La democrazia, in diretta
Al gran circo dei referendum californiani, un sistema unico al mondo diventato ormai un’industria
Los Angeles. In quest’anno che muore, assai dolcemente, la spiaggia di Santa Monica non ha molto da invidiare a quella di Marina di Bibbona, buen ritiro grillista toscano. “Welcome to California, dove il cittadino è legislatore” titolava un pezzo sul LAWeekly qualche tempo fa. E’ infatti lo stato, seppur non sovrano, con più democrazia diretta al mondo. E’ il La La Land del referendum, il sogno di ogni comitato, la terra promessa dell’honestà. E’ l’incubo di ogni costituzionalista, come ha segnalato anche sul Foglio Sabino Cassese a Claudio Cerasa: secondo il giudice emerito della Consulta “il rovesciamento tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa sta indebolendo un grande sistema democratico” come quello californiano. Il fatto è che qui i cittadini si ritrovano ogni due per tre a votare per uno stuolo di “propositions” cioè di leggi di iniziativa popolare, e se ciò non li soddisfa possono anche rimuovere consiglieri comunali, sindaci e perfino governatori. Basta raccogliere le firme. E’ successo anche nelle ultime elezioni, quelle che hanno mandato Trump alla Casa Bianca. “Accanto alla scheda per scegliere il presidente c’erano 17 (diciassette) quesiti” dice al Foglio Gabriel Kahn, professore di giornalismo alla University of Southern California. “Non è più uno strumento di democrazia: solo uno riguardava un elemento realmente di interesse pubblico e sociale, quello sull’abolizione della pena di morte”, ed è stato bocciato; “mentre la maggior parte sono strumenti per le lobby”: da quello per introdurre i profilattici obbligatori nei film a luci rosse (bocciato), a quello per la marijuana a uso ricreativo (approvato), “fino ai due quesiti sulle buste della spesa in plastica, che interessano le industrie del settore”.
Due quesiti fondamentali sulle buste della spesa, che dopo ore di studio non si riesce a decifrare; per abolirle (e sono state abolite, nello stato più ecologico al mondo) ma anche per destinarne le tasse a indefiniti progetti ambientali (ma non si capisce niente, aridatece il nostro povero referendum italiano). “Sono scritti appositamente così, per confondere gli elettori, nell’interesse delle industrie del settore” precisa Conyers Davies, esperto di comunicazione politica, già nel team del primo ministro inglese David Cameron e oggi nello Schwarzenegger Institute for State and Global Policy, il think tank politico dell’ex governatore. Il fatto è che in California le “initiatives” o “propositions” come si chiamano valgono ormai forse più dell’industria cinematografica e Los Angeles dovrebbe sostituire la scritta “Hollywood” con quella di “Referendum”: l’ultima tornata di novembre ha generato un giro d’affari di 450 milioni di dollari, il più caro della storia, e tutti hanno interesse a parteciparvi: sono stati spesi 115 milioni di dollari solo per i 76 mila spot tv pro o contro le 17 proposition, e nessuno può tirarsi fuori: un altro dei quesiti riguardava l’aumento di 2 dollari a pacchetto delle tasse sulle sigarette, e solo le aziende del settore hanno speso 55 milioni in lobbying (inutilmente perché la proposition è passata). Questo solo per le proposte che sono finite sulla scheda elettorale; una minima parte, perché quelle che non hanno raggiunto il numero di firme necessarie erano addirittura una sessantina, tra cui quella immaginifica dell’imprenditore John Cox, che ha speso 1 milione di dollari per lanciare la sua proposition intitolata “Nascar”. Acronimo di “Name All Sponsors California Accountability Reform”, e richiamo al Nascar campionato automobilistico: voleva introdurre infatti l’obbligo per i politici di indossare tute coi loghi di chi li ha finanziati, esattamente come i piloti di Formula 1 con le marche degli sponsor. Fino all’anno scorso bastava pagare 200 dollari per depositare una “proposition”, poi la cifra è stata alzata a 2.000 dopo una legge di iniziativa popolare con oggetto “la soppressione fisica dei sodomiti”; ci si rese conto che la fee troppo bassa costituiva un richiamo irresistibile per ogni demente o burlone d’America.
Ma, come si vede, se il burlone è milionario, o se la lobby è organizzata, non esiste deterrente. “E’ un meccanismo abbastanza difficile da spiegare anche per noi in America” dice al Foglio Joe Mathews, co-presidente del Global Forum on Direct Democracy, un network di giornalisti, studiosi e analisti che discute gli effetti della democrazia diretta nel mondo. “E’ il sistema più costoso del mondo, e il più inflessibile”, dice Mathews. E’ un grande business, “un processo che costa due o tre milioni di dollari a proposta, e quando ci sono queste cifre in ballo non è più un sistema che riguarda il potere dei cittadini ma il potere di poche persone molto ricche, o gruppi di interesse organizzati” dice Mathews. “Diamo pochissimo tempo, sei mesi, per raccogliere le firme per quesiti complicatissimi, mentre poi una volta che la proposition finisce sulla scheda elettorale non esiste quorum” dice Mathews, “perché il quorum sarebbe considerato un ostacolo alla partecipazione”. “Il problema è che è troppo facile arrivare a qualificarsi” aggiunge Davis. “Il numero delle firme da raccogliere è basso. Cambia di volta in volta, e si calcola in base a una percentuale sui voti ottenuti nell’elezione politica precedente. Agli ultimi ballot di novembre, la soglia era di 365.880 firme” dice Davies, “ma nelle prossime, siccome saranno calcolate sull’elezione presidenziale, sarà più alto. Poi c’è tutto il business della compravendita” dice. L’imprenditore del Nascar ha speso quasi 4 dollari a firma, uno sproposito nel borsino del referendum californiano (l’Economist stima un prezzo medio intorno ai 10-20 centesimi, con organizzazioni che le procurano sulla pubblica piazza, in fila per l’autobus, con vari stratagemmi).
Un altro fattore tragicomico è che spesso queste leggi di iniziativa popolare non sono modificabili dalle istituzioni. “Le leggi che escono dai ballot non possono essere cambiate che da altre leggi di iniziativa popolare, e questo solo se la proposition stessa lo prevede”, dice Mathews, altrimenti rimangono scolpite nella pietra. “In altri Stati è possibile cambiarle, ma non da noi, questa è una caratteristica della California”, dice l’analista al Foglio. In questo modo è come se i cittadini agissero da Camera e Senato insieme, con legge di revisione costituzionale incorporata. Il cittadino non è solo legislatore, è un legislatore bicamere, con uso di cucina costituzionale. Le conseguenze sono grottesche: “Ancora stiamo pagando gli effetti della Proposition 13 del 1978” dice Kahn. “Legge che abbatteva le tasse sulla casa, mandando sul lastrico vari servizi come la polizia che con quelle tasse erano finanziati, col risultato che siccome queste leggi non si possono più cambiare oggi noi in California paghiamo i poliziotti con una voce nella bolletta dell’elettricità” dice il giornalista. La Proposition 13 causò una rivolta in tutta l’America, perché gli altri non ci stavano a pagare di più fuori dalla California. La proposition 13 fu fortemente voluta dal governatore di allora perché i cittadini erano infuriati e la tassa sulla casa divenne il capro espiatorio ideale. “I cittadini la votarono in massa, perché all’epoca i prezzi crescevano molto e c’era forte inflazione, dunque le tasse aumentavano di conseguenza. Ma adesso l’effetto è che le tasse aumentano a livello generale, perché non si può alzarle sulla casa” dice al Foglio Christian Grose, professore di Scienza politica alla University of Southern California. “Fino alla Proposition 13 l’iniziativa popolare era considerata una valvola di sicurezza nel sistema democratico. Da lì in poi è diventata un circo e un’industria”, scrive l’Economist.
Ma quando è nato questo paradiso di partecipazione? “Un secolo fa, e ce l’avete portato voi, arriva dall’Europa”, scherza Mathews. “Siccome la California è molto grande, essendo lo stato più popoloso d’America, si pensò a uno strumento che accorciasse la distanza tra i cittadini e le istituzioni, sia in senso geografico che metaforico” dice Kahn, “dando la possibilità di contare nel meccanismo democratico”. La storia parte da una ferrovia. Ai primi del Novecento infatti in California arriva John Randolph Haynes, medico e fondatore di una “lega della democrazia diretta”. Affascinato dal sistema svizzero, che prevede vaste iniziative popolari, insieme a William Rappard, accademico di Harvard e diplomatico elvetico, mise su un movimento popolare vagamente leghista, che aveva come obiettivo eliminare soprattutto la Southern Pacific Railroad, la colossale ferrovia che imponeva l’agenda ai politici ed era soprannominata “la piovra” per la capacità di corrompere e far prendere decisioni pubbliche sulla testa dei cittadini. Una Tav d’epoca, insomma. “Nel 1911 venne così presentata la prima Proposition, che introdusse le leggi di iniziativa popolare, il referendum e l’arma fine di mondo, il recall cioè la possibilità di “richiamare”, far dimettere, qualsiasi amministratore pubblico in carica. Basta raccogliere le firme e zac, il politico che non piace lo si rottama.
“Questo istituto è più usato per rimuovere sindaci e consiglieri comunali, mentre è stato utilizzato solo due volte in 100 anni per cacciare il governatore” dice Mathews. L’ultima volta fu clamorosa, era il 2003 e il governatore in carica, Davis, fu rottamato, e al suo posto, con grande scandalo (non era ancora l’epoca delle Kardashian e dei Trump) andò su l’ex culturista globale Arnold Schwarzenegger (che oggi in una ideale staffetta guiderà la nuova serie di “The Apprentice”, il reality show imprenditoriale che ha reso celebre il palazzinaro presidenziale). “Il recall venne utilizzato in un periodo in cui la California attraversava grosse difficoltà, tra blackout e crisi energetiche, e Davis fu rimosso per questo. In concomitanza del richiamo vi fu una specie di primaria aperta con oltre 100 candidati tra cui il repubblicano Arnold Schwarzenegger, il suo collega di partito Tom McClintock, e il democratico Cruz Bustamante. Shwarzenegger vinse nella stessa elezione che mandava a casa Davis” dice al Foglio Christian Grose. “Ovviamente l’istituto del recall e in particolare l’uso che se ne fece nel 2003 non posso considerarlo che positivo”, scherza Davis, che con l’ex governatore lavora. Quell’elezione, oltre a portare in politica l’ex Terminator (per i titolisti, un gran periodo, tra i suoi film c’era “Total recall”) vide un’infornata di variopinti candidati: quinta arrivò, con 47.505 voti, Arianna Huffington, che due anni dopo fondò il suo fortunato Huffington Post; al settimo posto il pornografo Larry Flint con 17.458 voti, all’ottavo posto Gary Coleman più noto come Arnold (14.242 voti, indipendente), al decimo posto la pornostar Mary Carey (da non confondere con la cantante), con 11.179 voti. “Credo che gli elettori siano abbastanza intelligenti da non votare per tutta una serie di quesiti” dice Myers. “Quello che devi avere ben chiaro però è che c’è tutto un mercato che prospera a Sacramento, la capitale dello Stato” continua. “C’è un’industria della consulenza che produce spot televisivi, campagne di informazione, pr” specifica Grose. “Così anche quando non ci sono grosse elezioni politiche in vista, l’esistenza dei ballot porta lavoro al settore”.
"Bisogna pensare poi che in California è normale anche per esponenti politici di primo piano farsi portatori di leggi di iniziativa popolare: per esempio Schwarzenegger si è battuto per la Proposition 14 che ha modificato le primarie; o il governatore attuale che si è battuto per introdurre nuove tasse per finanziare la scuola con la Proposition 30. E’ un segno di successo per un politico quello di riuscire a far passare una legge di iniziativa popolare” dice il professor Grose. “Alcuni vedono la democrazia diretta come una dittatura della maggioranza” conclude Mathews. “In realtà è esattamente il contrario, dice l’analista: “E’ una dittatura della minoranza, di interessi particolari che fanno pressione per avere un trattamento speciale. E’ un casino colossale, ma chi ha i soldi e il potere per cambiare le cose è il meno interessato a farlo”.
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