Il rapporto tra Washington e Pechino, il più importante per il futuro del mondo, ha una storia di mercanti, missionari e miliardari

Eugenio Cau

L’America ha sempre avuto un afflato morale nei confronti della Cina. Ma i cinesi non desiderano essere salvati – soprattutto ora

La prima volta che la politica americana ha parlato di un “muro” per proteggere la patria dall’afflusso nefasto di immigrati illegali è stato negli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo. Il muro avrebbe avuto più o meno la stessa collocazione di quello che oggi vorrebbe costruire Donald Trump, lungo il confine con il Messico, e faceva parte del primo grande progetto di sistematizzazione della politica migratoria interna degli allora giovani Stati Uniti. La burocrazia federale sull’attività migratoria fu creata in quel periodo, quando per la prima volta gli americani iniziarono a pensare alla protezione delle proprie frontiere. Gli irregolari da tenere fuori dal suolo americano, tuttavia, non erano messicani o latinos, ma cinesi. Le parole d’ordine di allora non erano molto differenti da quelle di oggi: i cinesi ci rubano il lavoro, sono disposti ad accettare stipendi bassi, rovinano il mercato con pratiche anticoncorrenziali, e così via. Nei decenni precedenti, dal 1850 in avanti, l’America aveva accolto prima decine, e poi centinaia di migliaia di lavoratori cinesi per supplire all’assenza di manodopera a basso costo. I lavoratori cinesi, e

L’autore di “The Beautiful Country and the Middle Kingdom” ha una storia privata al bivio tra Cina e America

questa è storia relativamente conosciuta negli Stati Uniti, costruirono oltre metà della Transcontinental Railroad, la storica ferrovia che ha collegato la costa est alla costa ovest, e bonificarono il delta del fiume Sacramento, creando una delle zone agricole più fertili della storia americana. I lavoratori cinesi erano così tanti da costituire la prima etnia non locale nell’occidente americano. Nei decenni a metà dell’Ottocento un decimo della popolazione della California e un terzo delle popolazioni di Idaho e Montana era cinese. La famigerata corsa all’oro è stata fatta per un quarto da minatori cinesi. A partire dal 1865, però, la smobilitazione di oltre un milione di soldati dopo la fine della Guerra civile diede all’America migliaia di veterani disoccupati bianchi che anelavano a posti di lavoro occupati da efficientissimi lavoratori cinesi. Il sentimento anticinese crebbe nei decenni e così il razzismo. Da ovest a est gli stati iniziarono a emettere divieti di impiego per i lavoratori cinesi e a bandire i matrimoni misti tra bianchi e asiatici, fino a che nel 1882 il presidente Chester A. Arthur firmò il Chinese Exclusion Act, una legge federale che vietava l’ingresso in America a tutti i lavoratori cinesi, senza eccezioni, per dieci anni. Rimase in vigore fino al 1943.

  

  

La storia del Chinese Exclusion Act e dell’apertura e chiusura dell’America nei confronti della Cina è raccontata nell’ultimo libro di John Pomfret, “The Beautiful Country and the Middle Kingdom: America and China, 1776 to the Present”, pubblicato da Henry Holt and Co. Poche persone come Pomfret sono adatte a scrivere un libro sulla storia dei rapporti tra Stati Uniti (il “bel paese” secondo il nome cinese dell’America: mei guo) e Cina (il “paese di mezzo” in cinese: zhong guo). Lui stesso ha vissuto questa relazione da pioniere, visto che nel 1980 è stato tra i primissimi giovani americani a studiare in un’università della Cina comunista (a Nanjing) nell’ambito del primo programma di scambio culturale dopo l’apertura di Nixon a Pechino. Nel 1989, da giornalista, raccontò gli eventi di piazza Tiananmen e per questo fu cacciato dal paese. Vi tornò tra il 1998 e il 2003 come capo del bureau pechinese del Washington Post. Nel frattempo è stato anche reporter di guerra in Afghanistan, Bosnia, Congo, Sri Lanka, Iraq, Turchia, Iran. “The Beautiful Country and the Middle Kingdom”, uscito a fine novembre, non avrebbe potuto essere pubblicato in un tempo più propizio.

  

Alcuni libri, al momento dell’uscita, sembrano profetici per il loro tempo. Altri sono il frutto di una osservazione sapiente dei tempi e del flusso della storia. “The Beautiful Country and the Middle Kingdom” è entrambe le cose. Non è un instant book, un libro fatto uscire in fretta e furia per rispondere alle emergenze della cronaca, ma un volume ponderoso (700 pagine) che ha richiesto sei anni di tempo per essere completato, come ha detto l’autore in più di un’intervista. Il risultato però sorprende non solo per intensità (le 700 pagine scorrono via facilmente, in gran parte grazie al linguaggio non accademico di Pomfret), ma anche perché capire come hanno funzionato per oltre 240 anni i rapporti profondi e ininterrotti tra Cina e Stati Uniti è necessario come non mai in questa età storica.

 

Nel Diciannovesimo secolo l’uomo più ricco del mondo era cinese. Fu lui che finanziò le grandi infrastrutture americane

A leggere le cronache di queste settimane, sembra che Cina e Stati Uniti siano sull’orlo di una nuova guerra fredda. La parola è stata pronunciata più volte in questi ultimi tempi, e da ultimo scritta da Edward Luce sul Financial Times. Il presidente eletto Donald Trump ha riempito la sua Amministrazione futura di “falchi” anticinesi, da Peter Navarro, economista autore di un documentario significativamente intitolato “Death by China” che farà parte di un team di consiglieri sulle politiche commerciali, a Michael Flynn, prossimo consigliere sulla sicurezza nazionale, che mette la Cina insieme alla Corea del nord nel novero degli “alleati” dell’islam radicale. Trump ha fatto campagna elettorale contro la “concorrenza sleale” dell’economia cinese, e sembra voler inaugurare se non una nuova guerra commerciale quanto meno una nuova èra di freddezza esplicita con Pechino. I cinesi, dopo una prima reazione spiazzata, hanno iniziato a rispondere a tono. I media di stato aggrediscono Trump con violenza, e il sequestro la scorsa settimana di un drone subacqueo americano da parte della marina cinese in acque internazionali è stato interpretato da molti come un atto ostile di risposta alle politiche trumpiane. La retorica antiamericana, che da poco meno di un decennio si è riaffacciata nella propaganda ufficiale, è tornata ai massimi livelli solo di recente.

 

Non è la prima volta che l’America cerca di scaricare le proprie tensioni interne sulla Cina, né la prima volta che in Cina la classe politica fomenta per i propri interessi il sentimento antioccidentale. Eppure, a leggere le cronache dei giornali, sembra che il rapporto bilaterale Cina-Stati Uniti debba ancora germogliare, che sia una novità relativamente recente nata negli anni Settanta del secolo scorso con l’apertura di Nixon alla Cina. E’ l’esatto contrario. Quello tra Washington e Pechino è un rapporto profondo, essenziale, che ha plasmato le coscienze di cinesi e americani fin dalla Dichiarazione d’indipendenza. Pomfret non esita a scrivere che la Cina ha “salvato” gli Stati Uniti nei primi decenni della loro esistenza e ha contribuito a “plasmare” la nuova repubblica, aprendo le porte ai mercanti-avventurieri americani quando in tutto l’occidente la Gran Bretagna aveva indetto un embargo per soffocare e mettere in ginocchio le sue ormai ex province ribelli. La prima nave americana diretta a Guangzhou partì nel 1784 carica soprattutto di ginseng, radice di cui i monti Appalachi sono ricchi e che ancora oggi è molto consumata in Cina. Gli americani trasportarono oltreoceano infinite tonnellate di ginseng, poi passarono alle pelli di lontra, che commerciarono fino a provocare la loro estinzione da tutto il nord-est del Pacifico. Tra i prodotti più richiesti c’era anche l’argento estratto dalla miniere in Messico. In cambio, il mercato cinese offrì una cornucopia di porcellane (china, in americano), broccati e foglie di tè che diventarono la misura del benessere economico nelle case della nascente borghesia americana. Crebbe in quegli anni il mito della Cina come mercato sterminato e dalle infinite possibilità di guadagno – un mito che non si è ancora esaurito e che fu esaltato dalla figura di Wu Bingjian, uno dei personaggi più interessanti del libro di Pomfret.

 

Da giovane, Mao studiava Franklin ed era ammiratore di Washington e di Teddy Roosevelt. Poi qualcosa è andato storto

E’ un’idea che ricominciamo a considerare plausibile solo da poco tempo, ma nel Diciannovesimo secolo l’uomo più ricco del mondo veniva dalla Cina. Wu Bingjian, un “principe mercante di Guangzhou”, come scrive Pomfret, era il capo della corporazione dei mercanti autorizzati a commerciare con gli stranieri, e tra i suoi impiegati americani c’era un diciassettenne John Murray Forbes, il capostipite della dinastia Forbes, quella che ha come suo ultimo rampollo John Forbes Kerry, l’attuale segretario di stato. Dopo il suo ritorno a Boston, Forbes divenne il gestore degli investimenti di Wu in terra americana, e insieme i due contribuirono più di ogni altro alla realizzazione di quelle infrastrutture (specie ferroviarie) che hanno fatto dell’America una potenza economica. “150 prima che i capitali americani finanziassero la modernizzazione della Cina, il denaro dal Regno di mezzo realizzò la stessa impresa negli Stati Uniti”, scrive Pomfret.

 

Il rapporto tra Stati Uniti e Cina è spesso tormentato, come vediamo in questi mesi: “Se si dovesse individuare un pattern” per definire il continuo fluttuare dei rapporti, scrive Pomfret, “sarebbe ben descritto dall’infinito ciclo buddista delle reincarnazioni. Entrambe le parti hanno vissuto innamoramenti fulminei che hanno generato speranza, seguiti da delusioni, repulsione e disgusto, per poi tornare ancora una volta alla fascinazione”. Questa fascinazione fu profondissima. La cultura americana, almeno fino alla rivoluzione comunista, è stata un magnete potentissimo nell’evoluzione del pensiero politico cinese, allo stesso modo in cui il pensiero della Cina ha plasmato per decenni la condotta della classe dirigente americana. L’attrazione riemerge nei momenti più impensati. Sun Yat-sen, padre della Cina moderna, tra i maggiori fautori della fine dell’impero Qing, sostenitore della democrazia e fondatore del Kuomintang, non solo era un cristiano battezzato nella chiesa congregazionale degli Stati Uniti (il ruolo dei missionari americani è spesso esaltato nel libro di Pomfret) ma era un ammiratore così grande dell’America e del suo modello politico che l’unico quadro appeso nel suo studio di Shanghai negli anni Venti del secolo scorso era un ritratto di Abramo Lincoln. Più sorprendente, forse, è sapere che niente meno che Mao Zedong, ai tempi in cui era ancora un giovane insegnante dello Hunan, era uno studioso di Benjamin Franklin, ammiratore di George Washington e di Theodore Roosevelt, e che  continuò a leggere articoli in inglese tutte le mattine fino a età avanzata – l’ammirazione per Washington non durò altrettanto. Come successe con Mao, che dopo la cocente delusione cinese del trattato di Versailles scoprì il nazionalismo, l’antiamericanismo e infine il comunismo, l’America ha tradito infinite volte le speranze della Cina, e viceversa. Ma questo perché le aspettative che un popolo riponeva nell’altro erano sempre troppo alte.

 

Il merito di “The Beautiful Country and the Middle Kingdom” è anzitutto quello dei migliori libri di storia: dare una prospettiva lunga agli eventi, specie quando sono caldi come quelli che intercorrono in questi tempi tra Cina e Stati Uniti. E’ aiutarci a ricordare che la più importante relazione bilaterale della storia contemporanea, quella presente ma soprattutto futura tra Washington e Pechino, è antica, complessa e più profonda delle virate politiche del momento – il pivot americano sulla Cina, scrive Pomfret, è iniziato due secoli fa.

 

Uno dei fiumi carsici di questa relazione è stato l’idealismo americano. Per  un secolo e mezzo i missionari cristiani hanno plasmato la politica di Washington nei confronti della Cina quasi quanto i diplomatici. Le fasi storiche in cui l’America è stata più aperta alla Cina – dai primi commerci nel Diciottesimo secolo alle promesse mai mantenute del presidente Wilson, dalle aperture di Nixon fino all’appoggio americano all’ingresso di Pechino nel Wto – sono sempre state venate da un senso di missione storica. E’ compito dell’America “civilizzare” la Cina, farla rientrare nel novero dei grandi, aprirla al commercio, consentire l’apertura politica attraverso l’apertura economica. Questo afflato morale mai esaurito fino ai giorni nostri è ciò che rende l’America grande. Eppure, secondo Pomfret, quando si parla di Cina l’idealismo è un rischio. I cinesi non desiderano essere salvati – soprattutto adesso che non ne hanno più bisogno. Vogliono un partner prevedibile, uno che ragioni in termini “transazionali” e che metta al primo posto il proprio interesse nazionale. Sembra quasi la riproposizione dell’“America First” promosso da Donald Trump, ma è tutto il contrario. La Cina e il mondo hanno bisogno di un’America sicura di se stessa, non di una superpotenza all’angolo.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.