Arisa a “X-Factor”. In una delle recenti puntate del talent show ha litigato con Manuel Agnelli. Giovedì sera ha chiuso la trasmissione (era l’ultima puntata) tra i fischi del pubblico (foto LaPresse)

Troppa sincerità

Simonetta Sciandivasci

Lo scivolone di Arisa, che ha portato in tv il reality di se stessa. Nella sua finzione, invece, la Carrà non ci stuferà mai abbastanza

"Tanto non mi scompongo”, dice Arisa all’Ariston che vuole vederla piangere e scarmigliarsi, l’attimo prima di eseguire per la seconda volta – così prescrive il cerimoniale – la sua “Controvento” con cui ha appena vinto il sessantaquattresimo festival di Sanremo. E’ il 22 febbraio del 2014, da qualche ora Matteo Renzi ha inaugurato il sessantatreesimo governo della Repubblica Italiana, prestando giuramento al Quirinale. “Renzi? Non lo conosco. Il nuovo governo? Non capisco niente di queste cose”, risponde lei ai giornalisti della sala stampa del teatro. Due giorni dopo, nel discorso con cui chiede la fiducia alla Camera, il neo premier dichiara: “Noi siamo qui controvento, con il gusto di rischiare, per dire una cosa difficile: la pagina più bella questo paese ancora non l’ha vista”. Quando Daria Bignardi, alle “Invasioni barbariche”, le sottolinea l’importanza di essere stata citata dal presidente del Consiglio nel discorso più importante del suo mandato, lei fa spallucce: di nuovo, non si scompone. Nel 2009 si era fatta conoscere dal grande pubblico vincendo la sezione Giovani del festival di Sanremo con la sua “Sincerità”. Era salita sul palco con il volto allargato da un paio di enormi occhiali, una mise da colori sgargianti e taglio da educanda. La strapaesana modesta e tenace, avvolta nella sua Pignola (il paesino lucano nel quale è cresciuta, a sessanta chilometri da Ruvo del Monte, dove stanno le radici di Vincenzo De Luca), una corazza che la rendeva una Heidi flâneuse, timida e ruvida, straniata e costumata, goffa e precisa, semplice e mai, proprio mai sempliciotta.

Era l’autenticità che per la prima volta sfilava su un palco senza nemmeno un filtro, ripudiava l’apparentamento a naturalezza e sobrietà, rivendicava, invece, l’aderenza a una storia personale e familiare, mostrando la lunghissima distanza tra l’autentico immediato delle persone e l’autentico astratto, rimuginato e valoriale delle pubblicità e degli slogan. Impossibile non affezionarsi a lei. Si sarebbe potuto presagire che quella stessa ragazza, rimasta una delicata e stramba Heidi flâneuse anche dopo aver dimesso gli occhiali per le lentine, i gonnelloni per gli abitini longuette, i capelli a scodella per l’acconciatura pixie, sarebbe poi finita a chiedere scusa, in diretta Facebook, per essersi presentata ubriaca alla prima puntata dell’ultima edizione di “X-Factor”, il talent musicale di Sky (ieri è stata trasmessa la finale) dove è stata giudice, insieme a Fedez, Manuel Agnelli e Alvaro Soler e che, nel farlo, avrebbe lasciato andare un ruttino, pronunciato frasi sconnesse e descritto, per cinque minuti buoni, l’entità del suo mal di testa, evidentemente in hangover, se non addirittura ancora in piena sbronza? E che avrebbe chiuso la trasmissione (la finale è andata in onda giovedì sera) tra i fischi inarrestabili del pubblico, che la ammoniva, volendola censurare per qualsiasi cosa dicesse, bella o brutta, sensata o insensata che fosse? Che con il pubblico sarebbe arrivata a litigare (“siete dei maleducati!”, ha urlato a un certo punto, in diretta, senza che nessuno intervenisse, a parte un flebile “non ha tutti i torti” del presentatore Cattelan) assomigliando molto più che a Richard Benson, il musicologo metallaro che con le ingiurie spettatore-artista teneva in piedi spettacoli interi, a Matteo Orfini che, durante la campagna elettorale per le ultime comunali romane, era stato zittito con insulti e fischi e “ve ne dovete annà” dai passanti?

 

 

Per Zeitgeist (trasparenza e sbraco, oggi, sono crediti) o perché “per navigare nello show business, bisogna omologarsi un po’” (ha detto a Panorama, qualche giorno fa), Arisa s’è scomposta. Lei, che solo fino a quattro mesi fa si poteva tentare di scomporre soltanto da fuori, a tavolino, ottenendo al massimo le iniziali dei suoi parenti, che messe insieme fanno il suo nome d’arte (all’anagrafe, si chiama Rosalba Pippa). Nel giro di un programma, però, è tutto cambiato. Le prime indiscrezioni sulla sua mancata conferma alla prossima edizione del talent hanno preso a circolare nei giorni scorsi, mentre all’Italia si parava davanti un flashback lungo cinquant’anni per l’addio alle scene di Raffaella Carrà: cinquant’anni non rottamabili di televisione inzuppata di doroteismo, che lei ha saputo prima vergare con malizia, tocchi impudenti ma amici e poi traghettare in un paese decisamente pentito e imbarazzato dalle ipocrisie della Dc, esibendosi sempre e non esponendosi mai. La televisione al tempo dei ruoli inflessibili, del pubblico ingenuo, incontaminata dai reality e quindi dalla trasparenza e dalla verità pubblica confusa con quella personale, Raffa l’ha trasportata e infuturata, indelebile, immutata. In cinquant’anni, ha mantenuto il caschetto biondo, l’elasticità, l’eleganza e ce li ha resi familiari. Eppure, nessuno di noi saprebbe dire cosa pensa davvero, che idea di mondo abbia, quali disordini o disturbi o vizi nasconde: lei non si è scomposta mai. Non sapremmo nemmeno dire se e quanto le è pesato essere una soubrette nell’Italia non addomesticata dal post femminismo, se “il fatto di essere una donna” le abbia messo i bastoni tra le ruote. Se sognasse di diventare Alberto Angela e non Raffaella Carrà. Ed è assai probabile che non lo sapremo mai: né sapremo se sarà stato questo mistero che l’ha resa neutra e quindi accessibile e familiare.

Arisa ubriaca, disordinata, insomma scomposta, invece, ci appartiene. Si consegna nelle nostre mani, ci domanda scusa (perché è sbronza, perché è ignorante, perché è litigiosa) ma nel farlo ci provoca, esausta del meccanismo tribunalesco che governa l’intrattenimento al posto del divertimento. Nel 2010 divide il pubblico in adoratori della sua femminilità goffa e malfidati che la ritengono una pupattola studiata (pure male) da discografici intenzionati a resuscitare con lei gli anni Cinquanta e le buone maniere. Quell’anno, Arisa ottiene un ruolo fisso in “Victor Victoria”, il talk di Victoria Cabello su Mtv: dà il benvenuto agli ospiti del programma, reinterpretando per loro brani di successo. “Toxic” di Britney Spears per Katia Ricciarelli perché “sono tutte e due bionde”. “Giudizi universali” per Roberto Formigoni. “Like a Virgin” per Max Giusti, indossando una camicia bianca a pois neri e un gonnellone rosso a vita alta di rara bruttezza, che l’aiutano a fare evaporare l’impudicizia del testo di Madonna, lasciandone intatta la sensualità. Non si manca di ingaggiare l’allure lolitesca per raccontare quel momento della carriera di Arisa. Ma lei è ancora, solo una Heide flâneuse. La testa nella voce e la vita altrove. A Sanremo 2012, sale sul palco vestita da donna sofisticata. Dimagrita. Con l’ombretto che sembra una luce irradiata dallo sguardo, finalmente nudo e capace di guardare dentro la telecamera, di chiudersi per esigenze espressive, di modulare la voce. Canta “La notte” e il pubblico impazzisce. Walter Veltroni e Ivan Scalfarotto twittano il loro sbalordimento.

La Repubblica parla di una nuova Arisa. S’eclissa la regoletta della “sincerità imprescindibile per una relazione stabile” e s’illumina una verità più complessa: “Né vincitori né vinti, si esce sconfitti a metà, la vita può allontanarci, l’amore poi continuerà”. E al diavolo l’assolata, irrealistica, felice (“la mia educazione mi ha insegnato che la felicità non dura”) cornice dell’amore romantico: “Non basta un raggio di sole in un cielo blu come il mare, perché mi porto un dolore che sale, che sale. Si ferma sulle ginocchia che tremano e so perché”. Fintanto che non va da Daria Bignardi a ri-raccontarsi, sembra più che possibile che la ruspante, rigida lucana (“la mia terra mi ha insegnato la disciplina”) abbia definitivamente ceduto il passo a una saggia star, magari pure un po’ stronza. L’Italia ha imparato a fidarsi di lei ed è pronta a lasciare andare la bambina e prendersi l’adulta, insieme al rischio delle sue bizze. Ma Arisa è ancora la simpatica svampita del tutto incapace anche solo di sembrare una gatta morta. Ci tiene a specificare che le sue letture sono poche perché i libri la stupiscono: resta di stucco, per ore, a ripensare a una pagina, ad assorbirla, a coinvolgerla nella sua vita. Che con Juliette Greco non c’entra niente. Che l’Arisa nuova c’è sempre stata, ma si nascondeva dietro gli occhiali: “La mia stylist mi ha detto che quando sono in difficoltà divento più simpatica”. Che ama le galline perché le ricordano la forma delle massaie. Che indossa un ciondolo a forma di vagina perché “se avessi il fisico di Belèn, sventolerei tutto come lei” (è appena terminato il Sanremo del vertiginoso spacco di Belen, che aveva lasciato intravedere il suo tatuaggio inguinale).

 

 

Così, il disvelamento di Arisa ha inizio e la immette su una strada che avrebbe corso per sempre sul burrone dell’artificio. “Non mi mandi le domande, altrimenti mi preparo le risposte e poi non sono più spontanea”, ha detto a Luigi Bolognini di Repubblica, prima di un’intervista. Sembra che lo dica spesso. In televisione, però, la sua istanza è diventata un mantra fastidioso e discutibile. Arisa ha inondato lo schermo di Rosalba Pippa. Ha portato nella giuria di “X-Factor” un reality di se stessa, credendo davvero che la televisione abbia del tutto abdicato alla realtà e rinunciato all’autentico pubblicitario per l’autentico umano. “L’ignoranza è solo di chi pensa di sapere di più”, ha tuonato, in una delle recenti puntate del talent show, contro Manuel Agnelli, che l’aveva invitata a “studiare” (è accaduto spesso che non conoscesse le canzoni cantate dai concorrenti), ricordandole che le sue candide ammissioni di ignoranza non erano più accettabili e che un giudice non ha diritto a non sapere, poiché deve distinguersi dal pubblico e dare conto delle proprie scelte e della propria competenza. Ne era seguito un serratissimo botta e risposta, tra i più politici della televisione (tenendo da parte i talk) degli ultimi anni, in cui lei ha dato voce al populismo e Agnelli, invece, alla logica severa che Rosalba ha raccontato, per anni, essere stata il fondamento della sua formazione morale. Poco dopo, all’“Extra-Factor”, la mini trasmissione che segue ogni puntata, Arisa, non paga, accusa Agnelli di “scatenare il suo odio contro le donne” e di “attivare strategie, come fanno quelli che non sanno come difendersi”. Una sceneggiatura degna di un’edizione qualsiasi del “Grande Fratello”.

La stampa, fino ad allora compattamente schierata al fianco di Agnelli, “vera rivelazione televisiva dell’anno”, comincia a disgregarsi e a dispiegare le sirene dell’anti-sessismo. “Tre uomini contro una donna”, titolava la scorsa settimana il blog femminile del Corriere della Sera, la 27esima ora, per raccontare di uno scontro che da “giudice contro tutti” è diventato “una donna contro tutti”, dove Arisa verrebbe rabbonita dal conduttore, inascoltata dai suoi colleghi giudici che la emarginano e “fanno serata insieme, mentre Arisa – la pazza, la povera scema – dice di essere andata da sola a mangiare la pizza con le cipolle”. “Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me”, diceva Groucho Marx e Arisa, fintanto che era una Heidi flâneuse, sarebbe stata assai d’accordo. Ma ora che essere una pop star non le basta più, ora che è un giudice impopolare e ha una coerenza da mantenere, delle opinioni da esprimere, una posizione da difendere, un genere da incarnare (sebbene tutta la sua carriera sia stata un continuo scucirsene, involontario e per questo delizioso) e pure una finta normalità da esibire, Arisa abiura. Nega la sua natura impolitica e si serve dei nostri sensi di colpa diventati tic culturali per ricavarsi una chance o, peggio ancora, lascia che l’opinione su di lei faccia tutto questo al suo posto. Lei, che con Raffaella Carrà non c’entrava nulla ma condivideva il talento della levità, unico scudo vincente contro la polemica antropologica, prima sventola la bandiera dello spontaneismo egualitario e poi, addirittura, diventa una delle (tantissime, troppe) bandiere dell’indignazione femminile.

Arisa, la fanciulla della ricusa agreste. La sola, in tutta Italia, capace di difendere Belen senza scomodare ideologie: “Credo che per ottenere quel corpo faccia molti sacrifici: è giusto che lo esibisca”. La prima artista – e unica, insieme a Emma Marrone – ad accettare di calarsi nella parte di valletta a Sanremo, incenerendo un numero imprecisato di tabù e cliché. Lei, che ha ripristinato la gentilezza nel pop, la pazienza nella comunicazione, la bellezza nella bruttezza, lascia che sia attaccato il paese che, in tutti questi anni, in fondo, le ha fornito più sostegno che critiche. “Da qui comincia tutto, l’orgoglio femminile non c’entra”: disse a Daria Bignardi, quando le domandò come mai portasse al collo un ciondolo a forma di vagina stilizzata. Quando era poetica, nascosta, decisa in un ruolo fermo di espressione e non di comunicazione, Arisa vedeva meglio le ragioni delle cose, spazzava via volentieri gli ideologismi e aveva bene in mente la distinzione tra persona e personaggio, sapendo come usare l’uno per proteggere l’altra. La televisione, invece, l’ha convinta a tirar fuori entrambi, a scomporsi in essi e fuori di essi, spacciandoli per emanazione di una qualche verità. Ma la verità dura molto meno di un mistero: il pubblico la sbrana in un attimo e subito dopo ne vuole un’altra, di un altro. Arisa trasparente, verbosa, quotidiana, vera, autentica, già assomiglia a decine di altre e questa somiglianza le è stata fatta pagare, impietosamente: non c’entra il sessismo. Essere una donna non può costituire un’eccezione alla norma. Raffaella Carrà, mummificata nel suo ruolo, nella sua finzione così estranea alla realtà eppure tanto vicina al suo sogno, invece, non ci stuferà mai abbastanza. Il giorno stesso del suo addio alle scene, si è parlato di un nuovo, possibile spettacolo.

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