Il suicidio della chiesa
Dall’apostasia silenziosa che affliggeva Papa Wojtyla si è passati all’autosecolarizzazione. Possiamo ancora salvarci? Wolfgang Spindler, teologo e predicatore domenicano, lo spera
Wolfgang Spindler è un teologo domenicano tedesco, ha quarantanove anni e un’idea ben precisa su quali siano i rischi che la chiesa corre in tempi come questi. Scrive su due riviste, Die Neue Ordnung (L’ordine nuovo) e Tumult, insegna, fa il prete – cioè segue una parrocchia dove celebra regolarmente messa – e scrive anche libri per bambini, perché essi, dice conversando a lungo con il Foglio, “hanno un rapporto immediato con la trascendenza. La realtà di San Nicola, ad esempio, per loro è prossima ed evidente come quella della nonna o del gatto di casa”. Ricorrono gli otto secoli dalla fondazione dell’Ordine dei Predicatori (libri suggeriti: L’Ordine dei Predicatori, a cura di Gianni Festa e Marco Rainini per Laterza e I domenicani di Massimo Carlo Giannini per il Mulino), e subito si pone l’interrogativo su quanto sia complesso e accidentato predicare il cattolicesimo nell’Europa di oggi, così provata dalla secolarizzazione.
“Nelle prediche io cerco di tenere lo sguardo su due maestri, Domenico di Guzmán, il fondatore, e Tommaso d’Aquino, l’autorità teologica dell’ordine dei predicatori”, dice Spindler: “Domenico, come attestato nel processo di canonizzazione, parlava semper cum Deo vel Deo. Per me da ciò conseguono (e servono contro l’autosecolarizzazione della chiesa, cosa ben peggiore della secolarizzazione della vita pubblica) un’intensa vita di preghiera e il primato del discorso su Dio. Quando tengo le mie prediche, non parlo di protezione dell’ambiente, di politiche contro i cambiamenti climatici o altri luoghi comuni correnti, bensì del Dio trino e uno e di tutto ciò che deriva dalla sua esistenza. Io – aggiunge il teologo tedesco – non mi metto a fare deduzioni dogmatiche: piuttosto cerco, sulla scorta di Tommaso, di procedere per argomenti, mostrando la plausibilità del depositum fidei contro lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. E in particolare contro l’odierna cultura delle immagini e delle mere emozioni”. Il fatto è che “quando il Logos viene a mancare, subentrano al suo posto la forza suggestiva delle immagini, delle emozioni, dei soggettivismi e dei narcisismi: un problema di cui la chiesa non è ancora ben consapevole”. Ciò ha a che fare con il modo in cui la chiesa annuncia il Vangelo e lo predica nel mondo moderno: “La chiesa, e lo stesso ordine dei domenicani, non hanno ancora sufficientemente compreso questo problema del contrasto tra il Logos (così come ne parla il prologo di Giovanni 1, 1-18) e le immagini, gli eidola, anche se a livello pragmatico si serve ormai ampiamente dei nuovi strumenti della suggestione, cioè di immagini, simboli ambivalenti, video e internet per fare presa sulle masse a livello emotivo”.
Quel che serve oggi, osserva Wolfgang Spindler, “è predicare tornando ai fondamentali della teologia e dell’etica sociale. E questo richiede di occuparsi a fondo della storia, della politica, della letteratura, dell’arte, della musica. In modo che chi ci ascolta possa riconoscere che noi cattolici saremo ormai sì una minoranza, ma che nondimeno abbiamo ragione”. Rendere esplicito tale concetto appare un’impresa ardua, è una sfida ai limiti dell’utopia. Giovanni Paolo II parlò di una “apostasia silenziosa” che ormai aveva permeato la cultura europea, di un “uomo sazio che vive come se Dio non esistesse”. Con la conseguenza di aver “portato a considerare l’uomo come il centro assoluto della realtà, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo”. “Non c’è da stupirsi – commentava il Pontefice polacco – se in questo contesto si è aperto un vastissimo spazio per il libero sviluppo del nichilismo in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico e morale, del pragmatismo e finanche dell’edonismo cinico nella configurazione della vita quotidiana”.
Una realtà che Spindler conosce bene: “Il fenomeno dell’apostasia silenziosa è un fenomeno endogeno della chiesa, in particolare nei paesi di lingua tedesca, dove si fa presto ad atteggiarsi a piccoli Lutero, dispensando come proprie idee ciò che in realtà altro non sono che falsi stereotipi. Spesso mi rendo conto di riuscire a parlare di fede, speranza e carità molto più liberamente con interlocutori extra ecclesiam. Ma io preferisco di gran lunga questa fede del centurione, così come narrato nel Vangelo di Luca (7, 1-10) a quelli che dicono ‘io sono cattolico, ma…’”. Il centurione aveva un servo ammalato, mandò a chiamare Gesù perché lo facesse guarire. Sulla strada, il centurione gli mandò incontro alcuni uomini fidati, affinché dicessero a Gesù che non si disturbasse: “Io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo non mi sono neanche ritenuto degno di venire da te, ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito. Anch’io infatti sono uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: va’ ed egli va, e a un altro: vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fai questo, ed egli lo fa”.
Spindler è anche uno dei maggiori studiosi degli scritti di Hans Barion, sacerdote e teologo assai attivo nella polemica culturale del Novecento, che tra le maglie complesse e numerose del Concilio Vaticano II vedeva troppi elementi progressisti e financo marxisteggianti, contestando soprattutto il concetto stesso di concilio solo pastorale, con la conseguente riduzione degli insegnamenti della chiesa a mera dottrina sociale. V’era il concreto rischio, insisteva Barion, d’un appeasement della chiesa a un generico umanesimo che avrebbe reso il depositum fidei qualcosa di liquido, superficiale e sempre più sconosciuto. “Questo appeasement umanistico è una disposizione che si trova nella chiesa, ma non è in nessun modo dottrina della chiesa”, dice Spindler.
“E’ il tentativo di spiegare e razionalizzare i contenuti della fede, ovvero di trasmutarli in un generico insegnamento etico, in modo che ogni uomo possa sottoscriverli. Barion però sbaglia quando dice che ne sia responsabile il Vaticano II in quanto tale. Come già accadde durante il Concilio, anche oggi è una minoranza piccola, ma mediaticamente influente, a servirsi del Vaticano II come di una cinghia di trasmissione del proprio progetto di perpetua riforma progressista; progetto che poggia su quella che Benedetto XVI definì una falsa ermeneutica della discontinuità. L’appeasement – continua il teologo domenicano – è un’insidia sempre presente nella missione della chiesa: è la tentazione, per i pastori delle anime, di non dare scandalo, il che però va contro quanto si legge nella Seconda lettera di san Paolo a Timoteo, quando Paolo esorta a predicare opportune et importune, a riprendere, ammonire, annunciare. Oppure, è la tentazione per i vescovi di tenersi buoni i politici al fine di conservare antichi privilegi”. Nel concreto, gli esempi non mancano affatto: “Sulla questione dell’immigrazione illegale in Europa, oggi assistiamo a una nuova alleanza di trono e altare che cerca di limitare la libertà di opinione dei cristiani con pressioni psicologiche. Ma la chiesa – sottolinea Spindler – non è un partito, e qui Barion aveva ragione. Il clericalismo politico invece nega quella distinzione dei poteri che risale a Cristo stesso, come si può riscontrare in tutti i Vangeli”.
Si entra nel terreno della politica, oggi minacciata nella sua espressione più alta dal dominio del politicamente corretto. Una questione, quella dell’immigrazione, che ha visto la chiesa spesso non marciare unita, com’è naturale che sia, considerate le differenze che il fenomeno incontra di paese in paese. La chiesa, poi, è chiamata a fare i conti con il consolidamento dei cosiddetti populismi, portatori di una visione identitaria che contrasta con quella liberale del mondo, finalizzata a superare ogni differenza in nome di un generico globalismo. La domanda, che il Foglio sta ponendo da diverse settimane a intellettuali europei e d’oltreoceano (da George Weigel a Paul Appleby, decano di Notre Dame, dal filosofo Charles Taylor al politologo Patrick Deneen e al saggista tedesco Martin Mosebach) è quale tra questi due modelli sia più affine alla missione della chiesa. Spindler del tema se ne intende, scrivendone su Die Neue Ordnung (L’ordine nuovo), “un bimestrale fondato settant’anni fa da due domenicani, Laurentius Siemer ed Eberhard Welty, i quali erano stati attivi nella resistenza al nazionalsocialismo.
E’ un periodico indipendente, ecumenico, che si occupa di etica politica, economica e sociale. Diciamo che ama il parlar chiaro e a questo concede spazio. Ciò vale ancora di più nel caso di Tumult”, osserva il nostro interlocutore, che pure su questo trimestrale appunta le proprie riflessioni. “Il caporedattore, il mio amico Frank Böckelmann, è un ex attivista socialista e un brillante pensatore politico. Egli sostiene che la definizione di ‘trimestrale per sabotare il consenso’ sarebbe stata una mia idea! In verità detestiamo entrambi il pigro consenso della political correctness, che s’industria affinché tutti siano d’accordo sulle questioni politiche, e pone su ogni opinione deviante la minaccia della scomunica sociale. Il diktat del consenso – aggiunge – è una depoliticizzazione intensamente politica della società che una democrazia non può permettersi. Applicata alla chiesa, questa moralina del consenso è un surrogato della perduta unità dogmatica della fede. Funziona cioè come una specie di nuova circoncisione, al punto che io posso solo dire, con Paolo ai Galati, che ‘Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù’. Ecco, si sabota questo consenso e ci si fanno in fretta nemici quando, invece di proporre idealismi illusori, si cerca di descrivere la realtà. Per questo esercizio di realtà ci vogliono, per me che sono cattolico – dice Spindler – la dimensione della trascendenza ma anche, come insegna Marx, una variazione del famoso interrogativo di Hobbes: Quis lucrum faciet?”.
Quanto all’accusa di populismo, dice, “oggi è a sua volta in buona parte populistica. Chi la leva contro l’altro vuole mettersi sul lato giusto del confronto politico, sul lato di chi detiene il potere. Il populismo è, nel confronto democratico delle opinioni, una posizione legittima quando riafferma gli interessi del populus, cioè del vero fondamento del potere dello stato. Il cittadino comune – osserva il padre domenicano – ha ormai da tempo l’impressione che un complesso politico-mediatico dei ‘ben istruiti’ e dei ‘mobili’ faccia passare l’idea che la globalizzazione sia una specie di evento naturale, o un destino, che uno deve accettare come si accettano un clima piovoso o la sordità congenita. Invece il ‘globalismo’ è un’ideologia politica, che tende ad assicurare vantaggi per le èlite (e cioè il libero commercio, i prezzi d’importazione bassi, la forza lavoro mobile, i flussi di capitale stranieri) contro svantaggi per gli economicamente deboli. In più, essa promuove il livellamento delle diversità culturali: i centri delle città in Europa e in America stanno diventando tutti uguali, e la gente indossa dovunque gli stessi orribili jeans e giacche col cappuccio”. Tuttavia, generalizzare non è mai buona cosa: “Il caso del trumpismo populistico mostra, però, anche il pericolo opposto, e cioè che una nuova élite si limita a sostituirsi alla vecchia, e al popolo non resta che il ruolo di spettatore. La chiesa dovrebbe, allora, mantenere una sua equidistanza rispetto a tutte le ideologie, giudicando solo in base ai princìpi della dottrina sociale cattolica ciò che per gli uomini del presente e del futuro è il bene autentico”.
(ha collaborato Giuseppe Perconte Licatese)
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