L'inchiesta riscaldata
“Sistemi criminali”: storia di un calderone giudiziario buono per tutte le stagioni e tutte le mascariate. Un fascicolo sempre archiviato e sempre resuscitato. Fino alla Trattativa
I “sistemi criminali” sono diventati una categoria giudiziaria, il paradigma che ha segnato e giustificato una stagione di inchieste e processi mai conclusa. E’ come se il pensiero filosofico avesse trovato applicazione nella giustizia. Quella delle categorie di Aristotele era la dottrina dei sommi predicabili, dei concetti generali sotto cui è dato assumere ogni realtà. I “sistemi criminali”, nonostante l’impossibilità di raggiungere la verità, ammessa dagli stessi pubblici ministeri di Palermo che ne chiesero l’archiviazione, hanno tracciato le linee guida di un modus operandi, lasciando ai posteri ampi spazi di manovra. Per ultimo li ritroviamo nel processo sulla trattativa stato-mafia, dopo che si è tentato invano di portarli nel giudizio di secondo grado al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu. In questo caso fu la Corte d’appello a stoppare la richiesta del procuratore generale Roberto Scarpinato di riaprire l’istruttoria dibattimentale. Scarpinato si smarcava dalla Trattativa, proponeva un tuffo nel passato di Mori, fino a giungere alla P2 di Licio Gelli. Era il cuore dell’inchiesta sui “sistemi criminali” che lui stesso coordinava da procuratore aggiunto. Per dirla usando le parole del giurista, ed eretico agli occhi di una certa antimafia, Giovanni Fiandaca, “sistemi criminali” era una “inquisitio generalis, che andava alla ricerca di (assai più di quanto non prendesse le mosse da) ipotesi specifiche di reato – incentrata, precisamente, su di un lungo arco temporale che partiva dalla seconda metà degli anni Ottanta e giungeva quasi alla fine degli anni Novanta, includendo dunque fasi antecedenti e successive alle stragi mafiose”.
Un paradigma che ha tracciato le linee guida di un modus operandi, lasciando ai posteri ampi spazi di manovra
L’ideologo di allora era Scarpinato, assieme ad alcuni sostituti, fra cui quell’Antonio Ingroia che prima di darsi alla politica e riparare, una volta fallita la scalata elettorale, nel sottogoverno regionale siciliano, ha imbastito il processo sulla cosiddetta Trattativa Stato mafia. Un processo che è figlio dei “sistemi criminali”. Da essi è partito con una sostanziale, anche se non formale, ripresa del vecchio filo conduttore. La nuova indagine non è stata tecnicamente una riapertura della precedente, ma si è infilata negli spazi di manovra lasciati aperti da Scarpinato.
Il paradigma di allora, che per la verità era sembrato perdere di lucentezza, di recente è tornato a essere il grande ombrello sotto cui trovare riparo viste le condizioni processuali avverse. Le assoluzioni di Calogero Mannino (che alla Trattativa, secondo l’assunto accusatorio, avrebbe dato il via per paura di essere ammazzato) e di Mario Mori (indicato come il mediatore del patto fra boss e uomini delle istituzioni) hanno azzoppato il processo. Ed ecco il ritorno ai “sistemi criminali”, all’usato sicuro che poi così sicuro non è, visto il mancato sbocco processuale. E’ su Mario Mori che ci si concentra, ancora una volta, setacciando il passato remoto del generale per dimostrare che dialogo segreto con i boss non fu portato avanti solo dall’ufficiale per conto dei politici. C’era una strategia della tensione complessiva che affondava le radici nella destra eversiva e nella massoneria.
Il reato contestato e non provato era che due associazioni criminali, una sovversiva e l’altra mafiosa, avessero incrociato i loro destini
Era il 2001 quando il pool coordinato da Roberto Scarpinato scriveva che “non sembrano essere stati acquisiti, allo stato, elementi probatori tali da ritenere integrata la fattispecie...”. Quelle due parole, “allo stato” erano l’eredità che una parte dell’antimafia siciliana avrebbe raccolto. Il reato contestato e non provato era che due associazioni criminali, una sovversiva e l’altra mafiosa, avessero incrociato i loro destini. Sotto accusa finirono Licio Gelli, Stefano Menicacci, Stefano Delle Chiaie, Rosario Cattafi, Filippo Battaglia, Salvatore Riina, Giuseppe e Filippo Graviano, Nitto Santapaola, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Giovanni Di Stefano, Paolo Romeo, Giuseppe Mandalari.
L’inchiesta prendeva le mosse da una informativa della Direzione investigativa antimafia del 4 marzo 1994 “concernente un’ipotesi investigativa in ordine a una connessione tra le stragi mafiose di Capaci e via d’Amelio, con gli attentati di Firenze, Roma e Milano, per la realizzazione di un unico disegno criminoso che ha visto interagire la criminalità organizzata di tipo mafioso, in particolare Cosa nostra siciliana, con altri gruppi criminali in corso di identificazione”.
All’inizio il fascicolo a carico di ignoti dava per provata l’esistenza della sola associazione mafiosa alla quale, nel 1996, venne affiancata quella sovversiva. Il 13 maggio 1998 gli ignoti divennero noti e si arrivò all’elenco degli indagati di cui sopra.
L’ipotesi dei pm, che la definivano “sufficientemente accertata”, era che fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992 si svolsero riunioni fra i capi di Cosa nostra per “l’approvazione di una profonda ristrutturazione dei rapporti con la politica”. Si lasciavano alle spalle i vecchi referenti e puntavano sulla creazione delle condizioni per far sorgere nuovi soggetti politici con cui condividere gli interessi del sistema criminale. Si ipotizzava che il piano potesse essere realizzato soffiando sul fuoco del separatismo voluto dalla Lega Nord per spingere la secessione della Sicilia e delle altre regioni meridionali e avere campo aperto. Da qui il fiorire di leghe meridionaliste, sponsorizzate dai boss. Registi delle manovre erano i capimafia mafiosi – Riina, i fratelli Graviano, Santapaola ed Ecolano – mentre i soggetti “esterni” – l’esternalizzazione delle responsabilità sarebbe diventata un altro caposaldo delle indagini future – erano individuati in Gelli per la P2 e Delle Chiaie per la destra eversiva. La strategia d’attacco di Cosa Nostra, iniziata a Palermo con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima nel 1992 veniva considerata l’attuazione del programma criminoso di un’associazione finalizzata all’eversione dell’ordine costituzionale.
Il piano giudiziario si intrecciava con la ricostruzione storica. Furono riempiti fascicoli su fascicoli. Alla fine di faldoni agli atti ne sono rimasti quarantasette, zeppi di dichiarazioni di pentiti, verbali di sommarie informazioni, intercettazioni telefoniche e, appunto, di ricostruzioni storiche. Certo non si può dire che furono risparmiati uomini e mezzi per l’accertamento della verità. Erano gli anni del post stragi e dell’antimafia chiodata. Al termine delle lunghe indagini gli stessi pm, però, allargarono le braccia. Ammisero, infatti, l’esistenza di “punti critici” su questioni sostanziali, non certo di contorno. Non era stata raggiunta “la prova certa di un nesso casuale fra la strategia deliberata all’interno di Cosa nostra e il sorgere dei movimenti politici meridionalisti” e della “costituzione di una vera e propria associazione finalizzata alla realizzazione di un programma eversivo secessionista mediante la commissione di atti violenti”. Un altro dato “non sufficientemente chiarito” era il nesso fra la “strategia della tensione adottata da Cosa nostra nel biennio ’92-’93 e il piano politico eversivo”. Anche perché nel frattempo sarebbe accaduto qualcosa a sparigliare le carte e cioè la Trattativa che il pool di Scarpinato definiva dai contorni “ancora non sufficientemente chiariti”. I vuoti di conoscenza erano causati anche dalla “riluttanza ad affrontare tali tematiche da parte dei capimafia di sicuro spessore come Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca”. Insomma i pentiti che tutto sapevano, nulla dicevano sull’argomento. E così i pm scrivevano che “al compiuto accertamento della verità aveva nuociuto non poco la battuta d’arresto determinatasi negli ultimi anni nel fenomeno della collaborazione con la giustizia (anche per effetto di certe polemiche spesso strumentali contro i collaboranti”).
Anni dopo i pentiti sarebbero passati dal silenzio allo sbracamento. Hanno riacquistato la memoria, hanno smesso di avere paura degli 007 deviati che li avevano zittiti con scorribande carcerarie e strane incursioni domestiche. Sono i pentiti di professione, quelli delle dichiarazioni a rate, che hanno popolato di fantasmi una stagione che era buia già allora figuriamoci vent’anni dopo. Sono arrivati fuori tempo massimo, ma sono stati perdonati. La pagnotta è dura per tutti. C’è da comprenderli i pentiti, bombardati come sono stati dalle domande. Il giudice Marina Petruzzella che ha assolto Calogero Mannino nelle motivazioni della sentenza parla di “eccesso di interrogatori” che in Brusca “determinò a un certo punto un inevitabile condizionamento mentale, accentuando la sua tendenza a reputarsi depositario di molte verità non rivelate e a non distinguere più le opinioni dai fatti da lui conosciuti”. Il “collaboratore subì un martellamento, sempre sugli stessi episodi” e i rappresentanti dell’accusa hanno finito per attribuirgli “cognizioni di fatti, facoltà interpretative e ricostruttive che all’atto pratico il collaboratore ha mostrato di non possedere”. A distanza di anni dall’inizio della sua collaborazione il boss di San Giuseppe Jato fece i nomi degli uomini chiave della stagione della Trattativa, Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Perché attese così tanto tempo? La risposta è stata la stessa di tanti altri collaboratori di giustizia: “Adduceva a giustificazione della sua trascorsa reticenza – si legge nelle motivazioni – un mix confuso di timori vari di non essere creduto, di mettersi al centro di polemiche e sollevare polveroni controproducenti, di essere delegittimato come collaboratore etc, e di ragioni di opportunità che lo avrebbero indotto ad evitare di tirare in causa Ciancimino e Dell Utri”.
Al termine delle lunghe indagini, gli stessi pm ammisero l’esistenza di “punti critici” su questioni sostanziali. I silenzi dei pentiti
Brusca, dunque, avrebbe parlato di cose che non conosceva. La categoria dei “sistemi criminali” avrebbe finito per nobilitare le “opinioni” dei pentiti che, se non erano vere, almeno sono sembrate verosimili. In un quadro investigativo a tinte nere, anzi nerissime, il verosimile è divenuto confortevole, se non addirittura sufficiente per le indagini. Il risultato, sentenze assolutorie alla mano, è che il lavoro dei magistrati ha finito per prestare il fianco alle critiche dei loro stessi colleghi e degli imputati che, seppure interessate, vanno comunque registrate. Mario Mori nel corso dei processi non ha fatto mancare il suo punto di vista. Le cronache sono piene di dichiarazioni spontanee. Per ultimo al processo sulla Trattativa si è detto “portato anche a ritenere che la Procura di Palermo abbia colto per l’ennesima volta l’opportunità di riproporre una teoria concepita nel suo ambito negli anni Novanta del secolo scorso, mirata alla ricostruzione di quel periodo della storia nazionale definito giornalisticamente come quello degli ‘anni di piombo’". Il riferimento è alle accuse di Massimo Giraudo, colonnello dell’Arma, che ha raccontato dei rapporti fra Mori e il terrorismo nero. “La teoria, nota come ‘sistemi criminali’, dette luogo a un’indagine svolta sotto la direzione della Procura – ha detto Mori –. Le attività investigative si conclusero con l’archiviazione chiesta dalla stessa Procura, perché quelle tesi, malgrado il favore di una certa stampa e il sostegno di un ben preciso ambito culturale e politico, non condussero a nulla, in quanto si evidenziarono come una ricostruzione teorica frutto di presupposti ideologici che non trovavano nel concreto nessun elemento probante di conferma".
Al termine delle lunghe indagini, gli stessi pm ammisero l’esistenza di “punti critici” su questioni sostanziali. I silenzi dei pentiti
Negli anni si è assistito alla mutazione dei “sistemi criminali”. Non più solo categoria giudiziaria, ma mantra tutte le volte che è servito ribadire che sono sempre gli altri a stare dalla parte sbagliata. I sistemi criminali hanno conosciuto una declinazione politica e una deriva partitica. Politico, ad esempio, è stato l’intervento di Antonino Di Matteo, pm del pool Trattativa, a un convegno organizzato a Palermo dall’Associazione nazionale partigiani e dalla Cgil, dove il magistrato accostò la Costituzione voluta da Matteo Renzi – erano i giorni precedenti alla sonora bocciatura popolare della riforma – ai piani piduisti di Licio Gelli. Uno slogan di partito fu, invece, quello di Antonio Ingroia. Era il 29 dicembre 2012 quando, svestita la toga, l’ex pm lanciò la sua candidatura con Rivoluzione civile. Ed ecco le parole del rivoluzionario candidato premier: “Non siamo in un paese normale, non siamo in una situazione normale, siamo in un’emergenza democratica dovuta allo strapotere dei sistemi criminali, dovuta alle insufficienze e alle inadeguatezza della politica”. La storia lo avrebbe condannato a una manciata di voti.
Il Foglio sportivo - in corpore sano