Il libro nero del Rinascimento
Il bene e il male nel secolo della bellezza
Accanto a Botticelli, a Michelangelo e al Magnifico, una realtà oscura dominata da banchieri senza scrupoli, politici venali, ecclesiastici lascivi. Alexander Lee ha esplorato questo groviglio di avidità, violenza e depravazione
Nei primi giorni del settembre 1814, Stendhal appunta nel suo “Journal”: “L’altro ieri, scendendo dall’Appennino per arrivare a Firenze, il mio cuore batteva forte… Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe… Ero arrivato a quel punto d’emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e dai sentimenti appassionanti…”. Aveva la memoria piena della prima visita, a Firenze il 26 settembre 1811. Quando per la prima volta si era trovato al cospetto di un mondo. Al cospetto della maestà e al profluvio di illustrissime memorie storiche e artistiche qui adunate, pare provasse uno strano deliquio, lo “strano male” che, prendendo dal diaframma, sale alla testa infiammandola e qualcuno fa schiantare a terra come un birillo. Stendhal fu preso dal deliquio, uno sconosciuto e inspiegabile stato. La visione di opere d’arte di straordinaria bellezza, specialmente se compresse in spazi limitati, gli provocò tachicardia, capogiro, vertigini, confusione e allucinazioni. E’ l’eruzione dell’intimo delirio, una botta di mal di mare artistico noto come “sindrome di Stendhal”. “Anche “sindrome di Firenze”, città dove tutto è troppo. Oltre a certe opere degli Uffizi, luogo di eccellenza per sfinimenti durante la contemplazioni di universi dipinti, altra ambage magica a far strapiombare la cappella Brancacci, dove stanno gli affreschi di Masaccio. Qui, a quanto si dice, soggiacendo alla bellezza, alcuni tracollano sconfitti dalla potenza emotiva di quanto stanno contemplando.
Nell’abbandono alla visione può accadere sempre qualcosa di insolito. Un dipinto è energia fattasi materia. E tutto sommato non è così difficile percepire il fruscio irradiato da un capolavoro, la cui grandiosità viene dall’accumulo emozionale che emana. Il “linguaggio” di questa comunicazione può condurre a una felicità ritrovata: la sorpresa di percepire un altro universo. Forse per questo alcuni si sentono male davanti alla maestà rivelata. Ma questo è un discorso che vale per ogni vertiginosa forma dell’espressività umana, da che mondo è mondo. Certo è che dipinti, affreschi, palazzi, sculture… tanta bellezza ingorgata in un un’unica città costituisce un unicum, risultato di una eccezionale e miracolosa, a un tempo terribile contingenza storica e sociale. E’ quanto viene raccontato in un originale libro di Alexander Lee (“Il Rinascimento cattivo. Sesso, avidità, violenza e depravazione nell’età della bellezza”, ed. Bompiani, 700 pp., 25 euro), quale controcanto alla automitizzazione di una società e di un’epoca. La grandezza idealizzata dalla consapevolezza di chi viveva in quel tempo. Non avrebbero certo voluto aspettare la conferma della storia. Loro erano la storia. Una vanità che Marsilio Ficino esalta in una lettera: “Questa nostra età aurea ha riportato alla luce le liberali discipline già quasi estinte: la grammatica, la poesia, la retorica, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, il canto degli antichi carmi al suono della lira orfica. E questo in Firenze”.
Una vanteria capace di mettere in moto il meccanismo dell’autoconsiderazione. Sentirsi capaci come nessun altro di “riportare in luce l’antica leggiadria dello stile perduto”. La certezza d’essere gli eredi dello “splendido lume dell’eleganza latina”. Potenti attraverso la costruzione dell’immagine di sé. I letterati insufflatori promuovevano e modellavano un’età della “rinascita”, forgiando l’ideale eroismo dell’artista. In una città dominata da mercanti arricchiti. Con occhio più freddo Pico della Mirandola, dopo il primo viaggio a Firenze, rese un’impietosa immagine. Per quanto si potesse essere tentati di vedere quella città pervasa di risorgenza culturale e splendore artistico, dove uomini e donne avevano raggiunto uno straordinario grado di raffinatezza civile, le conquiste consistevano in una realtà che era impossibile non riconoscere oscura, turpe e perfino diabolica. Dominata da banchieri senza scrupoli, politici venali, ecclesiastici lascivi. Attraverata da tensioni sociali e religiose, orridi contagi e stili di vita bizzarri. Atrocità d’ogni genere venivano commesse sotto lo sguardo impassibile di sublimi opere d’arte, ammirate poi da generazioni. Le medesime capaci di suscitare vapeurs e deliqui per la loro impenetrabile e magica potenza artistica. Cosa nutre il conturbante mistero di queste opere? La loro forza evocativa è soltato bellezza filtrata dalla genialità degli esecutori? In realtà, con il loro splendore, recano messaggi che affiorano da ombre arcane.
L’uomo ha certo la capacità di ascendere ai gironi celesti della divina bellezza, e in ciò la facoltà di contemplare anche il volto di Dio, e a un tempo abbandonarsi agli orrori dell’abiezione. Angeli e demoni coabitano nel cuore in una terribile e affascinante simbiosi. E’ la duplicità del Rinascimento per ciò che reca con sé di drammatico, emozionante e miracoloso: epoca attraversata dall’impalpabilità degli angeli e dalla più demoniaca carnalità. Lo stesso Pico così “severo” sull’andare dei giorni, di quel tempo ne è l’emblema. Mentre la sua mente e l’opera sua si librava nell’empireo della bellezza e della perfezione, si coinvolgeva negli scabrosi episodi della propria sessualità che non riusciva a tenere a freno. Poco dopo il suo arrivo a Firenze, sedusse la moglie di un cugino di Lorenzo il Magnifico e, in procinto di fuggire con la sua conquista, fu sorpreso, orribilmente ferito e imprigionato. Appena ripreso dall’avventura si strinse d’amicizia con Angelo Poliziano, amicizia presto mutata in ardente relazione sessuale. Suscitò scandalo. Poliziano e Pico vennero avvelenati – pare per ordine di Piero de’ Medici – e la loro relazione ricordata e commemorata. Furono sepolti uno accanto all’altro in San Marco. In quel convento abbellito dagli affreschi di Beato Angelico, archetipo del chiostro erudito, dotato di una splendida biblioteca con una raccolta di manoscritti tra i più pregiati che denaro potesse procurare: in realtà una ingente donazione di Cosimo de’ Medici, ansioso di espiare le maniere turpi con cui aveva accumulato il suo denaro. Quel San Marco, punto d’incontro per umanisti bibliofili e per artisti ansiosi, diventato celermente un focolaio di estremismo religioso, di intrighi politici.
Da un certo punto in avanti con Girolamo Savonarola, priore, mutatosi da moralizzatore cristiano in agitatore politico. Fustigatore di quello splendore che gli cresceva attorno e che bollava come pittura lasciva. Per chi come Michelangelo, in quei giorni intento a scolpire il David, viveva nell’aura di San Marco, era impossibile non percepire le tensioni create dalle isterie dell’esagitato frate, denunzie moralizzatrici che addirittura avevano indotto Sandro Botticelli a interrompere per un certo tempo l’attività di pittore. Bastava tuttavia uscire dal clima del convento di San Marco, luogo ingorgato di bellezza, esaltazioni artistiche e letterarie, tellurici contrasti, trionfi della dissimulazione, congiure, per scoprire la città. Un altro universo. “D’intorn’a l’uscio ho mete di giganti / ché chi mang’uva o ha presa medicina / non vanno altrove a cacar tutti quanti”. Sono versi di Michelangelo. Le contrade di Firenze affollate, multicolori. Ogni ceto mischiato. Venditori, mercanti, uomini di legge, giovani in vivaci farsetti… E mendicanti e storpi e ammalati giacevano pateticamente ai bordi delle vie. E poi l’ensemble della città: un groviglione senza uniformità di stile, in cui case, laboratori, botteghe e ostelli si ammassavano facendo apparire assurdi e fuori posto i magnifici edifici per cui Firenze è ancora oggi celebrata.
Nei crocicchi si esibiva la confusione della giornata dove i sicari a piede libero accarezzavano sinistramente i loro pugnali, i borseggiatori profittavano della calca, le prostitute si offrivano fin dal mattino, i giocatori d’azzardo lanciavano dadi e imprecazioni. E poi gli animali: buoi agghindati ai carri, greggi condotte al mercato, maiali grufolanti sui rifiuti, cavalli scacazzanti lungo tutte le vie. E poi il mondo delle osterie e dei lupanari, “il luogo si rivela da se stesso col suo odore. Là entra, saluta per me ruffiane e baldracche, sul loro tenero seno t’accoglieranno tutte… Ti verrà incontro la bionda Elena, la dolce Matilde, abil’una e l’altra a sculettare… Anna ti verrà incontro cantando una canzone tedesca… Verso te verrà la grande crissatrice Pito e con essa Orsa, delizia del bordello… Qui fin che ti talenta e finché lo desideri, puoi fottere e farti fottere”. E’ questa l’esortazione di Antonio Beccadelli, detto il Panormita, nel suo “L’ermafrodito”.
Nessuno immaginerebbe trovare una città dalla merdosità diffusa ritratta sullo sfondo di quello splendore che è la tavola della “Madonna del Carmine”, nota anche come “Pala Nerli”, dove, oltre la scintillante scenografia di primo piano, Filippino Lippi dipinse sullo sfondo il popolaresco girone fiorentino del tempo: per strada uomini e donne, bambini e animali, due maiali col muso nei rifiuti, un mulo, un uomo accanto a un cavallo da tiro… In proscenio lo splendore degli abiti, con la Madonna in trono, i santi e i committenti inginocchiati e oranti. La duplicità del mondo, il riflesso della duplicità del Rinascimento. Questa raffigurazione che Michelangelo definì “pittura dal vero” è l’immagine, nella sua fissità, di un universo instabile e imprevedibile intrecciato come un garbuglio irresolubile con il denaro, il potere e la religione. Ciò che conta è l’immagine. Soprattutto apparire circonfusi dall’aura del potere. Quando quella vecchia volpe della politica internazionale che era Cosimo de’ Medici riceveva mettiamo un visitatore come Galeazzo Maria Sforza per una missione diplomatica, lo accoglieva non alla porta del palazzo di via Larga, ma lo faceva accompagnare, dove lui lo attendeva, poco oltre la soglia della cappella di casa. Un luogo che avrebbe dovuto impressionare il visitatore. Le pareti erano coperte di sontuosi, esuberanti affreschi raffiguranti il viaggio dei magi a Betlemme. Una “scena” in grando di suscitare meraviglia e riverenza.
La cappella di palazzo, un ambiente dove tramite la pittura si era ammessi a un mondo “fiabesco, affascinanate e gaio” con scene raffiguranti un fasto regale esibito dalla bellezza di un paesaggio popolato di personaggi in lussuosi abiti. Benozzo Gozzoli, l’autore dell’affresco, aveva colto alla perfezione le richieste del committente che voleva figure con i più splendidi abbigliamenti, senza risparmiare sui colori, fosse l’oro o il carissimo lapislazzulo. L’affresco non era soltanto un racconto sul viaggio dei magi. Aveva tutta un’altra funzione. Pur includendo qualche voluta eco delle spettacolari processioni fiorentine in coincidendenza con l’Epifania, il “Viaggio dei Magi” in realtà era un vero e proprio “ritratto di famiglia” che celebrava la ricchezza e la potenza dei Medici. Il visitatore attonito, contemplava la rappresentazione trasfigurata del mondo di Cosimo. Una sontuosa narrazione cum figuris. E gli fu impossibile, a un tipo come Galeazzo Maria Sforza, non scorgere, dietro Cosimo e Piero de’ Medici, sia pur mimetizzato tra loro, il capo coperto da una cuffia rossa che lasciava libero il viso, un ecclesiastico che, lo sguardo sbieco, stava sopra l’autoritratto di Benozzo Gozzoli, tra il volto di Sigismondo Pandolfo Malatesta e quello di Giorgio Gemisto, detto Pletone, il filosofo neoplatonico bizantino, che influì sulla riscoperta di Platone nella cultura umanistica del primo Rinascimento italiano e che fu portatore di un ideale di unificazione delle diverse religioni. Il volto duro, alterato da una smorfia di disgusto, dell’ecclesiastico raffigurato con il capo reclinato, che sembra voler sottrarsi allo sguardo dell’osservatore, non poteva appartenere che a Enea Silvio Piccolomini, il futuro Pontefice.
Benozzo Gozzoli, “Corteo dei Magi” (particolare), 1459 (Firenze, palazzo Medici Ricciardi)
Nelle raccomandazioni a Benozzo Gozzoli su chi far figurare nel corteggio affrescarto, Cosimo doveva aver avuto buone ragioni perché anche Piccolomini apparisse. In realtà meritava ampiamente un posto nella galassia degli insigni che secondo l’immaginario e la convenienza del committente entrarono nella regal processione. Nel mondo della chiesa l’ascesa di Piccolomini era stata fulminea e inarrestabile. Era un sottile umanista, autore di un libro assai celebrato, “De duobos amantibus”, e magister nella composizione latina. Coronato poeta, aveva composto opere su un ampio spartito di argomenti che andavano dalla geografia alla pedagogia e alla storia del teatro. Conoscitore delle arti, era noto per la sua brillante intelligenza e le letture vaste e aggiornate. Enea Silvio Piccolomini era il tipo d’uomo brillante e di successo che Cosimo voleva poter esibire tra le sue conoscenze. E pur non essendo celebrativo, il ritratto nell’affresco del potente ecclesiastico aveva pur sempre il fine di un esibito omaggio. La Cavalvata dei Magi doveva rappresentare il “mondo”, anche mentale, le aspirazioni di Cosimo de’ Medici, il cui obiettivo era esibire l’immagine di un uomo enormemente ricco e onusto di cultura. E soprattutto intrinseco con i più significativi personaggi del tempo. Un affresco come sontuosa “carta da visita”. Collezionista del bello, riempiva il suo palazzo di via Larga di opere d’arte, Cosimo voleva emergere sulle cose e impressionare ogni persona. Voleva durare oltre il suo tempo. Se lo consentiva con la potenza del denaro.
E doveva certo godere dell’“elogio” che gli rivolse il suo amico libraio Vespasiano da Bisticci: “Era tanto universale in ogni cosa, che con tutti quelli che parlava, aveva materia: s’egli era con uno litterato, ragionava della sua facultà; se di teologia con teologi parlava, egli n’aveva grandissima perizia, per essersene sempre dilettato […] S’era di filosofia, quello medesimo […] Se fussino istati musici, egli n’aveva notizia, e alquanto se ne dilettava. Se praticava con pittori o scultori, egli se ne dilettava assai, e aveva alcuna cosa in casa di singulari maestri. Di scultura, egli n’era intendentissimo; e molto favoriva gli scultori e tutti gli artefici degni […] Dell’architettura egli fu peritissimo, come si vede per più edifici fatti fare da lui; ché non si murava o faceva nulla senza parere o giudicio suo; e alcuni che avevano a edificare, andavano, per parere, a lui”. Il volgere dei tempi aveva aumentato il valore politico dell’affresco. Il 19 agosto 1458 Piccolomini era stato eletto al soglio di Pietro. Aveva scelto Pio qual nome pontificale per sottolineare la propria devozione. Il ritratto di Pio II nell’affresco di Gozzoli era diventato, in maniera inattesa, non soltanto una testimonianza delle idee illuminate e culturalmente aggiornate del nuovo Pontefice, ma anche il riconoscimento di un papato rinascimentale protagonista della scena culturale.
Altra “carta da visita”, “L’adorazione dei magi” di Sandro Botticelli. Anche qui una bella botta di autoconsiderazione. Cosimo de’ Medici in adorazione della Madonna con il Bambino. Sulla destra, in primo piano Lorenzo de’ Medici, Poliziano e Pico della Mirandola… sulla destra l’autoritratto di Botticelli e dietro Filippo Strozzi, il committente degli affreschi di Filippino Lippi nella sontuosa cappella Strozzi in Santa Maria Novella. Nonostante le esibite grandezze, gli artisti dovevano tuttavia fare i conti con le eccentricità dei potenti. Jacopo Salviati, uomo degli uomini più ricchi e influenti di Firenze, genero di Lorenzo de’Medici, era un pilastro del governo, una voce ascoltata in ogni questione pratica e un protagonista dell’economia fiorentina. Gli artisti facevano a gara per ottenere la sua protezione. Salviati ebbe un ruolo non secondario nell’esecuzione del David, e Michelangelo dovette fare i conti con questo “eminente”, che lo teneva a stecchetto. La ricchezza per Michelangelo sarebbe arrivata molto più tardi. Se Raffaello allora conduceva una vita, come dice Vasari, “non da pittore, ma da principe” e Luca della Robbia si era arricchito lavorando per Francesco I di Francia, gli altri artisti vivevano praticamente di stenti: Correggio, verso la fine della vita fu costretto a contare il soldo; Andrea del Sarto era “poveramente sovvenzionato”; Piero Lorentino d’Angelo, un allievo di Piero della Francesca, fu trovato svenuto per la fame. Gli artisti dipendevano dal capriccio dei patroni. Da tipi come Salviati, fiero di essere ricco per ricordarlo a chiunque lo ascoltasse.
La maggioranza dei cittadini della Firenze rinascimentale doveva accontentarsi dello stretto necessario. I ricchi erano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Il potere contrattuale di Salviati era tale da permettergli di pagare il minimo indispensabile per i servigi che gli eran resi. Perfino le paghe dei lavoratori impegnati nelle costruzioni dei lussuosi palazzi erano così basse da essere prese dagli storici moderni come paramentro per misurare la povertà nella Firenze del Rinascimento. La stessa realizzazione del David di Michelangelo dipese dai capricci economici di Salviati. Incitato dal suo amico Pietro Soderini a sciogliere i cordoni della borsa in favore dello scultore, affinché potesse portare a termine l’opera. Lucidamente consapevole, al contrario di Salviati, del valore propagandistico dell’arte, Soderini era convinto che opere come il David, al di là del loro valore artistico, fossero necessarie per infondere nella gente quello spirito civico che sperava avrebbe guidato la vita pubblica per generazioni. Visto da Soderini, il David era l’immagine della forza di Firenze unita agli ideali di libertà. Il valore propedeutico dell’arte.
Ma l’arte non era solo una questione di creatività astratta, nobilmente elevata, bensì un lavoro plasmato sugli echi della vita domestica, sugli affetti dell’amicizia, sulle difficoltà della professione, sulle angosce intorno alla salute, su una affettività e una sessualità che premevano in molte direzioni. L’arte rinascimentale era meno sublime, e molto più vicina a noi e alla nostra vita reale, di quanto vorrebbero le esaltate concezioni che abbiamo di quel periodo. La vita di ogni giorno e i problemi del quotidiano, attraverso quelle opere, che oggi suscitano deliqui e svenimenti, erano in realtà l’autobiografia di un tragico disagio. Altro che Rinascimento. Tutti i capolavori prodotti in quel tempo erano anche l’anticipato e inconscio laboratorio delle ingiustizie e delle tragedie che avrebbero investito il mondo nei secoli a venire.
Il Foglio sportivo - in corpore sano