Parole per un anno
Sale “evento”, specie se “incantevole”, ma al primo posto è “webete”. Il lessico 2016, specchio di un paese meno narciso e più preoccupato
Alla fine del 2013, la comunità mondiale che legge l’universo per sillabe, bip e grugniti elesse a parola dell’anno “selfie”. In dodici mesi, il suo utilizzo era aumentato del diciassettemila per cento; in pratica, un big bang della linguistica a cui andava ad aggiungersi un eponimo film rumeno di cui non riesco a riassumervi la trama per ignoranza totale dell’idioma ma che, mi par di capire, vinse il Gopo, l’Oscar locale, in tutte le categorie principali. In ordine di novità, di citazioni e di suggerimenti spontanei all’Accademia della Crusca perché lo incorporasse nel dizionario, al selfie, mito di Narciso in sei lettere, seguiva “duckface”, l’espressione facciale tanto spiritosa che all’autoscatto doveva accompagnarsi di rigore: occhi allegri, labbra protruse in un bacio al mondo intero, che per qualche stagione pareva fosse solo pronto ad ammirarci ventiquattr’ore su ventiquattro. Il selfie in diretta di Ellen DeGeneres dalla notte degli Oscar 2014 con tutti i colleghi che valesse la pena di accorpare nell’inquadratura (dieci, da Jennifer Lawrence e Meryl Streep a Kevin Spacey e Brad Pitt, non ancora caduto in disgrazia presso il pubblico femminile mondiale) totalizzò uno virgola due milioni di retweet.
I blogger della moda nascevano praticamente al ritmo di uno al minuto. Tre anni dopo, un’analisi anche empirica dei termini più usati, nel mondo come in Italia, racconta una situazione ben diversa. Siamo tutti più attenti alla politica, almeno in apparenza o se non altro alla sua rappresentazione, e siamo più sensibili al tema dell’“identità di genere”: sono circa novecentomila i riferimenti Google in Italia, che ha acquisito locuzione e tematica dagli Usa, dove ha dominato nel 2015. Solo adesso, infatti, noi dibattiamo sulla declinazione di “ministra” e “avvocata”, come se non ci fosse già il testo del “Salve Regina” a darci qualche indicazione su un passato meno ottuso del presente. In genere, siamo tutti più cupi e sospettosi nei confronti del web. Insieme con gli scontatissimi “Brexit” (centotredici milioni di citazioni), “terremoto” (circa quarantanove milioni), “referendum costituzionale” (più o meno cinque milioni), migranti (quattordici milioni), “razzismo” (quattro milioni e mezzo) e Pokémon Go (ventidue milioni di ricerche tecniche di mostriciattoli con uso di accento, tredici milioni senza), l’Italia china sul portatile deve aver capito che il web è meno amico, onesto, affidabile e bonaccione di quanto sembrasse una decina d’anni fa, e i blogger che contano, ormai ribattezzati influencer e a capo di piccole imprese a fatturato autogeno, non superano la quota di dieci. Al “selfie”, ricondotto alla domesticità di un programma di prima serata per il vasto pubblico con qualche difficoltà di affermazione, si è sostituito infatti il neologismo che indica il becero dei social di tendenza razzista, cioè il “webete”, il cretino del web, il minus habens dello schermo piatto. Colpiti al cuore dai troppi fenomeni di cyberbullismo e da un paio di fatti di cronaca nera che hanno scosso le coscienze, il narcisismo e la smania di autogratificazione sui quali si basano le fortune dei social stanno infatti cedendo il passo al sospetto nei confronti dei troppi “amici” che sono in realtà dei perfetti sconosciuti, accettati per fare numero e per darsi importanza. Giusto stamattina leggevo su Facebook almeno tre post di signore che invitavano la propria community “a evitare la polemica a scopi autopromozionali”, pena “la cancellazione immediata” e chissenefrega se “mi date della fascista” (altra parola in recupero, fra l’altro, con significato di “autocrate della disciplina”). I disturbatori seriali, gli arrabbiati a prescindere, le pizie del “l’avevo detto” e giù dati bislacchi, quelli che “gli immigrati negli alberghi e i nostri nelle tende non è giusto”, insomma e appunto i “webeti”, sono diventati insopportabili come certi ospiti che alzano troppo il gomito all’aperitivo e poi fanno commenti spinti a tavola e allungano le mani sulle signore. Gente da cui prendere le distanze ed eliminare alla prima occasione, con il dovuto garbo per evitare di infiammarli, ma anche con fermezza. Da agosto 2016 a oggi, quando venne usato dal direttore dei tg de La7 Enrico Mentana nel post di risposta a uno dei complottardi che usano il web per raccogliere i consensi loro negati davanti al caffè corretto grappa al bar, l’apologia “webete” che vent’anni fa indicava i puristi del web ha collezionato cinquantamila riferimenti su Google, di cui una buona parte riferiti a commenti e analisi sul tema, a ulteriore conferma della sua presa su un “popolo social”, altro termine in voga, che inizia a trovare la piazza mediatica più densa di insidie che di soddisfazioni.
Il dizionario Zanichelli 2017 annuncia di aver acquisito circa mille nuove parole o sfumature di significato, fra cui “euroburocrate”, “agriristoro”, “dashboard”, il leziosissimo e già dimenticato “petaloso”, neologismo di uno scolaretto di Ferrara che il padre corse a registrare la scorsa primavera, casomai qualcuno avesse voluto sfruttarlo “a fini benefici, si intende”, ma anche la “sovraistruzione” che vorrei capire come si coniughi con la nostra posizione fra i paesi europei più poveri di laureati e con una realtà di “webeti” pure della sintassi, e infine un’eccentrica “impastatrice planetaria” di cui mi divertirebbero invece eventuali declinazioni metaforiche. Ma, visto che l’acquisizione di parole non corrisponde automaticamente alla loro maggiore diffusione o moltiplicazione di utilizzo, non ci sono dubbi che il campo semantico in cui si collocano e si muovono le espressioni di maggiore successo nell’anno sia il web. Leggere la società e la storia attraverso il lessico potrebbe sembrare un esercizio ozioso, soprattutto in Italia dove il tasso di ricambio linguistico è talmente basso che dei settemila vocaboli della Divina Commedia ne usiamo ancora circa l’ottanta per cento, sette secoli dopo, citandone interi stralci come intercalare. Eppure, nessun altro sistema permette di trarre indicazioni altrettanto immediate sull’evoluzione del gusto, delle sensibilità, degli interessi comuni. Le “buzzword”, le parole del momento, di tendenza, hanno infatti un valore che supera il loro stesso significato.
E quello che emerge dalla somma delle parole più usate nel 2016 è un paese, e un intero continente, meno narciso, più preoccupato, non solo per i fatti contingenti, ma anche per la lettura che attraverso il totem del web riusciamo a darne. Abbiamo la netta sensazione che ci propinino spesso il falso, sospettiamo la truffa dietro ogni pretesa di citizen journalism, che se ha infinocchiato perfino “Striscia la Notizia”, figuriamoci noi. Nel giro di due anni, lo “storytelling”, altra parola delle ultime stagioni (sullo storytelling ipoteticamente fantasioso del governo Renzi l’opposizione ha banchettato per mesi), si è trasformato da tecnica narrativa ed educativa classica in mistificazione ad abuso delle masse: dici “storytelling” e a nessuno vengono in mente Roald Dahl o Adam Westbrook, ma i persuasori occulti. Non accade, naturalmente, solo in Italia. Qualche giorno fa, il Financial Times notava che, dei due neologismi coniati quest’anno dai russi (una lingua un paio di stagioni avanti nello zeitgeist occidentale; già nel 2015 aveva eletto “bezensti”, cioè “rifugiati”, a parola dell’anno) una in particolare esprime i timori nei riguardi del grande fratello social e della macchina della disinformazione. Si tratta, eccentricamente, di un’espressione di matrice latina, “orbis ex machina”, cioè “la teoria secondo la quale il mondo è simulazione via pc”, cioè che la bufala è sempre dietro l’angolo, che detto da loro è già un conforto.
Cito tre casi a memoria, ma ognuno di noi ne conosce a decine: la magnitudo falsata del terremoto ad Amatrice; l’inutilità dei vaccini; il gatto tinto di rosa per accordarsi al vestito; una sequela di scempiaggini costruite per eccitare il popolo webete, che si potrebbero immediatamente cestinare non fosse invece necessario, talvolta molto costoso, sedarle e smentirle. Insomma, altro che selfie. Non a caso, chi conta, dagli autoscatti ormai si tiene alla larga, allo stesso modo in cui Amancio Ortega di Zara e Ingvar Kamprad di Ikea, modelli dell’imprenditoria mondiale, non mettono su carta o tantomeno inviano per posta elettronica un solo memo, che trasmettono invece oralmente ai propri collaboratori più diretti così da evitare il rischio di “forward”, cioè la loro diffusione ipotetica a tutto il mondo. La controtendenza dal web all’esperienza sensibile, dal virtuale al reale, e in questo il calo nell’uso del termine ne è la prova regina, è non a caso il “finto selfie”, l’autoscatto apparente gestito da un collaboratore, insomma la vecchia cara fotografia che è la scelta di chi ha valore, valore monetario si intende, sui social media, cioè attori, influencer o entrambe le cose. Mentre i pubblicitari dichiarano di valutare sempre meno nei propri piani media il numero di like accumulati da un dato sito o blog, preferendo loro interazioni reali, più indicative di vero interesse, e meglio ancora se commentate, si torna a privilegiare le esperienze reali, vissute oltre lo schermo del pc o del cellulare, e con loro un lessico adeguato.
Non è un caso che il social di queste ultime stagioni sia Instagram, prova fotografica, provata, del proprio successo nella vita reale. Dopo il “webete”, la parola di moda dell’anno è infatti l’“evento” (la Russia ha coniato “Ochered na Serova Aivazovskovo”, cioè “fila per la mostra dedicata ai pittori Serov e Aivazovsky”), fenomeno di partecipazione collettiva e fisica, quattrocentoventimila citazioni. In subordine, si piazza l’“incantevole evento”, dove l’aggettivo “incantevole” svolge il ruolo appartenuto fino a pochi mesi fa a “straordinario”, cioè quello della ridondanza a effetto, dello riempitivo sciattone fra un concetto e l’altro. Vi sarete accorti del numero impressionante di articoli che titolano su questo o quella che “incantano” platee, passerelle, mangiate di pesce e aperture di boutique. Ma d’altronde, anche l’abuso di un dato termine, “straordinario” prima, “incantevole” oggi, sono indicativi del gusto del momento. Il Giappone ha incoronato a parola dell’anno “kamitteru”, cioè “divino”, che in Italia usano solo le signore della moda ultrasettantenni e certi sarti che prediligono le espressioni desuete, mandando in soffitta il famosissimo aggettivo “kawaii”, cioè “carino”, “nice”, che invece e tuttora impazza in Italia al punto che la Treccani vi ha costruito attorno uno degli spot più arguti e perfidi dell’anno (“sei senza parole? La lingua italiana ne comprende oltre duecentocinquantamila. Usiamole”).
Le parole valgono, e se qualunque coinvolgimento emotivo, seppur minimo, può essere ugualmente definito con l’aggettivo “carino”, cuccioli di cani, bei ragazzi, panorami o monumenti che siano, è ovvio che la diffusa incapacità di trovare le parole giuste non derivi solo dalla moda del momento o da anni di letture smozzicate, superficiali, veloci, fra riassunti di testi scolastici e messaggistica social, ma anche da un vero analfabetismo emotivo. La comunicazione di massa, che riempie testi e messaggi di “emozione”, non sembra in grado di esprimerla con parole e sfumature diverse da questa, basilare e subito consegnata al marketing. La “comunicazione emozionale” appunto, feticcio delle strategie di mercato degli ultimi anni, e spesso sostituita con “passione” in funzione accrescitiva. Tanta emozione equivale a passione. Il Campari, la Ferrari, Radio24. Tutto è passione, meglio ancora “red passion”. Il lessico del marketing, dello slogan veloce, del copywriter pagato per seguire l’onda e non anticiparla mai. Inserite il sostantivo passione su un motore di ricerca e fra le prima voci uscirà un sito di manicure, passioneunghie.it. Alluce, che passione. Le parole per dirlo derivano solo dall’esperienza, e non si possono mandare semplicemente a memoria. Bisogna viverle. E infatti, il video virale di queste feste 2016, una vajassa con un pappagallo di peluche su una spalla che si affaccia a un balcone e strilla – “auguri di Buon Natale, e che è, adesso che ci sono i telefonini non si possono più fare al balcone?” – l’hanno capito tutti, anche chi non parla il napoletano dei Quartieri Spagnoli.
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