Trump fashion
L’imbarazzo degli stilisti schierati con Hillary, i timori di una stretta sui dazi e la moda italiana. Ma il Black Friday è andato a gonfie vele
Per il Black Friday del 25 novembre scorso, che già è stato calcolato come il più ricco e virtuale della storia, il presidente eletto Donald Trump ha messo in saldo al trenta per cento i parafernalia della sua campagna elettorale: t-shirt, cappellini, bandierine, santini, insomma le solite cose ma già ammantate dell’aura del successo, che è sempre un ottimo argomento di vendita, e che è bastato a far tirare un sospiro di sollievo agli specialisti mondiali dello shopping. Business as usual. Il “team del Donald”, come l’ha definito Flavio Briatore da Bruno Vespa con irresistibile piglio cafo-automobilistico, potrebbe non deludere. Nel frattempo, sotto la Trump Tower le misure di sicurezza sono state allentate, ma l’assembramento di polizia e cancelli è ancora imponente. Per i negozi limitrofi, un disastro. Durante la scorsa settimana, le vetrine di Tiffany Fifth Avenue che tutti conoscono da tre generazioni, insieme con la nuca delicata di Audrey Hepburn che addenta un danish pastry nel celeberrimo abito Givenchy taglio-dea egizia, sono rimaste chiuse, spesso oscurate, e tutti gli eventi organizzati in vista di Thanksgiving cancellati. E’ facile calcolare che per la griffe della gioielleria la perdita secca ammonti a qualche centinaio di migliaia di dollari, addirittura a qualche milione nell’eventualità, non remota in questa stagione, che uno di quei gentiluomini che tanto piacevano a Marilyn Monroe e Jane Russell avesse deciso di farsi impacchettare un collier di diamanti della collezione Ribbons come dono di Natale per una qualche fortunata. Come Tiffany, hanno chiuso per giorni, talvolta sbarrato l’accesso al negozio, tutte le griffe che si affacciano di fronte o accanto alla Trump Tower.
Gianluca Isaia ha raggiunto per giorni boutique e uffici dalla Sesta, inoltrandosi fra cortili e corridoi pur di evitare l’assembramento di telecamere, cameramen, giornalisti e votanti di Hillary Clinton inferociti che, racconta, “hanno stazionato lungo la strada e sui marciapiedi per giorni, giorno e notte”. Nessuno ha mai temuto davvero che la situazione degenerasse (“per certi versi”, racconta Isaia, ancora sostanzialmente barricato, “mi ha fatto più impressione vedere questo sfogo di rabbia contro un’espressione democratica come il voto popolare, a prescindere da quello che si possa pensare del sistema maggioritario americano”). Di certo, l’attività si è fermata nei giorni in cui avrebbe dovuto accelerare. La situazione va risolvendosi, appunto, solo in queste ore, di concerto con il recupero di popolarità del presidente eletto e le ottime performance di Wall Street, altra previsione smentita fra le tante consumate fra Seattle a Saint Louis, mentre il sistema della moda americano è spiazzato e quello europeo titubante. Se per il comparto del lusso e della moda di alta gamma il rafforzamento del dollaro e i tagli promessi all’Obamacare dovrebbero rivelarsi un acceleratore di vendite e di voglia di spendere in cui gli analisti del settore hanno dimostrato di credere parecchio, dalle parti del ministero dello Sviluppo economico guardano invece con una certa apprensione alla stretta annunciata sui trattati di libero scambio, il trattato per il negoziato transatlantico (Ttip) a cui il ministro Carlo Calenda crede moltissimo e al quale lavora da anni, a prescindere dalle obiezioni di molti, e in particolare delle associazioni di categoria e dei consumatori, sull’impoverimento della legislazione europea in materia di tutele per la salute. Ma cibo, bevande e prodotti tessili rispondono a logiche diverse, e se qualche dubbio sulla validità del Ttip può ritenersi legittimo quando riguarda l’azzeramento delle barriere per alimentari e prodotti transgenici, mettendo a rischio la sopravvivenza di molte piccole imprese impossibilitate a competere con le multinazionali e a imporre i propri prodotti se non a un’élite di ricchi e competenti, in tema di tessile il discorso cambia.
Ivan Scalfarotto, sottosegretario con delega al commercio estero, consultato sul tema dal Foglio osserva infatti che, pur “non avendo ancora elementi concreti dai quali sia possibile prevedere le mosse della nuova amministrazione”, e non aspettandosi di certo “aumenti tariffari penalizzanti per i prodotti di lusso”, ritiene però che il Ttip “soffrirà a breve un rallentamento delle trattative” e che quindi “i nostri esportatori tessili e i nostri orafi non vedranno arrivare nell’immediato futuro quelle norme che auspichiamo e che faciliterebbero la loro vita negli Stati Uniti”. E’ la stessa posizione che esprimevano alcuni giorni fa sia il presidente di Sistema moda Italia Claudio Marenzi nelle sale del Four Seasons di Milano – dove si teneva la conferenza stampa di presentazione di Pitti Uomo 91, in programma il prossimo gennaio a Firenze – sia Gaetano Marzotto, fra i primissimi a ritenere che la realtà della politica di Trump in tema di immigrazione e di scambi con l’estero avrà quasi certamente toni ben diversi da quelli espressi in campagna elettorale, “sebbene le prime scelte per la nuova squadra si siano rivelate estremamente conservative” (il giorno dopo la nostra conversazione, il famoso rafforzamento del muro con il Messico si era per buona misura e ancor migliore auspicio trasformato in una recinzione). Se il presidente di Pitti Immagine ritiene a sua volta del tutto improbabile una revisione delle condizioni di scambio sui prodotti del lusso, allo stesso modo giudica piuttosto lontana perfino l’ipotesi della stretta daziaria al 45 per cento nei riguardi dei prodotti cinesi agitata dal presidente eletto in campagna elettorale: “I consumatori americani, come i nostri peraltro, si sono abituati alla produzione di Pechino, e in particolare, naturalmente, al loro prezzo”. Che poi l’amministrazione americana si sia giovata parecchio dei massicci acquisti obbligazionari degli ultimi governi cinesi è un elemento che pochi dichiarano esplicitamente ma che è dato per sottinteso, senza considerare l’attuale politica di Pechino come finanziatore su scala mondiale delle grandi opere infrastrutturali, uno dei punti cardine del programma di Trump, che se dovesse rifiutare eventuali offerte di partnership come ha fatto il governo inglese, forse lo farebbe per tener fede alle proprie dichiarazioni più che per reale volontà.
Come Isaia e altri produttori di moda made in Italy, oltre che gli analisti di Banca Akros, Marzotto vede invece una lunga fase di rafforzamento del dollaro e di rialzo dei tassi che “favorirà la propensione al consumo degli americani”. Dopo Francia e Germania, gli Stati Uniti rappresentano infatti il terzo paese mondiale per le esportazioni italiane: tolto il biennio 2008-2010 e il primo riflesso della crisi, ha sempre garantito buoni o anche ottimi risultati, fino al venti per cento di crescita fra il 2014 e il 2015, nello stesso periodo in cui la domanda interna crollava del quaranta per cento, le sanzioni al made in Italy e l’embargo in Russia provocavano un crollo verticale delle vendite e la Cina soffriva gli effetti della stretta politica sulle spese di rappresentanza, un immenso e complessissimo sistema di scambi di doni grazie al quale le nostre griffe vendevano migliaia di oggetti di pelletteria e di abbigliamento. Se si considera che l’interscambio complessivo ammonta a una cifra di poco superiore ai 50 miliardi, è chiaro che gli Stati Uniti rappresentano un partner, e un mercato di sbocco, determinanti. Il primo trimestre dell’anno è stato infatti molto positivo e, come si scriveva nelle prime righe, Black Friday e Cyber Monday, cioè la doppia concentrazione di saldi a cavallo dello scorso weekend, ha registrato risultati record. Poche ore prima di Thanksgiving, Yoox-Net-à-Porter aveva diramato una nota previsionale di vendita molto positiva (“Per la prima volta ci aspettiamo che le vendite da mobile supereranno quelle da desktop, al ritmo di un ordine al secondo”) e puntualmente confermate.
Lo shopping postprandiale del tacchino con cranberry sauce è stato, dunque, la cartina di tornasole del vero sentiment degli americani nei confronti di Trump, cancellando le incertezze e le volubilità delle vendite del secondo trimestre, determinate dalla Brexit e dalle stesse elezioni americane il cui esito, a oggi, sta rivelandosi meno catastrofico di quanto fosse stato previsto non solo da noi commentatori e vaticinatori di professione, che forse avremmo fatto meglio ad affidarci alle interiora degli animali come gli aruspici dell’antichità, ma per gli stessi stilisti e imprenditori della moda americani che, in massa, avevano espresso il proprio sostegno a Hillary Clinton. Nella storia della moda, si stenta a ricordare couturier che si siano schierati apertamente a favore di uno o di un altro governo com’è accaduto per questa tornata elettorale americana. Menti pur brillanti come Hardy Amies si erano sempre limitati a estasiarsi per i completi nei quali la regina d’Inghilterra scendeva “radiosa” dagli aerei, domandandosi tutt’al più se l’orlo della gonna non avrebbe potuto essere leggermente accorciato a vantaggio dello slancio della regale figura, e anche in Italia i casi di schieramento si contano sulle dita di una mano sola: qualcuno ricorda forse che ai Dolce & Gabbana non dispiaceva Silvio Berlusconi, e perfino Ermanno Scervino, che dirama un giorno sì e l’altro pure un comunicato sul “look” fornito ad Agnese Renzi, si è sempre guardato bene dal prendere posizione, mentre parla diffusamente, e giustamente, delle incrostazioni di pizzo che ingentiliscono gli abiti della moglie del premier.
Forse sarà per via dei social network che danno a tutti l’impressione di parlare a degli amici anche se è come se tenessero conferenze stampa aperte ventiquattr’ore su ventiquattro, ma il sarto impegnato è un’assoluta novità dai tempi in cui Rose Bertin, modista favorita di Maria Antonietta, scappava da Parigi caduta in mano ai sanculotti e che persino vent’anni dopo, nelle sue memorie di ministro-ombra della moda francese vergate fra il lungo soggiorno da emigré in Inghilterra e il difficile rientro in patria, riusciva a infilare parole di elogio nei confronti degli stessi rivoluzionari che le avevano imposto di chiudere bottega. L’artista contro, schierato, in grado di influenzare agenda politica e coscienza popolare, è un fenomeno che fino a oggi aveva conosciuto davvero solo il Sessantotto, e perlopiù nella pittura e nel cinema. Che il potere persuasivo dei musicisti si sia esaurito ancora prima di quello dei maestri del pennello, non vorrei dire con Giuseppe Verdi e Arturo Toscanini ma non andrei davvero oltre Luciano Berio e Giancarlo Menotti, è stato dimostrato da questo stesso clima post elettorale americano in cui rapper storicamente clintoniani come Kanye West vanno esibendosi in penose arrampicate pubbliche sul vetro per recuperare posizioni nei confronti del presidente eletto (“Ci sono modi non politici e non politicamente corretti nel suo modo di parlare che mi piacciono, che io sento molto futuristici”, l’incredibile contro-endorsement pro Trump durante l’ultimo concerto a San José, dopo i quali è stato coperto di insulti e di fischi e ha cancellato il tour).
La moda si trova in una posizione ancora più delicata, appunto perché la sua partecipazione al dibattito politico è quasi più inedito di quello che i cuochi stanno mostrando in questi giorni in Italia (non per dire, ma sentivamo davvero il bisogno che Massimo Bottura, pur geniale com’è, alzasse il naso dalle pentole per esprimerci il suo punto di vista sul referendum?). Se, anche dagli Stati Uniti dove si trovano in questi giorni e dove hanno una presenza più che consolidata, imprenditori italiani come Diego Della Valle preferiscono non rilasciare dichiarazioni, nei palazzi della Seventh Avenue da cui si governa la moda è scattato il panico: tutti gli esponenti più in vista del sistema della moda americana, da Marc Jacobs a Tory Burch, Jason Wu e Prabal Gurung, hanno infatti vestito per otto anni Michelle Obama, e negli ultimi mesi hanno fatto apertamente campagna contro Trump. Lo choc della vittoria di the Donald (nota a margine: che comodità, poter definire un presidente di cui parleremo molto per i prossimi quattro anni per nome e cognome, carica e nickname, senza correre il rischio di ripetersi) è stato tale che la presidente dalla Federazione degli stilisti americani Diane von Furstenberg, moglie di Egon e poi del boss di Fox, Barry Diller, con il quale ha generosamente sovvenzionato la campagna di Hillary Clinton, ha diramato agli associati una lettera politicamente scorrettissima in cui li invita a essere “comprensivi, generosi, aperti di mente e ad abbracciare la diversità”, intendendo suppongo che il “diverso” siano Trump e la sua genia, cioè la nuova first lady slovena Melania Trump, che una cosa era vestire da modella e poi da moglie non proprio chicchissima di un tycoon, è un’altra da moglie del presidente.
Qualcuno sta facendo buon viso a cattivo gioco; qualcun altro, come la stilista Sophie Theallet, ha diramato a sua volta una lettera agli associati in cui, osteggiando apertamente la linea morbida della presidente, si scaglia contro la retorica sessista, razzista e xenofoba di Donald Trump e si rifiuta di collaborare in alcun modo con sua moglie fornendole i suoi abiti, trovando subito sostegno in Humberto Leon, designer di Kenzo e di Opening Ceremony. La voce di Melania Trump per ora non si è sentita. Ma sapete quale credo sia l’unico, vero dramma per la moda americana alla prova del Trump? Che Melania, accidenti a lei, è molto più facile da vestire di Hillary e tirarsi indietro vorrà dire darsi la zappa, o per meglio dire l’ago, sui piedi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano