La stanza buia di Pavese
La bella Constance, gli amici lontani, i fantasmi del passato. Una notte nell’ultimo albergo dello scrittore
C’è un albergo a Torino, accanto alla Stazione Porta Nuova, si chiama Hotel Roma. Cesare Pavese ci si è ucciso nella notte fra il 26 e il 27 agosto del 1950. Conservano la stanza com’era, ma non è un museo. L’affittano ai clienti come tutte le altre. Si trova in un’ala dell’hotel che è rimasta come nei lontani anni Quaranta, perché molti preferiscono alle comodità contemporanee il décor vecchiotto. Di Pavese magari non sanno nulla e dormono tranquilli nella sua stanza all’oscuro di tutto. Io all’oscuro non ero quando per caso (ma che cos’è mai il caso?) sono capitata proprio lì. Una notte a Torino, nella 346. Ai tempi era solo la 46, perché il 3 è un’innovazione dei nostri giorni, un’aggiunta per indicare il piano. Ammetto che, quando mi hanno consegnato la chiave, il cuore si è un po’ agitato. Ho salito a piedi la scala ampia, accarezzando il vecchio corrimano di legno, pensando che così forse, facendo scivolare le dita sulla balaustra, era salito sessant’anni fa Pavese. Mi sono recitata in testa i versi che scrisse nei mesi precedenti a quell’agosto caldissimo: “Sei la vita e la morte… Il tuo passo leggero / ha riaperto il dolore”. Lui che nell’ultima pagina del diario, il 18 agosto, aveva annotato: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. Sapeva esattamente cosa avrebbe fatto. In quello stesso diario aveva anche scritto: “L’anno non finito che non finirò”.
Il 1950, appunto. L’anno in cui ha vinto il Premio Strega con “La bella estate”. “Ho vinto il premio mondano” annunciò al telefono all’amico Davide Lajolo, che sarà poi l’autore della sua biografia, “Il vizio assurdo”, libro molto discusso e comunque bello. L’anno in cui pubblicò l’ultimo romanzo, “La luna e i falò”, composto furiosamente in tre mesi. Disse Italo Calvino: “Pavese i suoi libri se li lascia crescere addosso come funghi, devono portare dentro tutto quello che l’autore ha imparato di nuovo della vita nell’intervallo tra un libro e l’altro”. Che cosa aveva dunque imparato per poter scrivere “La luna e i falò”, suo testamento letterario? Ancora una volta la morte, e il suicidio. E’ un libro pieno di morti. Tre donne, in particolare, vi fanno una brutta fine. Perché delle donne voleva sempre vendicarsi, le donne di cui s’innamorava e che non lo riamavano come disperatamente chiedeva, le donne che lo lasciavano, perché era teatrale, nevrotico, drammatico, perché un eccesso di emozione gli creava problemi col sesso, perché probabilmente perdeva nelle faccende amorose il suo meraviglioso, caustico spirito. Oppure perché le spaventava quello spirito crudele, autolesionista, amaro. La stanza al terzo piano è l’ultima in fondo a un breve corridoio. Che mi è saltato in mente? Posso sempre ridiscendere e chiedere che mi cambino di camera.
Ma non si può cedere così ai fantasmi. “Tra fiori e davanzali / i gatti lo sapranno” recita un’altra famosa poesia di Ces o Paves o Pav, come lo chiamavano gli amici, come firmava le lettere. E fu un gatto, tramanda la leggenda, il primo essere vivente a infilarsi nella 46 quel 27 agosto del ’50, una domenica, quando il padrone dell’albergo prese un grimaldello e forzò la porta. Non vedeva quel cliente da una notte e un giorno e la cameriera il giorno prima si era lamentata di non essere riuscita a rifare la stanza chiusa dall’interno. Pavese giaceva sul letto, la testa sul cuscino, vestito. Aveva tolto solo la giacca e le scarpe. Sul comodino il suo libro preferito, “I dialoghi con Leucò” e una decina di bustine di Veronal. Vuote. “Ci saranno altri giorni / ci saranno altre voci. / Sorriderai da sola. / I gatti lo sapranno”. Cosa sapranno mai i gatti che noi non sappiamo? “Ci sono state due ristrutturazioni” mi ha garantito il portiere “ma la 346 non è stata toccata”. Se non per i servizi igienici, modernizzati. Per il resto è rimasta come compare nelle foto del tempo sparate dai giornali dopo il suicidio, foto in bianco e nero. Ora, in più, vedo i colori. Vedo la finestra in fondo, il lampadario triste, un armadio incassato nel muro, di legno biondo con un ornamento rosso intorno alla serratura, una poltrona di cuoio rosso ai piedi del letto singolo addossato ad angolo fra due pareti. E’ una stanza stretta e lunga. Di fronte all’armadio un tavolo piccolo, di legno, col ripiano rosso.
Di fronte alla poltrona un attaccapanni a pannello montato su un mobiletto a ribalta che ha un ripiano stranamente allegro, a larghe righe multicolori. Dalla poltrona, avvolta in un silenzio tremendo e sentendo le vecchie molle dentro l’imbottitura, le osservo a lungo queste righe. Forse anche Pav è stato seduto così e ha appoggiato le braccia lungo i braccioli arrotondati come viene naturale appoggiarle. Vado alla finestra, gli infissi sono moderni, coi doppi vetri; ma una volta girata la maniglia si scopre dietro un’altra finestra, quella originale, dalla vernice bianca scorticata. Non ha la maniglia, questa, ma quel tipo di chiavistello che hanno le vecchie finestre piemontesi. La apro e guardo giù. Immagino Pavese che si affaccia su questa stessa piazzetta, la piazza Paleocapa con al centro la statua dell’ingegner Pietro Paleocapa, insigne patriota del 1848, e che osserva intorno i vecchi palazzi con gli abbaini nei tetti scuri e gli archi del portico che separa la piazza Paleocapa dalla piazza Carlo Felice. E’ bello questo scorcio della città, Torino non potrebbe essere più Torino di così. Immagino Pavese che si affaccia e fuma la sua inseparabile pipa. Hanno trovato cenere sul davanzale. Ma non era la cenere della pipa, troppo abbondante. Aveva bruciato qualcosa: lettere, pagine del diario? Il diario lasciato sul tavolo a casa, quello che nel ’52 fu pubblicato col titolo “Il mestiere di vivere”, quello pieno di riferimenti al suicidio, quello in cui dice a un certo punto che si sente “come un fucile sparato”. L’ho letto adolescente e non ho mai dimenticato questa espressione, mi è tornata in mente ogni volta che ho avuto bisogno di dare un’immagine a un sentimento negativo della vita. La casa era quella di sua sorella Maria, sposata Sini, madre di due figlie, in via Lamarmora numero 35. Lascio l’albergo e ci vado, non è molto distante. Hanno messo una targa mamorea. Le tristi targhe italiane, che sembrano lapidi cimiteriali. Peccato non aver imparato nulla dalla sobrietà londinese: targhe commemorative blu, rotonde, tutte uguali, nome del personaggio, date di nascita e di morte e un semplice “lived here”.
A Torino Pavese viveva qui, in una grande stanza tutta per sé che lo isolava dalla rispettosa e protettiva famiglia Sini. C’era una lunga libreria su due pareti, un tavolo ampio dove teneva le penne e le pipe, due poltrone e un mobiletto a ribaltina. Ha raccontato la nipote Maria Luisa che quel 27 agosto 1950, tornati da Santo Stefano Belbo dove erano andati in vacanza, avevano trovato la finestra della stanza dello zio Cesare spalancata da un temporale e una cartellina gialla appoggiata sul tavolo in bella vista. Il vento l’aveva aperta, alcuni fogli erano volati in giro. Li avevano raccolti e rimessi in ordine badando a non leggerli. “Non avremmo mai letto quel che scriveva senza il suo permesso. Se l’avessimo fatto, forse avremmo intuito qualcosa, saremmo stati in tempo a fermarlo”. Non sembrava nemmeno un diario, sembrava un romanzo. Sulla cartellina stava scritto: “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese e: “Questa cosa deve essere salvata a ogni costo”. Proprio alla sorella aveva inviato una lettera il 17 agosto per rassicurarla: “Cara Maria, mi sono sistemato in un albergo che mi costa pochissimo e ci dormo benissimo. Non è necessario che torni lunedì 21. Puoi restare fino alla fine. Le camicie e gli abiti me li puliscono in albergo… State bene. Io sto bene, come un pesce nel ghiaccio”. Le lettere e le cartoline che spedisce agli amici negli ultimi mesi sono piene di riferimenti alla fine ambigui o dichiarati. Ma gli amici non lo prendevano sul serio su questo argomento. Parlava sempre di suicidio Pavese, hanno detto.
A Doris Dowling, sorella della disperatamente amata Constance – un rapido flirt consumato fra marzo e aprile che per lui era diventato il coronamento di tutti i fallimenti amorosi – scrive il 6 luglio: “Da sabato a lunedì andrò a visitare (per l’ultima volta) il mio paese”. Il suo paese era Santo Stefano Belbo, nella provincia di Cuneo dove si può visitare la casa natale e, poco più avanti, sulla strada per Canelli, la bottega artigiana, trasformata anch’essa in museo, del grande amico Pinolo Scaglione, il Nuto de “La luna e i falò”, falegname e clarinettista. “Per anni sono rimasto mortificato dalla morte di Cesare” ha raccontato in un vecchio documentario. “Il sabato prima del suo suicidio ero andato a Torino, per un guasto alla macchina. L’ho lasciata ad aggiustare e ho ripreso il treno senza passare a salutarlo, come invece facevo sempre quando capitavo in città. Magari vedermi gli avrebbe fatto cambiare idea, come altre volte”. Nessuno si rende conto che questa volta Paves fa sul serio. Nella prima parte di agosto va a trovare gli amici Occhetto a Bocca di Magra, dove ritrova la diciottenne Romilda, detta da lui scherzosamente Pierina (destinataria – si scoprirà poi – di un’ultima lettera sbruciacchiata sul davanzale della 46). E’ la sorella di Giulio Bollati che lavorava con lui in Einaudi. E’ lei la destinataria di una confessione che appare sproporzionata sia all’età della ragazza, sia ai rapporti intercorsi fra loro: “… so che la vita è stupenda, ma che io ne sono tagliato fuori, per merito tutto mio… Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna al mio fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?… Ti voglio bene, Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela”.
A un’altra coppia di amici aveva scritto: “Vivete allegri e speriamo di vederci – chi sa – magari in cielo” e a un altro, il 25 agosto: “Tiro avanti per conto mio, sperando che sia presto tutto finito”. Achille Occhetto, che aveva ai tempi quattordici anni, ricorda lo stupore dei suoi genitori a vedersi arrivare una settimana dopo il soggiorno di Pavese a Bocca di Magra un biglietto così concepito: “Vi ringrazio per l’ospitalità e auguro a voi una lunga vita”. Il rimorso di Pinolo furono in molti a condividerlo. Pavese aveva a suo modo lanciato delle richieste d’aiuto? Sabato 26 era passato anche in casa editrice. Aveva trovato solo un grafico che si portava avanti col lavoro. Gli aveva chiesto: “C’è Oreste Molina?” No. “Einaudi, c’è?” No. “Non c’è nemmeno Bollati?” No, sono tutti in ferie. Allora era andato verso la lavagna, che tenevano nella stanza delle riunioni, e aveva scritto MERDA. Nessuno, poi, osò cancellare quella parola, per molto tempo. Tornato in albergo, ha attaccato la giacca all’attaccapanni. Si è tolto le scarpe e si è disteso sul letto. Il comodino è costituito da un cassetto montato contro la spalliera di legno. Il ripiano è verniciato in rosso. Sopra al comodino è conservato il telefono nero di bachelite, appeso al muro, come erano i telefoni una volta.
Sappiamo che staccò la cornetta e chiese alla centralinista una serie di numeri: di Giulio Einaudi, di Natalia Ginzburg, di Fernanda Pivano, di Davide Lajolo, di Bianca Garufi, con cui stava scrivendo un romanzo a quattro mani. Anche di Nanda e di Bianca era stato goffamente innamorato. Ma sarebbe romantico e riduttivo cercare la ragione del suicidio solo nei ripetuti scacchi sentimentali. Lo stesso Pavese ci avverte nel diario: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualsiasi amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. Nessuno, comunque, rispose al suo richiamo. Gli squilli risuonarono in case vuote. Erano tutti ancora in vacanza. Forse voleva semplicemente salutarli un’ultima volta, senza rivelare che era l’ultima volta. O forse voleva essere capito e salvato. Era all’apice della popolarità e pienezza della carriera letteraria, cominciata nel 1936, esattamente ottant’anni fa, con i versi di “Lavorare stanca”, editi da Solaria e ripresi sette anni dopo, ampliati, da Einaudi. Era il punto di forza della casa editrice più prestigiosa in Italia, aveva una quantità di amici che gli volevano bene. Ma non si perdonava la viltà politica che l’aveva portato nel ’36, su insistenza della sorella, a chiedere la grazia per mettere fine – con due anni di anticipo – al confino cui era stato condannato dal fascismo, a Brancaleone Calabro (è stata trasformata in museo anche la casa che lì abitò).
Soprattutto, forse, non si perdonava di esserci finito al confino per motivi amorosi, non per una vera attività politica. Innamorato della donna “dalla voce rauca”, ovvero Tina Pizzardo, conturbante militante antifascista, aveva accettato di ricevere a casa propria lettere compromettenti destinate a lei. E non si era mai perdonato di non aver seguito i partigiani su per le colline, di non essere morto con loro sui monti o dentro un carcere come il suo grande amico Leone Ginzburg. E poi: il padre era morto di tumore al cervello, quando lui aveva appena sei anni e ora si era convinto di avere un cancro al cervello come il padre. E poi: il 25 giugno era scoppiata la guerra in Corea con profezie minacciose per la pace sulla terra. Non voleva vivere un’altra guerra per niente al mondo. E poi: il rapporto ravvicinato con la mondanità letteraria romana per il recente Premio Strega, le manovre che lo avevano portato a vincere di cui si era fatto inevitabilmente complice, gli avevano aggiunto disgusto per se stesso. Tutte queste ragioni, se la bellissima attrice americana Constance Dowling – descritta dal suo ex amante Elia Kazan come una bomba del sesso – non l’avesse abbandonato di colpo dopo nemmeno due mesi di passione, tutte queste ragioni, forse, non l’avrebbero avuta vinta sul suo profondo male di vivere. Avrebbe ancora una volta rimandato il suicidio. E invece scrisse, sulla prima pagina bianca de “I dialoghi con Leucò”, le parole memorabili: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi”. Quindi ripose il libro sul comodino, sciolse la polvere nell’acqua, bevve, si addormentò. Quanto a me, nella stanza 46, mi sono improvvisamente ricordata che tanti anni fa Giulio Einaudi, vedendomi arrotolare compulsivamente una ciocca di capelli intorno al dito, m’investì furioso con la sua vocetta nasale: “Smettila subito, sai!” Poi si calmò e aggiunse: “E’ un gesto suicida. Lo faceva sempre Pavese”. Così, per dormire nella 46, ho dovuto prendermi un sonnifero. Ma nella dose giusta.
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