La brutta morale
Un tempo l’arte aspirava a verità e bellezza. Oggi a “uguaglianza e diversità”. I musei sono diventati campi di battaglia ideologici
Nel suo capolavoro, “La cultura del piagnisteo” (Adelphi), Robert Hughes, australiano, critico d’arte e re dell’anticonformismo, denunciò tre tendenze nel mondo dell’arte contemporanea: il culto della vittima, l’ossessione multiculturale e la politicizzazione. Poco dopo, a conferma dei sospetti di Hughes, il Boston Globe pubblicava un articolo dal titolo “Le belle arti: Un mondo senza colori”, in cui si accusavano le principali organizzazioni artistiche di Boston, in testa il Museo delle Belle Arti, di “riflettere i valori e le tradizioni artistiche eurocentriche delle élite della città”. Due settimane dopo la dichiarazione del Boston Globe, il Washington Post sparava nella stessa direzione con un articolo dal titolo “La cultura in bianco e nero”, in cui Peggy Cooper Cafritz, cofondatrice della Duke Ellington School of the Arts, accusava che il sottoproletariato nero della città di Washington doveva essere riscattato dai grandi musei, come la Galleria nazionale, il Museo Hirshhorn, il Museo nazionale di arte americana, e la Corcoran Gallery, chiamati a risolvere questo immenso problema del razzismo. Quando Hughes pubblicò quel libro sembrava un’eresia. Oggi sempre più voci si aggiungono alla critica del mondo dell’arte supino alla ideologia politicamente corretta.
“Liberals are killing art”, ha scandito su New Republic, la rivista dei liberal per eccellenza, Jed Pearl, principe della critica d’arte, il quale ha scritto che “sempre più liberal trovano nelle emozioni scatenate dalle arti una sorta di imbarazzo”. Una visione illiberale dell’arte sta guadagnando terreno tra il pubblico. L’ex direttore del Victoria and Albert Museum e della National Portrait Gallery, Sir Roy Strong, ha accusato gallerie e musei d’arte di essere prevedibili per non scontentare nessuno. “Sono ossessionati dalla correttezza politica”, ha detto Strong al Guardian. I curatori sono interessati invece “al glamour e al denaro”.
Nelle scorse settimane è uscito un libro di Sohrab Ahmari, giornalista del Wall Street Journal: “The New Philistines: How Identity Politics Disfigure the Arts”. “C’era qualche connessione tra la bellezza e la libertà, un collegamento che ho capito solo anni più tardi, dopo essere emigrato negli Stati Uniti come adolescente. I mullah ricorrevano alla censura e alla violenza per recidere quel collegamento. Ma nel mondo libero oggi è stato reciso, non da un regime repressivo, ma dallo stesso mondo dell’arte”. L’arte contemporanea è ossessionata dall’identità politica. “Ogni forma e genere, sia alto o basso, visivo, letterario o delle arti dello spettacolo, oggi è ossessionato con la politica di razza, genere e sessualità”.
Alla Gasworks Gallery di Londra, l’artista multimediale Sidsel Meineche Hansen si impegna a “esplorare la sovrapposizione tra i soggetti nella vita reale e gli oggetti della realtà virtuale attraverso il genere binario (uomo e donna, ndr)”. Forse aveva ragione Tom Wolfe quando diceva che l’arte è la nuova religione per i nuovi ricchi. “L’atmosfera ideologica del mondo dell’arte è così fitta e pervasiva che chi è dentro non si rende nemmeno conto dell’aria che respiriamo”, commenta Ahmari. “Questo stato di cose dovrebbe allarmare chiunque abbia a cuore il futuro della civiltà liberale. Le società libere hanno bisogno di un’arte che aspiri a intramontabili ideali come la verità e la bellezza. Quando tutta la cultura è ridotta a identità di gruppo e risentimento, la tirannia è dietro l’angolo”.
Hughes è morto due anni fa. Chissà cosa avrebbe scritto alla notizia da Londra del nuovo premio Turner, forse il più importante riconoscimento artistico al mondo. Lo ha vinto Helen Marten, che ha colpito i giurati con la sua “arte” fatta con pelle di pesce e altri oggetti inusuali.
Nel ricevere il premio, Marten ha attaccato la “xenofobia” montante in America e in Inghilterra, rimarcando che, “come artisti, siamo fortunati di far parte di una comunità la cui linfa è la diversità”. Il direttore della Tate, Nicholas Serota, ha detto che “mentre noi inglesi diventiamo sempre più insulari (Brexit, ndr), il premio Turner ci ricorda che l’arte si apre a nuove idee”. Michael Gove, ex ministro dell’Istruzione, ha attaccato il Turner Prize chiamandolo “merda alla moda” e accusandolo di celebrare “la bruttezza, il nichilismo e il narcisismo”. Sul Telegraph è arrivato il commento di Michael Henderson: “Quando il vincitore del premio Turner dice che ‘l’artista ha la responsabilità di comunicare in un modo egualitario in un mondo che è sempre più ermetico’, è difficile non scoppiare a ridere. Gli artisti non hanno mai avuto la responsabilità di essere egualitari. Annunciando che avrebbe condiviso il suo premio di 25 mila sterline con gli altri finalisti, come una scolaretta fa con la torta di compleanno, la Marten ha dichiarato che ‘il mondo dell’arte ha la responsabilità’ (ancora quella parola!) di ‘mostrare come la democrazia dovrebbe funzionare’. Non tanto un’artista, ma una propagandista”.
L’elezione di Donald Trump ha infervorato non poco l’establishment artistico. L’artista Annette Lemieux ha chiesto al Whitney Museum di New York di installare di nuovo la sua opera del 1995 intitolata “Left Right Left Right”, ma stavolta con i pugni rivolti verso il basso, come a dire che dopo le elezioni americane il mondo si è capovolto. C’è stato il ritratto di Trump fatto con il sangue mestruale, opera dell’artista Sarah Levy, e quello del suo micropene dipinto da Illma Gore.
I musei sembrano diventati campi di battaglia ideologici. E’ successo che il Rijksmuseum, il più celebre museo d’Olanda, abbia iniziato un autentico repulisti delle descrizioni e dei titoli relativi a 220 mila dipinti e sculture sul milione di opere d’arte presenti. Il progetto va sotto il nome di “Regolazione della terminologia coloniale”. Il Rijksmuseum ha una lista di ventitré espressioni identificate come “indesiderabili”. Molte vengono da opere del XVII e del XVIII secolo, quando l’Olanda era una potenza internazionale. Le parole olandesi “neger” (nero), “bo- sjesmannen” (boscimani), “bosnegers” (marroni) vanno eliminate dalla vista del pubblico, compresa la parola “schiavo”, “indiano”, “eschimese” e “maomettano”. L’obiettivo è cancellare ogni riferimento che possa risultare offensivo per le minoranze, etniche ma non solo.
“E’ la pressione del politicamente corretto”, denuncia Charles Stuckey, già curatore del Museo nazionale di Washington. “Vogliono dimostrare che la storia dell’arte non è la storia dei suoi capolavori”. Il Museum of Fine Arts di Boston è stato accusato di “razzismo” per aver invitato il pubblico a provare il kimono indossato dalla moglie di Claude Monet, Camille, nel dipinto “La Japonaise”. Il museo allora si è limitato a far osservare il kimono. Ma non sazi, i “poliziotti culturali”, così definiti sul Washington Post, hanno allora accusato il museo di “sguardo orientalista”. A Essen, in Germania, il museo Folkwan ha annullato per “sospetta pedofilia”, a due mesi dall’inaugurazione, una mostra firmata Balthus. Semplici polaroid che ritraggono una giovane modella, Anna Wahli, ma capaci di scatenare una isteria nell’establishment artistico.
I musei contemporanei si stanno adeguando anche all’islamicamente corretto. La celebre galleria Mall di Londra, in occasione della rassegna “Passion for Freedom”, dedicata ogni anno agli artisti che subiscono la censura e la persecuzione, ha censurato una famiglia di pupazzetti che popolano una valle incantata di nome Sylvania. A irrompere nella vita di questi animaletti un commando di topi neri dello Stato islamico, pronto a massacrare gli abitanti della valle, a scuola e su una spiaggia, durante un picnic o a un gay pride. Si intitola “L’Isis minaccia Sylvania” l’opera dell’artista di origini siriane Mimsy, eliminata dal programma, dopo che la polizia inglese ha parlato di “contenuto potenzialmente incendiario” dell’opera, informando gli organizzatori dell’evento culturale londinese che se volevano metterla in mostra avrebbero dovuto sborsare 36 mila sterline per i sei giorni della mostra. Tanto costava la sicurezza per i pupazzetti minacciati dall’Isis.
In Inghilterra l’artista Grayson Perry ha confessato di essersi censurato per paura di fare la fine di Theo van Gogh. “La ragione per cui non ho più attaccato l’islamismo nelle mie opere è che nutro una paura reale di finire con la gola tagliata”, ha detto Perry. Così Tim Marlow, direttore della White Cube, una delle più note gallerie d’arte della capitale britannica, ha accolto positivamente l’ammissione di Perry: “E’ qualcosa che pochi altri avrebbero riconosciuto. Le istituzioni, le gallerie e i musei sono i protagonisti della censura”. Grayson Perry era l’artista blasfemo ideale, un Turner Prize famoso per aver sbeffeggiato immagini religiose, come una rappresentazione della Vergine Maria, che è meglio lasciare alla fantasia. Eppure, si è fermato di fronte all’islam.
Il nuovo presidente del Louvre, Jean-Luc Martinez, d’intesa con il ministero della Cultura, ha deciso di eliminare il padiglione dedicato ai cristiani d’oriente e voluto dall’allora presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy, sulla scia del dipartimento di arte islamica del Louvre. Di “censura culturale” al Louvre ha parlato Marie-Hélène Rutschowscaya, curatrice emerita, ex capo della sezione copta del Louvre, in un testo inviato a La Croix, dove sostiene che dietro a questa scelta al Louvre ci sia il pregiudizio culturale laicista.
Il Victoria and Albert Museum, il più noto e affollato museo della capitale inglese, ha prima esposto e poi ritirato un ritratto del Profeta dell’islam, un’opera d’arte devozionale dell’immagine di Maometto. La paura è subentrata dopo la strage nella sede del settimanale francese Charlie Hebdo. Anche la fotografa Syra Miah, britannica originaria del Bangladesh, si è vista censurare una foto, ritirata dal Museum and Art Gallery di Birmingham dopo le proteste di un gruppo di islamici. La foto, all’interno della mostra Art and Islam, ritrae una donna seminuda, malata di mente, che abita sotto la tettoia di una fermata dell’autobus in Bangladesh.
Il Museo delle culture del mondo di Göteborg, in Svezia ha aperto con una mostra dal titolo “L’Aids nell’era della globalizzazione”, in cui l’artista di origine algerina Louzla Darabi ha esposto un lavoro intitolato “Scène d’amour”. Essa ritrae una donna distesa, a gambe larghe, mentre fa sesso con un uomo in posizione eretta il cui volto non può essere visto. La donna sta godendo chiaramente nell’atto. Nella parte superiore del dipinto, un versetto del Corano è scritto in arabo. A meno di tre settimane dall’inaugurazione della mostra, il museo ha rimosso il dipinto. Il Musée Hergé di Louvain-la- Neuve, dedicato al creatore di Tintin, aveva in programma una mostra per rendere omaggio ai vignettisti di Charlie Hebdo e alla libertà di espressione.
Forse l’Iran aveva ragione a chiedere ai Musei Capitolini di Roma di velare le statue nude durante la visita del presidente Rohani. Forse i fondamentalisti islamici si sbagliano, l’occidente non è poi più così libero e irriverente e la sua arte sta assumendo una posa moralizzatrice. A quando le nostre scuse ai Talebani che hanno sfregiato i grandi Buddha di Bamyan?
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