Roberto Speranza, il Bersanino
Era un giovane “laburista riformista”. Ora vuole sfidare Renzi alla segreteria pd in nome del No (a tutto)
Sarò come Davide contro Golia”. Questo se l’è detto da solo, Roberto Speranza, deputato, ex capogruppo dem alla Camera, leader della minoranza pd e sfidante di Matteo Renzi nella futura corsa alla segreteria di partito. “Uno che fa politica lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia…”, gli ha detto invece Pier Luigi Bersani, ex segretario pd e suo mentore, citando per l’occasione la più classica delle canzoni motivazionali di Francesco De Gregori, “La leva calcistica della classe ’68”, inno al piccolo calciatore che non deve “aver paura di sbagliare un calcio di rigore”, perché “non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore”. E lui, Roberto Speranza,
Lucano, trentasettenne, studi alla Luiss, ex capogruppo alla Camera ed ex pontiere tra bersaniani e renziani (nel 2013)
trentasettenne lucano dall’aria anche fisiognomicamente preoccupata – occhi in allarme e postura tesa – dispiega il suo passato politico di pura fede pre Pd renziano (prima seguace di Massimo D’Alema, poi di Bersani), sentendosi in campo per l’impresa che ieri pareva impossibile e oggi forse pure, ma con minore grado di smarrimento nelle truppe. Motivo per cui Speranza si è lanciato nella corsa antirenziana durante un’assemblea della sinistra pd, nei giorni di moderata baldanza postreferendaria, moderata perché, anche se ha vinto il No, per il quale si erano spesi gli oppositori interni dell’ex presidente del Consiglio, la situazione non incoraggia i sogni di gloria: incerto è infatti il percorso di Renzi, come l’impatto del caso Raggi sul non proprio calante elettorato a cinque stelle. Forse anche per questo Speranza, padre di due figli e cultore di Winnie Pooh, dichiarandosi pronto alla pugna con “umiltà”, ha usato espressioni da captatio benevolentiae presso gli abissi del web dove il M5s spopola (vedi l’allusione al “sistema di poteri” da sconfiggere – mancava solo la parola “forti” – per poter disarcionare l’ex presidente del Consiglio che è ancora segretario del partito).
Ma chi sta con Speranza?, si domandano gli osservatori e quelli che, per dirla con l’ex ribelle pd e ora leader di “Possibile” Pippo Civati, vedono il rischio “suicidio” nell’avventura antirenziana all’interno del Pd di Renzi. Dice infatti un Civati in veste di Cassandra, intervistato da Salvatore Merlo su questo giornale, che per Speranza, Nico Stumpo e gli altri “figli” di D’Alema e Bersani, “capire che loro non sono il partito è spiazzante, ma il mondo è cambiato: loro il Pd non se lo riprenderanno mai più. Ma poiché questa realtà risulta inaccettabile, poiché temono di sparire e hanno paura dell’irrilevanza, si consegnano a un ruolo contraddittorio che danneggia sia loro sia Renzi… se c’è un Pd con Renzi e un Pd contro Renzi, non è che alla fine raccogli anche i voti degli antirenziani. Quelli votano altrove…”.
Che la profezia civatiana si avveri oppure no, Speranza c’è. Ma chi davvero sia disposto a combattere al suo fianco, in questa prefigurazione della resa dei conti congressuale, è presto per dirlo. Bersani dice che il ragazzo “è bravo”, e in qualità di king maker ci mancherebbe, ma gli altri si aggirano nelle acque di minoranza con le vele pronte alla virata – e ci sono e non ci sono. Michele Emiliano, presidente della regione Puglia, per esempio, si dice disponibile ad accompagnare Speranza nel tour “per i territori” che Speranza ha annunciato, incurante dell’esistenza di un precedente dal successo non travolgente: il viaggio in Italia di Fabrizio Barca, ex ministro con Mario Monti, economista con famiglia pci e studi a Cambridge nonché esponente della sinistra dem con fede cieca nella “mobilitazione cognitiva”, come l’ha chiamata lui: in pratica un peregrinare per luoghi remoti e meno remoti del paese, alla ricerca della parola magica della base inascoltata. Ma non è detto che Emiliano non corra lui stesso per la segreteria, alla fine, su terreno già affollato (c’è anche il governatore toscano Enrico Rossi). E se un tempo, nella minoranza pd, si poteva contare sul sostegno automatico di Gianni Cuperlo, ex avversario di Renzi alle primarie 2013 e pilastro storico del dalemismo doc, ora il mondo pare essersi rovesciato: Cuperlo ha fatto la scelta di coerenza votando Sì al referendum e non nasconde l’interesse per ipotesi di largo respiro esterno, sotto forma di sostegno verbale all’azione di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e punto di riferimento degli scontenti a mezz’aria tra il Pd e le piccole formazioni extra Pd.
Candidato alla segreteria come “Davide contro Golia”, con tour per i territori (precedente occulto, il viaggio di Fabrizio Barca)
“Lavorerò da subito per cambiare il partito… in quella straripante vittoria del No c’è un pezzo irrinunciabile del centro-sinistra… adesso il partito deve farsi carico della governabilità del paese…”, ha detto Speranza il 5 dicembre, nel giorno più nero per Renzi (sconfitta al referendum e premiership periclitante), e in quel “lavorerò da subito” si intravedeva l’influenza del lessico bersaniano da uomo che sempre deve ricordare da dove viene il partito (fabbriche, cooperative), anche quando gli operai votano in massa Cinque stelle. Lavorare per il partito, dunque, a base di “no” (al referendum, all’Italicum, alla Buona Scuola e al Jobs Act, e abbassare il tasso di riformismo, nonostante Speranza fosse noto, negli anni dell’Università (alla Luiss “Guido Carli”) per una certa vena “laburista riformista” britannica, come diceva lui e come ricorda oggi un compagno di militanza nel partito. E tanto diverso pare questo Speranza pasionario, oggi, rispetto allo Speranza moderato e pacato che, giovanissimo, si affacciava, in Lucania, nelle stanze della Sinistra giovanile, che c’è chi, nel Pd, pensa sia tutta “un’illusione ottica”, e che Speranza si risveglierà presto, “se nessuno deciderà per la scissione”, nei panni del se stesso del 2014, quello che, all’avvio della campagna per le Europee del Renzi neo premier, si faceva vedere a Torino come esponente della minoranza, sì, ma anche come capogruppo pd alla Camera non così antipatizzante verso l’uomo che sul palco diceva: “La sinistra che non fa nulla diventa destra”.
In quei mesi di trionfo elettorale, Speranza era percepito come operoso pontiere tra il Pd pre e post renziano, uno che a fine 2012 era stato nominato coordinatore della campagna per le primarie del centrosinistra da Pier Luigi Bersani, in trio con Alessandra Moretti e Tommaso Giuntella (ed erano le primarie vinte da Bersani e perse da Renzi), ma che poi, dopo le Politiche del 2013, mentre Bersani combatteva con la formazione impossibile di un governo, si era mostrato disponibile al dialogo con tutti (con i renziani sulla riva del fiume, con i Cinque stelle, con i moderati del centrodestra). “Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori”, era il motto di Speranza, postato sul suo sito come citazione de “Il barone rampante” di Italo Calvino e specchio del proprio sé politico (sono una persona “che non ha mai voluto alzare muri ma, al contrario, abbatterli o scavalcarli”, era l’autodefinizione di Speranza). E dunque la nomina a capogruppo, per quanto per il diretto interessato fosse “inattesa”, era sembrata a molti naturale, tantopiù che l’ex coordinatore bersaniano – immortalato nelle foto sempre un passo indietro agli altri, bevitore di té all’inglese al posto del caffè, e ancora (a parole) seguace del “riformismo laburista britannico” – non era mai stato visto abbandonare la flemma per la vis polemica, quella che dovrà trovare da candidato alla segreteria. “Guardate che Speranza è giovane ma esperto”, dicevano i parlamentari del Pd ai cronisti perplessi per la nomina a capogruppo del mite ex responsabile per gli enti locali, già noto in Basilicata, dove aveva mosso i primi passi politici nel ricordo di Emilio Colombo e nel segno di Massimo D’Alema, ma non ancora conosciutissimo a Roma. Tuttavia la fama era arrivata presto, anche sotto forma di leggenda metropolitana sulla famosa scena “Speranza-Di Battista”, ripoduzione per passaparola ingigantito dei fatti veri accaduti a inizio 2014, nella sala stampa della Camera, ai tempi della “ghigliottina” sul decreto Imu-Bankitalia, quando Di Battista, vedendo Speranza davanti ai microfoni dei principali telegiornali, si era frapposto tra il capogruppo pd e gli intervistatori al grido di: non propagandare leggi votate “contro il popolo”. Speranza aveva resistito in modo non del tutto ghandiano, Di Battista si era fatto minaccioso, i colleghi avevano cercato di separarli mentre i due avevano continuato a lanciarsi accuse del tipo “tagliati lo stipendio” (Di Battista a Speranza) o “siete dei fascisti” (Speranza a Di Battista). L’anno dopo, però, Speranza il pontiere si era trasformato in Speranza il ribelle felpato, colui che nella primavera del 2015 si era dimesso da capogruppo per divergenze sull’Italicum: “Sulla riforma elettorale c’è un profondo dissenso”, diceva, “sarò leale al mio gruppo e al mio partito ma voglio essere altrettanto leale alle mie convinzioni profonde… Non cambiare la legge elettorale è un errore molto grave che renderà molto più debole la sfida riformista che il Pd ha lanciato al paese…”. Pochi giorni dopo lo Speranza incoronato (dai giornali) leader in pectore della minoranza pd firmava un documento di critica al ddl sulla scuola (da cui oggi l’opposizione alla Buona Scuola). E a quel punto, nell’inner circle bersaniano, si prese a sussurrare con sempre maggiore insistenza il suo nome per la futura, sognata e allora ancora lontanissima corsa congressuale.
Si scontrò con Di Battista alla Camera, ma è stato Giachetti, giorni fa, a dirgli la parolaccia rivelatrice del contendere
“Candidatura aperta”, quella di Speranza, così è stata presentata, nei giorni scorsi, tutto sommato in sordina, mentre l’attenzione dei media era concentrata altrove (vedi le tragiche notti post caso Marra dei Cinque stelle in Campidoglio). E sarebbe rimasta per un po’ sottotraccia, la candidatura Speranza, in attesa magari della pronuncia della Consulta sull’Italicum, non fosse capitato il classico caso fortunato-sfortunato, sotto forma di parolaccia sfuggita a Roberto Giachetti, vicepresidente della Camera renziano ed ex candidato sindaco di Roma che all’assemblea pd, domenica scorsa, se n’è uscito con la frase: “… Sulla legge elettorale mi sembra di trovarmi di fronte al gioco dell’oca. Ovviamente penso che il Mattarellum sia una legge straordinaria e importante. Ancora in queste ore rimango leggermente allibito quando leggo il novello Davide Roberto Speranza dire che è una sua proposta. Ho cercato parole ortodosse per dire cosa io penso. E penso: Roberto Speranza, hai la faccia come il culo. Quando avevi la possibilità di votare il Mattarellum alla Camera eri il capogruppo e hai detto no…”. Al sollevamento-truppe di minoranza scandalizzate, l’evento si rivelava propizio per Speranza (accensione dei riflettori sull’altrimenti mezza-ignorata discesa in campo) ma anche pericoloso per Speranza medesimo, ché sono giorni che a ogni sua uscita qualcuno della maggioranza lo accusa di incoerenza (della serie: ora ci criticate, ma prima il Pd di Bersani era favorevole). Apoteosi dello scontro, il tema “voucher” nelle ore in cui il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è sotto accusa, anche dopo le sue scuse, per la frase sui giovani italiani all’estero (“centomila giovani in fuga all’estero?… alcuni è meglio non averli tra i piedi”). Speranza sull’argomento voucher ha evocato la sfiducia, con dichiarazioni al Corriere della Sera sulle sue
La campagna pro Bersani del 2012, i mesi del governo impossibile nel 2013, la lettera aperta sui voucher a Poletti oggi
“bestie nere” Buona Scuola e Jobs Act: “… Non sono più disponibile a sostenere misure che portino fieno in cascina ai populisti… c’è una generazione che con i voucher rischia di restare incastrata in un fiume di precarietà… un esecutivo serio non aspetta un giorno per intervenire” (obiezione di maggioranza: i voucher sono stati varati da Berlusconi e poi da Monti, con il sì del Pd bersaniano). Eppure, mentre minaccia sfiducia, Speranza la mantiene, con toni compassionevoli da curato, ma anche da allievo del Bersani che dal “nemico” vuol ricavare obtorto collo un amico (vedi tentativo bersaniano di scouting con i Cinque stelle, nel 2013). E così, con lettera aperta a Poletti sull’Huffington Post, Speranza rimprovera, sì, ma lanciando l’amo per l’azione congiunta: caro Poletti le tue parole sui giovani “sono sinceramente indifendibili”, scrive, ma visto che tu stesso hai riconosciuto la “brutta scivolata” , e visto che le “opposizioni hanno già presentato una mozione di sfiducia individuale contro di te che sarà discussa alla ripresa dei lavori parlamentari, dopo la pausa natalizia”, se vuoi dimostrare “che quella frase è stato solo un incidente hai una strada maestra per farlo, proprio nella discussione che si terrà sulla tua mozione di sfiducia individuale… Un ministro si può sfiduciare solo per una frase sbagliata? Alcuni pensano di sì. Io non ne sono convinto… Ma… il ministro del Lavoro non può continuare a non vedere che nel fiume di questa nuova precarietà stiamo perdendo un’intera generazione…”.
Oltre Poletti, il problema è un altro: come agganciare i giovani che non votano più il Pd. Un enigma che Speranza cerca di sciogliere dalla sua pagina Facebook, con articoli su temi di ecologia, economia e politica con vaga impronta “Occupy Wall Street”, e con molte lodi al presidente americano uscente Barack Obama che ha vietato in modo permanente le trivellazioni di petrolio e di gas naturale offshore nell’Artico e nell’Atlantico. Per tutto il resto ci sono i cavalli di battaglia del dopo referendum: “Dialogo vero con insegnanti e studenti” e “interrogarsi sullo stato del mezzogiorno”. Pena la scomunica ulteriore di chi, alla base, potrebbe pensare “che la lezione del 4 dicembre non l’abbiamo proprio compresa”.
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