genitori temevano una rivoluzione comunista in patria. Il nonno materno, Panagiotis Poulitsas, è stato ministro dell’Economia ha guidato per un breve periodo il governo greco nell’immediato dopoguerra. Il padre, John Theodoracopulos, ha costruito un impero dei commerci navali che il fratello ha portato avanti mentre lui, lo stravagante della famiglia, s’inventava un mestiere via l’altro: giocatore di tennis, fotografo di guerra in Vietnam, scrittore, giornalista, cintura nera di karate, campione di judo della terza età, bon vivant, playboy professionista, polemista e provocatore. Nel cursus honorum dell’uomo di mondo la cocaina non può mancare, accompagnata in questo caso dall’arresto un tantino ingenuo all’aeroporto di Heathrow e qualche mese di carcere, abbastanza per produrre un libro di memorie intitolato “Nothing to Declare: Prison Memoirs”. Taki lo ha definito “il più grande libro mai scritto dopo la Bibbia”, che curiosamente è la stessa, identica cosa che Trump dice del suo “The Art of the Deal”. Non è importante stabilire chi abbia usato per primo l’espressione, basta sapere che uno la usa in modo ironico, l’altro no. Libertario e libertino impenitente, Taki si è rammaricato della caduta di stile, dell’inciampo sociale, non dell’abitudine tossica: “A parte l’umiliazione di essermi messo nella stessa posizione di tutte quelle rockstar cretine che abitualmente si fanno beccare, non sento alcun disprezzo verso me stesso”.
Al portiere in livrea chiedo di “Mister Theodoracopulos” nell’unico modo possibile per uno che aveva il debito formativo in greco di default, cioè scomponendo: Theodora-breve pausa-copulos. Lui si toglie il paraorecchie, affetta uno sguardo interrogativo e poi gli sovviene “ah, certo, Taki!” e fa strada verso l’atrio decorato con monili d’avorio e labbra di silicone. Taki vive al numero 720 di Park Avenue, in una maisonette su due piani che la moglie ha ritenuto opportuno acquistare quando i figli se ne sono andati di casa. Costo dell’operazione: 3,85 milioni di dollari, praticamente regalata. Mandolyna, accasata con un old etonian, fa la decoratrice e dirige il magazine online di papà, il Taki’s Magazine, che dai colori pastello della homepage sembra un aggregatore di frivolezze femminili e invece è il rifugio dell’intero arco paleoconservatore, dal tenebroso Paul Gottfried fino al grande divulgatore delle teorie “sociobiologiche” Steve Sailer. Anche Jared Taylor, il suprematista bianco che si è inventato il razzismo dal volto presentabile, compare nella lista dei collaboratori. J.T. invece si è trasferito in uno studio di Red Hook, Brooklyn, a coltivare il sogno della pittura. Dal suo breve matrimonio con la contessa Assia Baudi di Selve sono nati quelli che Taki affettuosamente chiama “i miei nipoti italiani”, che ricevono una solida educazione internazionale in quel di Roma e di tanto in tanto trasvolano per andare a trovare i nonni. 720 Park Avenue è un indirizzo molto prestigioso. Il co-op disegnato da Rosario Candela risponde al canone della ricchezza newyorchese, qui vivono nobili, grandi industriali, finanzieri, diplomatici, collezionisti d’arte ed ereditieri di primo rango, gli arricchiti sono pochi e hanno imparato le buone maniere; Gianni e Marella Agnelli hanno comprato in questo palazzo il loro primo appartamento a New York, molto prima che lei entrasse nell’esiguo numero degli “swan” di Truman Capote. Prestigioso, dunque, ma non immortale. L’immobile venerabile è a un isolato di distanza, al numero 740, lo ha fatto costruire il nonno di Jackie Kennedy e ospita 31 inquilini il cui prestigio non si conta ma si pesa. Barbara Streisand sono anni che bussa invano alla porta del consiglio d’amministrazione per ottenere uno straccio di diritto di prelazione sul prossimo appartemento che si libererà. Arabi, russi e cinesi neppure ci provano. A New York tutto si può comprare, ma perché questa legge abbia un senso occorre che qualcosa ecceda il plafond della più grande carta di credito che la più grande banca di Wall Street possa concepire, qualcosa che distingua i ricchi dai semidei.
Taki è lì, a fare a pugni nella zona mista. “Vieni su!” fa dal pianerottolo del duplex. Indossa una maglietta attillata blu scuro, pantaloni della tuta in stile “jogger” e New Balance, che è il brand più trumpiano e identitario del momento. Una mise che è rischiosa su un trentenne un po’ giù di forma, ma sugli ottant’anni di Taki incredibilmente funziona. E’ mortificato per l’abbigliamento, ma è appena tornato dalla sessione quotidiana di allenamenti al parco, che in nome di qualche teoria orientale tiene con il freddo favore delle prime tenebre. Da giorni la parola che tiene banco su tutti i giornali del mondo è alt-right, la destra alternativa che grida “Hail Trump!” (e non “Heil”) e fa saluti romani in adunate al ristorante presentate come prove generali della marcia su Washington. A capo del movimento c’è Richard Spencer, il taglio “fashy” più corteggiato dalla stampa americana, e che Taki conosce da quando era un ragazzino bizzoso con idee sopra le righe.
Taki Theodoracopulos con la moglie, la principessa Alexandra Schoenburg-Hartenstein, a Gstaad, in Svizzera, dove passa parte dell’anno
“Tutte stronzate, sono tutte stronzate”, dice Taki, che un po’ ride delle esagerazioni della stampa, un po’ è accigliato per la solita cavalcata liberal. Spencer lavorava al The American Conservative, il giornale che Taki ha fondato assieme a Pat Buchanan nel 2003, “quando ci siamo resi conto che il paese era stato invaso dai neocon” e lui lo ha assunto per aprire il suo magazine online. Taki fa il sorriso del padre che ha visto il trucco del figlio che maldestramente tenta un gioco di prestigio: “Io questi li conosco, so quanti sono”. Ricorda un aneddoto: “Quando Specer è venuto da me per il colloquio è andato di sopra e ha vomitato dappertutto. Metti che l’avessi fatto io, chessò, a casa dall’avvocato Agnelli, sarei venuto giù e avrei chiesto scusa, avrei preso lo straccio e sarei andato a pulire. Non ti puoi aspettare che la servitù lo faccia. Lui non ha detto niente. Avrei dovuto forse rendermi conto allora che quel ragazzo aveva qualcosa che non andava. Alla fine ci siamo separati amichevolmente, lui ha insegnato a mia figlia quel che sapeva, ed è diventato il leader di questa alt-right”. Poi rivela la sua scoperta: “Quello che ho scoperto è che la alt-right non esiste, quello che esiste sono trecento membri, ma in realtà si tratta di cinquanta persone che hanno ciascuno una cinquantina di account e varie identità digitali con cui moltiplicano il traffico e fanno girare i commenti. Uno dice vabbè, sai che novità, ma poi arriva il momento in cui il New York Times sulla prima pagina per due giorni di fila dice che la alt-right è il prossimo pericolo, che è una totale stronzata. Non esistono. Erano in 280 a quella conferenza. Cinque di questi sono miei amici che non c’entrano niente con la supremazia bianca, sono stati invitati a parlare, sono andati e poi sono tornati a casa, si sono giusto fatti una cena gratis a Washington”.
Siamo di fronte al classico dilemma del black bloc. E’ Trump che aizza e legittima i gruppuscoli razzisti attorno a lui oppure sono questi che balzano fuori dalle catacombe appropriandosi di battaglie che non sono loro? “Questi gruppi stanno saltando sul carro di Trump, perché questi tizi sono prima di tutto degli imbecilli. Puoi anche essere un supermatista bianco”, dice Taki, aprendo una digressione rivelatrice: “Io sono un suprematista bianco, e lo scrivo che preferisco vivere con i bianchi, così come i neri preferiscono vivere con i neri, non puoi cambiare questo fatto. Le persone preferiscono stare con quelli del loro paese, della loro razza, gli italiani stanno con gli italiani, i greci stanno coi greci e via dicendo”. “Ma io – riprende il filo – ho avuto 450 ospiti quando ho dato un ballo a Londra per la caduta dell’Unione sovietica, se lui dopo sei mesi di lavoro non riesce a mettere insieme più di 280 cretini è abbastanza patetico. E credimi, non è un cattivo ragazzo, credo sia autistico o qualcosa del genere, forse ha la sindrome di Asperger. Quando lavorava per me si era portato una bellissima ragazza cinese che poi è scappata con mio figlio, ho pensato ‘poveretto’, poi ha sposato una ucraina. Non posso dire che mi dispiaccia il personaggio, ma la storia che ha un seguito o che il suo movimento conta qualcosa è assurda, sono le solite stronzate dei giornali”.
Trump ha rigenerato il lato perdente del dibattito conservatore, la sponda isolazionista e protezionista, quella che rigetta l’idea dell’impero e vorrebbe buttare a mare la dottrina dell’eccezionalismo. E’ una forma di nazionalismo talmente radicale che per sostenersi ha bisogno di un ancoraggio pre americano, e così non è strano se gli intellettuali di questa schiatta hanno maniere e mentalità europee, padroneggiano spesso il tedesco o il francese, talvolta l’italiano con cui hanno studiato Machiavelli. L’America dei “paleo” è grande, non è eccezionale. Non impartisce lezioni morali al globo, non decreta la fine della storia. Gli domando se Trump è l’erede, magari involontario, di Buchanan. “Pat è un grande uomo, per questo Trump non c’entra niente”, ride Taki. Poi, più serio: “La posa conservatrice di Trump è una scoperta molto recente. Ci sono giornalisti inglesi che sostengono non abbia mai letto un libro, e può essere che sia pure vero. Anche se poi dobbiamo dire che tutti i governanti che hanno fallito disastrosamente invece di libri ne avevano letti molti…” D’accordo: ma che non sia una versione volgarizzata, realityzzata? “Pat ha avuto pessima fortuna perché vent’anni fa era il commentatore più letto d’America, i suoi editoriali apparivano su venticinque giornali in tutto il paese, poi i neocon lo hanno distrutto chiamandolo antisemita, soltanto perché ha detto la verità ai servi di Israele al Congresso. Israele ha un’influenza spropositata, un’influenza ricattatoria, e lui lo ha denunciato: questo non fa di lui un antisemita. Semplicemente non vuole che un paese straniero abbia quel tipo di influenza. Lui in generale non è a favore degli arabi, preferisce Israele, ma dice le cose come stanno e sapeva cosa i neocon stavano facendo. Per questo negli anni Novanta ha iniziato a dire: ‘Siamo una repubblica, non un impero’. Abbiamo messo questo motto sulla copertina. Lo hanno fatto fuori per questo”. Ogni tanto una risata fulminante si accende su un volto altrimenti velato da un alone di malinconia, come se ricordarsi che Trump ha mandato a casa l’establishment dei liberal di destra e di sinistra iniettasse altra adrenalina a un uomo che, elezioni o meno, dimostra vent’anni in meno di quelli che ha. “Ho molta speranza in Trump, sai perché? Perché se non l’avessi sarei davvero disperato”, dice l’amante della tautologia e del paradosso. “Come potrà essere il disastro che dicono? Ci sono troppi ‘check and balance' nel sistema americano per fare disastri enormi. Molti dicono che è un altro Berlusconi. Non lo so, non conosco Berlusconi, ma tutti i miei amici che lo conoscono, a partire da Boris Johnson, dicono che non potrebbe essere più gentile e piacevole. Certo, pure Boris è un po’ un pagliaccio, ma vabbè…”.
Il punto, comunque sia, è l’occasione storica di “prosciugare la palude”, espressione che l’anziano reazionario greco traduce con “fare una rivoluzione”. La rivoluzione? “E per che cosa lo ha votato la gente? Bernie Sanders avrebbe vinto senza dubbio, perché è nello stesso campo rivoluzionario”. “Ah – Taki sospira, il ‘lui’ del cronista lascia spazio al ‘noi’ dell’attivista – se soltanto potessimo avere Bernie dalla nostra parte. Ho organizzato un incontro con Katrina Vanden Heuvel, la direttrice di The Nation, che è molto di sinistra ma anche molto intelligente, per aprire canali con il mondo di Sanders. I democratici hanno perso per via della ‘tunnel vision’ che ha impedito loro di vedere altro che questa cazzo di donna che chiama gli elettori degli avversari ‘deplorables’”. Sulle nomine Taki mette il timbro senza la minima obiezione. “Flynn è ottimo, Bannon è stato rappresentato come un figuro orribile, ma è una persona perbene, così anche Sessions. Mi piace anche questo Mike Pompeo. Si è laureato come primo della sua classe a West Point, ma lo sai quanto è difficile? Sono tutti ottimi nomi se vuoi cambiare le cose, se non vuoi cambiarle sono pessimi. E’ difficile trovare oggi gente di trenta o quarant’anni fra i ranghi dei conservatori che condivida l’idea che dobbiamo essere una repubblica e non un impero o che il lavoro duro dev’essere ricompensato, e parlo di posti come Akron, Ohio, non di questi cazzo di snob”, e agita la mano verso una drappo damascato che nasconde una finestra che s’affaccia sulla via dov’è concentrata la più grande quantità di ricchezza del mondo. La tesi, a suo modo audace, di Taki è che anche lo sdegno dei media liberal sia in fondo un gioco delle parti.
Trump è sempre stato legittimato dagli stessi poteri che ora lo aggrediscono. “Dicono che non potrà fare questo e quest’altro il primo giorno, ma è una finzione, andrà tutto benissimo, farà cose ragionevoli. Certo, non ho mai visto tanta animosità nel discorso politico. Ricordo quando Reagan è stato eletto nel 1980 la gente alle feste diceva ‘ah, Reagan, viene da Hollywood, va sulla limousine…’. Io lavoravo per Esquire allora e chiedevo ‘beh, ma tu non la vorresti una limousine? Daresti un braccio per una limousine, dillo su, e loro, sdegnati, ‘come osi parlarmi in questo modo?’. Adesso tutti hanno la limousine. Erano tutti spaventati da Reagan, ma non ho mai capito perché. Alla fine, se andiamo a vedere bene, né lui né Thatcher hanno mai ridotto davvero lo stato. Lei era tosta, ha distrutto i sindacati e tutto quello che volete, ma la macchina è costantemente cresciuta. Questo è il motivo per cui non mi è mai piaciuta”. *** Non è però sul big government che Theodoracopulos s’è creato la fama di opinionista controverso e incendiario. Le posizioni sugli ebrei, i neri e i gay sono le pietre dello scandalo. Non è chiaro come lui e Conrad Black ancora si parlino dopo che quest’ultimo ha scritto che “le sue bugie sono quasi paragonabili a quelle di Goebbels e degli autori dei Protocolli dei Savi di Sion”. Ripensamenti? Resipiscenze? Correzioni? Taki è inamovibile, una roccia appena levigata dal fiume della storia. “Su Israele non ho mai cambiato idea perché da ragazzino ho visto i campi profughi palestinesi prima della guerra del 1967 e poi li ho visti dopo la guerra. Sono sempre stato filopalestinese perché ho visto cos’è successo lì. Mi piace pensare di essere abbastanza intelligente da non fare dichiarazioni antisemite, ma sulla propaganda israeliana non ho mai cambiato idea. Ero profondamente anticomunista, e mi fanno sorridere tutti i liberal che adesso sono durissimi contro la Russia, mentre erano così docili con l’Unione sovietica. Abbiamo fatto un grande errore: bisognava fare come suggeriva Nixon, dare alla Russia più aiuto possibile, mentre noi li abbiamo isolati. Non sono così filoamericano come un tempo, perché mi sono reso conto che i necon sono un pericolo. Avevamo bisogno, durante la Guerra fredda, dell’egemonia americana, anche se la forza del nemico era stata clamorosamente esagerata, ma ora non più. Quando ero in Grecia odiavamo i comunisti, ho visto mio padre ucciderne uno a pistolettate – boom! – che cercava di entrare in casa nostra, e quando cresci così non puoi che odiarli, i comunisti, perché credono in un sistema di schiavitù, ma una volta che abbiamo vinto la guerra siamo diventati assurdi, ridicoli. Avremmo dovuto dimenticare, perdonare. Ora stiamo punzecchiando l’orso russo, non so perché. La Russia ha mai avuto la democrazia? No. E chi siamo noi per esportare la democrazia?”.
Di Vladimir Putin ha la massima stima, ça va sans dire: “Mi piace perché fa judo, e perché a differenza di George W. Bush sa che Tolstoj non è stato assassinato in Messico e sa che Turgenev non è morto di sifilide vestito da donna. E’ uno del Kgb, uno con le palle che si è preso il potere. Una volta ero nella tenuta di Heinrich Fürstenberg, era un bellissimo giorno d’estate, ci stavamo preparando per un ballo. Suo cugino era appena tornato da Mosca e giurava che Putin avesse un patrimonio personale di 40 miliardi di dollari. Gli ho detto: ‘Morirei piuttosto che rivelare chi me l’ha detto, ma ti prego dimmi come fai a saperlo’. Alla fine si è scoperto che era una stronzata, un ‘castello in aria’. Non credo sia corrotto quanto si dice, la vera corruzione è arrivata con Eltsin, l’avvinazzato. Putin mi piace perché è assertivo. Non l’ho mai incontrato, ma Vanity Fair una volta voleva che andassi a fare un incontro di judo con lui, ma non ha mai funzionato, qualche millantatore ci aveva venduto una puttanata”. E poi, faccenda non secondaria, ha una politica realista in medio oriente che s’attaglia bene alla visione di Taki: “Diciamocelo pure, se potessimo esportare i nostri valori in medio oriente sarei la persona più felice del mondo, ma questi vengono da quattromila anni di oppressione e tirannide, quattromila anni a leccare il culo del leader più forte, come diavolo è possibile che si convertano al nostro sistema, loro che vedono gli americani con una banda di omosessuali, il popolo emotivamente e culturalmente più corrotto di sempre, dove le donne sono tutte prostitute? E’ inimmaginabile per me che la gente creda di poter introdurre i nostri valori in quel contesto. Non abbiamo nemmeno la democrazia in Grecia! Tutto è governato dal nepotismo, c’è un gruppo di famiglie che si spartiscono il potere, e io lo so perché la mia famiglia è una di queste. Dopo quattrocento anni ci comportiamo ancora come un branco di turchi, figurati come fanno questi”.
I rapporti con Putin sono ottimi, quelli con Dio come vanno? Il nome di battesimo di Taki è Panagiotis, il “tutto santo”, ma lui tutto santo non si è mai sentito, e pure gli sposalizi e la prole non sono venuti secondo il canone ortodosso: “Abbiamo fatto prima i figli e poi il matrimonio, che è la cosa moderna da fare, perché prima di comprare devi vedere il prodotto”, ha scritto. Poi però, e saranno gli ottant’anni che un po’ pesano, qualcosa si apre: “Mi piace pensare di essere una persona. Ogni volta che passo davanti a una chiesa mi faccio il segno della croce come un invasato e una volta all’anno scrivo un pezzo per il Catholic Herald. Mio padre era gesuita, io sono ortodosso. Non vado molto in chiesa, ma ci sono due preti cattolici a cui sono molto legato”. E’ anche l’effetto del suo mentore, William Buckley Jr., grande intellettuale conservatore e cattolico d’inclinazione preconciliare con cui passava tutti gli inverni a Gstaad, il ritrovo della creme nobiliare dell’orbe terraqueo. “L’ho conosciuto nel 1962 quando la mia carriera di tennista non stava andando da nessuna parte. Volevo scrivere, e lui usava queste parole grandiose e forbite. Se non sei uno scrittore tendi a pensare che usare parole difficili possa darti un po’ di credibilità, e lui impiegava con naturalezza questo vocabolario. Era uno scrittore sublime ma un pessimo sciatore, mentre io sciavo molto bene, così abbiamo preso a sciare insieme e siamo diventati amici. Lo fotografavo mentre dipingeva, dopo ogni pasto, e invitava tutti a prendere parte al rituale della pittura nell’atrio del suo chalet. Ricordo che una volta è venuto Ted Kennedy e sulla tela bianca ha dipinto un ponte: era da poco successo l’incidente di Chappaquiddick. Fra tutte le cose che poteva dipingere, proprio un ponte”, ride sguaiatamente Taki, per un minuto buono.
Tom Wolfe lo vede ancora? “Veniva sempre con Sheila alle mie feste, ma ora ci incontriamo soltanto per strada. Una volta io e Alexandra facevamo sempre feste, venivano tutti, e la realtà è che adesso sono tutti morti o troppo vecchi. Così invito i giovani, faccio feste con gente che pensa che Tolstoj sia stato ucciso in Messico…”, e l’alone di malinconia diventa una coltre pesante, nell’improvvisa presa di coscienza che il suo mondo è in via estinzione. Ma di feste ne organizza ancora o va solo a quelle degli altri? “Ne faccio ne faccio…” strizza l’occhio, “ma cosa vuoi che faccia? L’altra sera a una festa c’era la nipote di Emilio Pucci, che ha una certa età, ma a parte lei erano tutti giovani, belli, attraenti. E’ divertente ma anche frustrante, perché loro ti vedono come un uomo vecchio e io le vedo come giovani ‘pussy’, per usare un termine di moda”. Segue un’irripetibile digressione di taglio tecnico, volgarissima ma a suo modo professionale, sul famoso “grab by the pussy” pronunciato inopinatamente da Trump in presenza di un microfono acceso. Dopo un’attenta disamina delle azioni descritte Taki ne conclude che il presidente eletto degli Stati Uniti intendeva l’espressione in senso esclusivamente metaforico: “Dai, altrimenti non ha senso”.
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