Cosmos, ascesa e declino della squadra di New York che con Pelé fece conoscere il calcio negli Usa
“Volevamo essere i più forti”. Una babele, quello spogliatoio che raccoglieva gli scarti delle periferie di New York, tanto che il loro nome era “Cosmopolitan”
Il 15 giugno 1975, il giorno in cui il calcio arrivò per la prima volta negli Stati Uniti, un dirigente del colosso dei media Warner Communication contattò il giardiniere dello stadio di Downing, a New York. “Mi raccomando”, gli disse, “verrà la Cbs a riprendere la partita dei Cosmos”. Stan Cunningham, si chiamava così quel giardiniere, capì subito a cosa si riferiva. Scese sul campo di gioco di Randalls Island, un’isola dell’East River di New York che separa mondi lontanissimi tra loro come Manhattan e il Bronx. Stan rimase a fissare quella distesa di fango e non sapeva da che parte iniziare. Da un anno quel campo indegno aveva ospitato al massimo le sgambate sgraziate di una squadra poco più che amatoriale, undici ragazzi che giocavano a calcio per arrivare a fine mese e che provenivano dalle periferie della città. Buona parte di loro erano immigrati, venivano dall’America latina, qualcuno dall’Africa e dall’Europa. Tanto era una babele, quello spogliatoio che raccoglieva gli scarti delle periferie di New York, che il loro nome originario era, neanche a dirlo, “Cosmopolitan”. Tre anni prima, i Cosmos avevano vinto il loro primo campionato e si erano trasferiti lì, dopo aver abbandonato l’Hofstra Stadium, il campo dell’Università di Hempstead, dove le righe dell’area di rigore si confondevano con quelle delle yard del football. Fino agli anni Settanta il calcio negli Stati Uniti era considerato come uno sport pericoloso, politicamente si intende. “Prego perché il soccer non arrivi mai in America. Lo praticano solo comunisti in pantaloncini corti”, disse una volta un tassista a un reporter per spiegargli come mai non seguisse il campionato. E i Cosmos? Il portiere di allora Shep Messing, originario del Bronx, un giorno confessò che attiravano meno attenzione di quanto facessero i film porno sull’Ottava Strada. E in effetti, nei “big match”, il pubblico contava al massimo 50 spettatori. Il “bomber” di allora, Randy Horton, si guadagnava da vivere lavorando in una giungla finta, riprodotta dalla Warner in un parco a tema. Una desolazione.
“C’era più erba per le strade di Manhattan che su quel terreno”, ricorda Gavin Newsham, che una decina di anni fa decise di scrivere un libro (“Once in a Lifetime”) su questa squadra che tentò di scalare le vette del calcio mondiale. Stan prese una bomboletta di vernice verde e cominciò a spruzzarla qua e là, per tentare di ridare un colore familiare a quel campo che nel giro di poche ore sarebbe finito per la prima volta sotto i riflettori di un’emittente nazionale con milioni di telespettatori, pronto a farsi calpestare dal giocatore più forte nella storia del calcio: Pelé. “Alla fine del primo tempo aveva delle enormi macchie verdi sulle gambe. Pensò che venendo a giocare a pallone negli Stati Uniti gli fosse venuta una malattia”, scherzò una volta Clive Toye, general manager dei Cosmos di allora, “ma erano solo macchie di vernice”.
Gli aneddoti sparsi tra le pagine della storia dello sport, e del calcio in particolare, sono talmente tanti ed emozionano al punto da correre il rischio di diventare le solite filastrocche che si tramandano negli anni. Ma durante quello spazio breve tra il 1975 e il 1977, lungo appena il tempo di un sospiro, la storia dei Cosmos di New York travalicò ogni cosa: “Fu la squadra che rappresentò il meglio e il peggio del calcio americano”, commentò l’ex calciatore e allenatore britannico Rodney Marsh. Volevano essere i più forti di tutti, e finirono per pagare a caro prezzo questo atto di superbia. L’esperimento di creare una squadra con grandi stelle del calcio, con giocatori provenienti da ogni parte del mondo (un’assurdità per l’epoca) pagati cifre sconosciute a quei tempi per degli sportivi, calata all’improvviso in un mondo nutrito fino ad allora a forza di football e baseball, d’un tratto sbandierata sui giornali e sulle televisioni di un paese intero, fu come iniettare una dose enorme di droga in un corpo fragile e malato. Il delirio si spense quasi subito, ma finché durò, giura chi l’ha vissuto, sembrò di trovarsi nel cuore pulsante del Sogno americano.
Steve Ross, fondatore della Warner Communication, aveva già chiaro il progetto: occorreva trasformare il calcio in un brand
L’alba dei Cosmos fu nel 1970, dall’idea di Nesuhi Ertegün, un turco-americano fuggito da Istanbul col fratello nel 1935. Insieme a lui, tra i fondatori, ci fu il primo tycoon della storia statunitense, Steve Ross, fondatore della Warner Communication. Ross comprò giganti dell’intrattenimento come Panavision e DC Comics e li mise dentro scatole per far soldi ancora più grandi, che a loro volta plasmarono la storia della produzione cinematografica, musicale e dell’home gaming. Nacquero così Warner Communication, Atlantic Record e Atari. Ross lanciò per la prima volta negli Stati Uniti la tivù via cavo e acquistò il Time Magazine. E i Cosmos appunto. Quando decise di comprare la squadra, il tycoon aveva già chiaro in mente come realizzare il suo progetto ambizioso, quello di rendere il calcio famoso negli Stati Uniti: occorreva trasformarlo in un brand, in un marchio dall’elevato valore mediatico e, va da sé, commerciale. A metà degli anni Settanta, il firmamento dei campioni sportivi includeva pochi miti: Muhammad Ali, Nadia Comaneci, Bruce Jenner. E poi c’era lui, forse il più famoso di tutti, “O Rei” Pelé, il più giovane giocatore ad aver mai vinto una Coppa del Mondo, il Mago del Brasile. Quando decise di ritirarsi dalla Nazionale e dal suo club, il Santos, il general manager Clive Toye cominciò a viaggiare su e giù tra Stati Uniti e Brasile per strappare appuntamenti con l’entourage del calciatore. Ad accompagnarlo c’era Phil Woosnam, il commissario della Nasl, la lega calcistica americana che spingeva per l’ingaggio di una stella come il brasiliano, considerato l’unico dal nome abbastanza altisonante da trascinare il mediocre campionato statunitense sul tetto del mondo. Un giorno, Toye mise sotto il naso di Pelé alcuni fogli, ognuno era un contratto diverso, con cifre da non meno di sei zeri. Facendo un rapido conto, il brasiliano avrebbe guadagnato un milione di dollari giocando tre anni in America; un altro milione dal merchandising e dai diritti commerciali per altri 10 anni; un altro dai diritti di immagine per i successivi 14 anni; e un altro milione per un… contratto musicale. “Gli dissi che doveva venire negli Stati uniti perché lì avrebbe realizzato quello che nessun altro avrebbe mai potuto fare: rendere grande il calcio in America”, raccontò Toye. In realtà, narrano le cronache, per strappare il definitivo sì al Mago servì scomodare nientemeno che l’allora segretario di stato americano, Henry Kissinger. A ogni modo, la montagna di dollari che la Warner promise a Pelé dimostrava che per Ross, quel mago del pallone e quella squadra che ruzzolava nel fango della periferia di New York erano gli ingredienti ideali per dar vita a qualcosa che nessuno aveva mai tentato di fare: creare molto più di una squadra, porre il piedistallo su cui far sorgere, nel giro di meno di tre anni, il primo brand sportivo nella storia del calcio mondiale, l’antesignano dei giganti di oggi, come il Real Madrid, il Barcellona, il Manchester United.
Quando Pelé sbarcò a New York fu il delirio. “Potete annunciare al mondo che il calcio è arrivato negli Stati Uniti”, disse il brasiliano nella storica conferenza stampa di presentazione, al club “21” Fino a qualche mese prima, la società si ingegnava in ogni modo per convincere la gente ad andare allo stadio, al punto da regalare biglietti omaggio nella confezione degli hamburger venduti nei fast food. Ora ai cancelli di ingresso per le partite si presentavano con regolarità 80 mila persone per volta, fan impazziti che volevano vivere l’esperienza quasi mistica di vedere in azione “O Rei”. “La struttura non accoglieva oltre i 22,500 spettatori e a ogni match altre 50 mila persone restavano fuori dai cancelli”, raccontò l’allenatore Gordon Bradley. All’improvviso, il coach britannico si ritrovò a dover fare l’impossibile: allenare il mostro sacro del calcio. “Ricordo il primo allenamento”, disse anni dopo, “arrivò un cross al centro dell’area e Pelé, che stava correndo verso la porta, si fermò, si girò e fece gol con una rovesciata. A quel punto, decisi di fischiare la fine e mandare tutti negli spogliatoi”. Il capitano di allora, Werner Roth, confessò che in campo la difficoltà più grande per i compagni di squadra era riuscire a non fermarsi a fissare il gioco ammaliante di Pelé. Nel giro di qualche mese al brasiliano seguirono altri campioni di livello internazionale, dal “Kaiser” Franz Beckenbauer (premiato col Pallone d’oro solo un anno prima), a Johan Cruijff, a Carlos Alberto passando per “Long John” Giorgio Chinaglia. Alla fine, la rosa dei Cosmos era lo specchio della nascente globalizzazione, e includeva un totale di 14 nazionalità diverse. La squadra fu talmente infarcita di campioni assoluti dall’ego spropositato, abituati a essere i migliori, che le storie di gelosie e invidie reciproche si moltiplicarono. Si narra che un giorno Chinaglia entrò negli spogliatoi e trovò Pelé seduto sulla panca, taciturno, calmo come era sempre. Giorgio si lamentò con lui perché non lo stava aiutando abbastanza a segnare. Pelé gli rispose invece che doveva piantarla di tirare in porta da ogni parte del campo. Giorgio si avvicinò al brasiliano e gli urlò in faccia “Io sono Chinaglia, e se tiro da un punto del campo è perché Chinaglia da lì può segnare”. Pelé rimase ammutolito. L’ex capitano della Lazio, con la strafottenza che lo contraddistinse sempre, era talmente presuntuoso da sentirsi in competizione con il più forte di tutti i tempi. “Giorgione” odiava Pelé e lo considerava un mercenario, uno che era lì solo per raccogliere denaro, mentre era lui, diceva, quello pronto a restare a vita nei Cosmos per renderli grandi. E con 193 gol in 213 partite, Chinaglia divenne il bomber più prolifico nella storia della squadra, con quattro titoli vinti dal 1976 al 1983.
Passarono da New York il “Kaiser” Franz Beckenbauer, Johan Cruijff, Carlos Alberto e “Long John” Giorgio Chinaglia
Ma il cambiamento più radicale avvenne fuori dal terreno di gioco, per le vie più dandy di Manhattan e sulle copertine delle riviste. La fama che ricopriva come polvere preziosa i giocatori dei Cosmos sembrò inebriare anche New York per farla restare al centro del mondo. Prima di Pelé, l’unico giocatore della squadra che aveva assaporato l’emozione di finire su un giornale fu il portiere Messing, che per tirare su qualche soldo in più decise di farsi ritrarre nudo per 5 mila dollari. Il Mago, invece, portò con sé una ventata glamour che rese famosa la squadra fino a lambire gli studios di Hollywood. Il capitano Roth, qualche anno più tardi, si ritrovò nel cast di “Fuga per la vittoria” al fianco di Pelé, oltre che di Sylvester Stallone e Michael Caine. Le tivù, che fino ad allora inviavano giovani giornalisti a seguire il calcio (“Per i cronisti, il soccer era considerato una specie di punizione”, racconta Newsham), ora mandavano firme già affermate e la società si ritrovò a gestire centinaia di accrediti stampa per ogni match. Andare in trasferta con la squadra era come seguire i Rolling Stone in tournée e grazie a una proprietà influente come la Warner di Ross, che catalizzava attorno a sé guru della musica, del cinema e persino della politica, si avvicinarono al mondo del calcio, o meglio, furono “spinti” a farlo, anche divi dello spettacolo. Così, nel più moderno Giants Stadium di East Rutherford, New Jersey, tra i quasi 80 mila spettatori uniti dall’urlo “Pelé, Pelé, Pelé”, cominciarono a fare capolino Mick Jagger, Henry Kissinger, Barbra Streisand, Robert Redford e Steven Spielberg. Il lunedì sera i giocatori si ritrovarono a trascorrere le loro serate allo “Studio 54”, la discoteca più glamour di New York. Arrivavano in limousine, con abiti disegnati da Ralph Lauren con decine di fotografi pronti a immortalare campioni imbottiti di soldi e gregari che si stropicciavano gli occhi, credendo ancora di vivere un sogno. Erano i locali frequentati da Andy Warhol, Grace Jones, Debbie Harry, luoghi simbolo della dissolutezza dandy. “C’era droga sulla pista da ballo, sesso nei gabinetti e i Cosmos nel seminterrato”, scrive Newsham. “Eravamo oltre qualunque cosa, eravamo internazionali, eravamo cool, eravamo tutto per tutti”, ricordò Messing.
Uniti dall’urlo “Pelé, Pelé”, allo stadio comparvero Mick Jagger, Henry Kissinger, Barbra Streisand, Robert Redford
Fu come vivere in un vortice frenetico, calato nello star system degli anni Settanta, impossibile da sostenere per un ambiente che forse non aveva gli anticorpi per tenerlo a bada. La meteora passò in fretta, prima ancora che tutti – giocatori, tifosi, dirigenti – se ne potessero accorgere. Pelé fece le valigie appena due anni dopo, nel 1977, carico di milioni di dollari. La società tirò avanti ancora per qualche anno, continuando a vincere ma senza mai raggiungere quei lustri sperati al momento della sua nascita. Nel 1985 la Warner si accorse che in 15 anni il club non aveva ricavato un solo centesimo: tutti i soldi si erano via via prosciugati per pagare gli ingaggi faraonici dei giocatori che dovevano essere convinti a suon di milioni a giocare in un campionato che restava comunque un ripiego rispetto ai palcoscenici europei. La Warner, già gravata dalle enormi perdite del colosso dei videogame Atari, chiuse i battenti, e con lei anche la Nasl, che da 20 squadre si era ridotta ad appena due iscritte. I Cosmos furono risuscitati nel 2009 nella rediviva Nasl, ormai diventata la seconda categoria americana alle spalle della Msl. Una cordata di imprenditori guidata dall’ex vice presidente del Tottenham, Paul Kemsley, si illuse di poter far rivivere la squadra “Cosmopolitan”. Furono arruolate di nuovo anche le vecchie stelle, da Pelé, che assunse la carica di presidente onorario, a Carlos Alberto e persino l’attore Robert De Niro. Stavolta, però, il grande bluff non ha funzionato. Alla fine del 2016, ecco probabilmente l’ultimo capitolo dei Cosmos, col comunicato che svincola i giocatori perché i soldi, un’altra volta, sono finiti. E’ il tramonto di un’illusione: quella di poter ricreare una squadra mitologica, esagerata, che contenesse tutto il mondo dentro di sé. E che di tutto il mondo, forse, ne espresse la follia.
Il Foglio sportivo - in corpore sano