Fine della politica
La democrazia diretta del M5s è un futuro senza partiti costruito sulla disciplina di partito. E sul vincolo di mandato. Un po’ di storia
Certamente, Signori, dev’essere gloria e felicità di ogni rappresentante vivere in stretta comunione e in corrispondenza con quanti lo hanno eletto. Le loro aspirazioni devono avere per lui la massima importanza ed essere degne del massimo rispetto… Ma la sua imparziale opinione, il suo maturo giudizio, la sua illuminata coscienza: quelli non li dovrà mai sacrificare a voi o a qualunque raggruppamento di esseri umani (Edmund Burke, Discorso agli elettori di Bristol, 1774)
Oreste Mori è un pensionato di La Spezia. Sconosciuto al grande pubblico, è una star del M5s. E’ infatti sua la proposta di legge più cliccata dagli iscritti sulla “piattaforma Rousseau”, che introduce il vincolo di mandato per deputati e senatori. Con la benedizione di Beppe Grillo, per il quale “l’articolo 67 della Costituzione consente la libertà più assoluta ai parlamentari che possono fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare”. Del resto, non esiste qualche forma di mandato imperativo anche in Portogallo, India, Bangladesh, Panama e Sudafrica? In attesa che l’Italia segua questi luminosi esempi, provvede un’azienda privata, la Casaleggio Associati, a garantire per via privatistica la fedeltà dei neoeletti pentastellati ai deliberati della Rete. Se sgarrano, lo sappiamo, scattano multe salate ed espulsioni a raffica. Una “truffa costituzionale”, l’ha definita Claudio Cerasa su queste colonne. Certamente un pasticcio politico, che affonda le sue radici in un’idea di democrazia diretta in cui si riverbera il mito dell’agorà alla luce delle nuove tecnologie. Una sorta di rousseauvismo in salsa informatica, insomma, che esclude ogni mediazione tra i cittadini e chi li rappresenta: i primi sono i “datori di lavoro” del secondo; il secondo è solo un “portavoce” dei primi. Un modello in cui la “fine della politica” prelude a un radioso futuro comunitario, nel quale tutti i partiti sono destinati a sparire. Ma, poiché questo futuro non è dietro l’angolo, occorre passare per una fase di transizione che esige, come nella vulgata stalinista della “dittatura del proletariato”, ferrea disciplina interna e, appunto, mandato imperativo nelle istituzioni.
L’utopismo naïf dei padri del M5s è la caricatura di uno storico dibattito, che ha accompagnato il processo di formazione degli stati nazionali e del parlamentarismo moderno. Basti qui solo un accenno a due esperienze emblematiche della vecchia Europa, magistralmente raccontate da Gaetano Azzariti in un saggio di cui sono debitrici queste note (in “Partiti politici e società civile a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione”, Jovene editore, XVIII-422 pp., 38 euro). Dopo l’ascesa al trono d’Inghilterra di Guglielmo il Conquistatore (1066), l’assemblea dei signori feudali (baroni, ecclesiastici, dignitari, ceti emergenti nelle contee) si caratterizzò per la capacità dei rappresentanti di far valere le loro istanze al di là del rigido mandato a cui erano vincolati. Così furono strappati a Giovanni Senzaterra i diritti della “Magna Charta” nel 1215; così suo figlio Enrico III il Plantageneta fu costretto ad emanare nel 1258 il “Provisions of Oxford”, con cui si impegnava a convocare l’assemblea almeno tre volte l’anno; così, infine, il “Bill of Rights” (1689) sancì la sovranità del Parlamento e il suo primato sulla corona. Oltremanica, quindi, la questione del mandato imperativo fu risolta pragmaticamente e in modo incruento quasi un secolo prima del celebre discorso di Edmund Burke (citato nell’esergo) – spesso indicato come l’atto di nascita del suo divieto. Ciò fu possibile grazie al ruolo deteminante dell’aristocrazia, che – alleata nell’Europa continentale con la corona contro la borghesia – si alleò invece con la borghesia contro la corona, confluendo in parte nella Camera dei Comuni. Oltralpe, al contrario, l’ostilità della monarchia al vincolo di mandato – che ostacolava le sue pretese assolutistiche – si protrasse fino all’ondata rivoluzionaria del 1789. Fu anzi proprio allora che Luigi XVI, tre giorni dopo il giuramento della Pallacorda (20 giugno), lo abolì con un’ordinanza, aprendo in tal modo la strada alla dissoluzione del sistema feudale. Due anni dopo l’approvazione della “Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen (26 agosto 1789), l’Assemblea nazionale vara una nuova Costituzione (14 settembre 1791). Accogliendo le perorazioni dell’abate Sieyès, all’articolo 7 viene solennemente ribadito che “Les représentants nommeés dans les départements ne seront pas représentants d’un département particulier, mais de la Nation entière. Il ne pourra leur être donné aucun mandat”.
Una formulazione che lasciava tuttavia impregiudicato un punto cruciale: quello del rapporto tra responsabilità del mandatario e potere del popolo. Furono i giacobini a sollevarlo nei termini più radicali. “La sovranità -aveva scritto Jean-Jacqes Rousseau- non può venire rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un’altra; una via di mezzo non esiste. I deputati del popolo non sono dunque e non possono essere i suoi rappresentanti, sono solo i suoi commissari. Non possono concludere niente in modo definitivo” (“Il contratto sociale”, 1762). Nel suo discorso sul “Governo rappresentativo” (10 maggio 1793), Robespierre, sulla scia dell’insegnamento del filosofo ginevrino, sostiene che “Il dominio del popolo dura un giorno solo” e, comunque, “i suoi delegati sono corruttibili”. Per l’avvocato di Arras era quindi indispensabile predisporre strumenti di controllo sulla loro attività che scongiurassero il pericolo di un “dispotismo democratico”. Da qui la necessità di una presenza “fisica, massiccia, quasi debordante” dei sanculotti alle sedute parlamentari. Da qui, anche, la possibilità di revocare il mandato per il crimine di tradimento o altri reati gravi. Ma né la revoca, né altre misure che vincolassero il mandato trovarono spazio nella Costituzione montagnarda del 1793. I fatti travolsero i principi, si impose il Terrore: fu l’inizio della fine. La Costituzione non entrò mai in vigore e Robespierre fu condotto alla ghigliottina. L’Ottocento liberale europeo segna così il trionfo della libertà del parlamentare, pur nei limiti di un corpo elettorale ristretto e di una rappresentanza concepita come “scelta dei migliori”.
Non così, o non del tutto così, sull’altra sponda dell’Atlantico: nella seconda metà del secolo era entrato in scena il “Progressive movement”, uno schieramento trasversale di forze sociali e politiche unito nella lotta per la riforma dei partiti mediante le primarie e per la democrazia diretta mediante gli istituti del referendum e del “recall”. Quest’ultimo, tuttora vigente in alcuni stati degli Usa (e, con diverse motivazioni, anche in Giappone e in alcuni paesi latinoamericani), designava il potere degli elettori di rimuovere un pubblico ufficiale prima della scadenza naturale del suo incarico. L’istituto del “recall” fu utilizzato dalla Comune di Parigi (1871) nel suo esperimento di autogoverno municipale. Esaltato da Marx, nel 1917 ispirò Lenin nella organizzazione dei soviet degli operai e dei contadini (e dei soldati), protagonisti dello sgretolamento dell’impero zarista. Il principio del mandato imperativo -cardine dell’ordinamento bolscevico- verrà poi inserito nella Costituzione dell’Urss del 1918. Come sottolinea Azzariti, ben differente è stata l’avversione al libero mandato del più grande giurista del Novecento, Hans Kelsen. Strenuo difensore della Repubblica di Weimar (1919-1933) anche quando sembrava imminente il suo collasso, finisce col colpire al cuore le stesse fondamenta della democrazia pluralista. Secondo il teorico della dottrina pura del diritto, “la moderna democrazia si fonda interamente sui partiti politici, organi della volontà dello Stato e intermediari fra questo e gli individui, con la funzione di selezionare la classe dirigente e rappresentare i bisogni della società” (“Essenza e valore della democrazia”, 1920-1921). Il ruolo del parlamentare viene così declassato da rappresentante della nazione a funzionario di partito.
Il Parlamento kelseniano, in altre parole, è un organo tecnico di composizione della volontà dei partiti politici. Questa visione spinge il giurista praghese ad avanzare un’ipotesi eversiva: “Ci si potrebbe accostare all’idea di non costringere i partiti a mandare in Parlamento un certo numero, proporzionale alla loro forza di deputati individualmente determinati, che -sempre gli stessi- partecipino alla decisione di ogni più disparata questione, ma di lasciare ad essi la possibilità di delegare, a seconda delle esigenze connesse con la discussione e la deliberazione delle varie leggi, degli esperti scelti nel proprio seno, i quali partecipino di volta in volta alla decisione col numero di voti spettanti al partito secondo la proporzionale” (“Il problema del parlamentarismo”, 1925). Questa ipotesi ha un inevitabile corollario: poiché la funzione di un deputato è subordinata al suo rapporto fiduciario col partito, ne discende che egli deve decadere quando cessa di appartenere alla lista nella quale si è presentato. Si può dire, in conclusione, che Kelsen aveva visto giusto quando ravvisava nell’allargamento del suffragio e nei partiti di massa le cause principali della trasformazione del sistema parlamentare. Non può dirsi altrettanto, però, quando sacrifica il libero mandato sull’altare della ineluttabile incorporazione dei partiti nella vita statale. Infatti, può il mediatore (il partito) sostituire il mediato (il rappresentante e, insieme, il rappresentato)? Se la risposta è sì, allora valgono le pagine di Carl Schmitt sul principio d’identità come base di legittimazione dei regimi totalitari, e l’inquietante conclusione cui perviene: “In particolare, una dittatura è possibile solo su un fondamento democratico” (“Dottrina della Costituzione”, 1928). Se invece la risposta è no, perché significherebbe la resa alle forme più estreme di populismo, ogni stravolgimento dell’articolo 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”) va respinto senza reticenze. Del resto, benché mutuato dall’articolo 41 dello Statuto Albertino (1848), non per questo i suoi estensori erano ignari che la libertà del parlamentare doveva fare i conti con una società solcata da divisioni sociali e fratture territoriali profonde, e che i partiti di massa si erano ormai affermati come i principali collettori del consenso popolare.
Nel 1946 (quando fu licenziato dalla seconda Sottocommissione), inoltre, era del tutto chiaro che la disciplina di partito poteva condizionare la condotta del singolo parlamentare, ma non doveva mettere in discussione la sua autonomia. Lo affermerà lucidamente nel 1964 una sentenza della Consulta (relativa alla controversa nazionalizzazione dell’energia elettrica), laddove recita: “Il divieto di mandato imperativo comporta che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito”. Oggi questo principio è sotto scacco. Lo contesta sguaiatamente -fino a farsi beffe della legalità repubblicana- una cultura politica dominata dal risentimento e dalla sfiducia: i cittadini devono essere i giudici inflessibili del potere. La metafora dell’apriscatole di Grillo risponde a questa logica: siamo in Parlamento per smascherare i malfattori e non per governare, men che meno insieme agli “altri”. E la dura polemica contro gli “altri” è l’altra faccia di una concezione della democrazia che si vuole senza “filtri”.
In questo quadro, anche la selezione della leadership avviene al di fuori di un confronto tra progetti diversi di società: nell’èra della democrazia digitale “la selezione deve essere fatta dal basso, dai cittadini, che propongono le persone più adatte e di cui conoscono la storia e le competenze”. Quest’ultima citazione di Gianroberto Casaleggio è piuttosto interessante. Come hanno scritto Antonio Florida e Rinaldo Vignati (in “Quaderni di Sociologia”, 65/2014), un pensiero “che affida il motore della storia al cambiamento tecnologico finisce per sfociare nell’idea del governo dei più capaci”. Idea che però stride con la favola del cittadino comune. Non fortuitamente, negli scritti di Grillo e Casaleggio è ricorrente un giudizio contraddittorio sugli “esperti”. Da un lato, vengono costantemente incensati per avallare le proposte formulate sul blog. In questo senso, l’expertise è contrapposta all’incompetenza dei parlamentari, nella prospettiva di un superamento tecnocratico della democrazia rappresentativa (anche se Kelsen non compare mai nel Pantheon del M5s). Dall’altro lato, essi vengono derisi quando si discostano dalle posizioni dei capi del movimento.
Grillo ha spesso sposato tesi eterodosse in campo medico e scientifico, invocando una democrazia diretta basata sul web che “prende decisioni sul in tempo reale senza delegarle ai [ora] cosiddetti esperti”. Se poi, oltre che sulle enunciazioni teoriche, gettiamo uno sguardo sulla gestione del movimento, il gioco si fa scoperto: il metodo dell’appello agli elettori e ai seguaci del web è la spada sguainata per attaccare a testa bassa l’indipendenza dei rappresentanti nelle istituzioni. Bisogna però dire le cose come stanno: le pulsioni di tipo plebiscitario del M5s riscuotono simpatie crescenti anche negli ambienti politici, intellettuali e accademici della sinistra massimalista. A ben vedere, quelle pulsioni sono il barometro di un clima sempre più ostile alla “casta”, in cui vengono partorite le ipotesi più stravaganti: si pensi, ad esempio, alla riscoperta della virtù del sorteggio come metodo di selezione della classe politica. In questo clima si è consumato il fallimento della riforma costituzionale del governo Renzi e il ripudio del maggioritario. Non ci resta che sperare in congiunzioni astrali più benigne per il Belpaese.
Il Foglio sportivo - in corpore sano