Gerard van Honthorst (conosciuto anche come Gherardo delle Notti), “La mezzana”, 1625 (Utrecht, Centraal Museum)

Lo spirito della candela

Alessandra Iadicicco

Fiaccola funebre e chiarore nuziale, luce fatua e perpetua: il cero amato da generazioni di artisti. Anche contemporanei, come si vede in una mostra allestita in Germania

Era bello da vedere, ma del tutto insufficiente a illuminare le pale d’altare, quasi completamente immerse nell’ombra delle cappelle laterali. Anzi, ne aumentava la stessa oscurità”. Questo è K. che, muovendosi nei meandri labirintici del Processo di Kafka, al ventisettesimo capitolo del romanzo si ritrova in una chiesa e, “volgendosi casualmente”, vede ardere alle sue spalle “un grande, lungo cero fissato su una colonna”. Non avrebbe saputo dire quando fosse apparso. “Forse era stato acceso solo allora. I sagrestani sono per mestiere gente furtiva – commenta K(afka) tagliente –, passano sempre inosservati”. Tuttavia, è proprio quel lume scarso, “insufficiente”, a dare le coordinate. A definire lo spazio, l’altezza della colonna, i vani delle cappelle laterali. A fare luce, ovvio, ma, sorpresa più inquietante, a creare perfino l’oscurità. Che fosse pure “bello da vedere” era stato notato da generazioni di artisti, celebri e anonimi, che ne avevano e ne avrebbero fatto un oggetto privilegiato della loro arte. Emblema di eternità come di fragilità e di vanità, la candela di cera è un motivo sempiterno delle rappresentazioni figurative d’occidente: appare e scompare, fatuo e fatale, nei dipinti dei maestri medievali come sulle tele di Max Beckmann e Pablo Picasso, torna e ritorna, celebrato o clandestino, nei lavori degli artisti che, furtivi come i sagrestani, lo rubano alla tradizione più blasonata per ravvivarne la fiamma sotto le angolazioni più ardite e con le proiezioni più inaudite. Fa pertanto l’effetto di una fiaccolata spiazzante la mostra intitolata “Die Kerze”, “La candela” che, al museo Frieder Burda di Baden Baden, lasciandosi alle spalle i fari dell’iconografia storico-artistica classica – non c’è George de la Tour, per intenderci, né le nature morte di Pieter Claesz –, si addentra a esplorare l’epoca più recente, dagli anni Ottanta in qua, mettendo davvero “a fuoco” variazioni bizzarre della più tremula e mutevole delle immagini. Tanto per cominciare va chiarito subito che è la fiamma a fare la differenza.

 

Lo dimostrano con precisione matematica le opere di Gerhard Richter, capofila del corteo allestito fino al 29 gennaio al museo di Baden Baden, nelle sale dell’edificio che, meglio ricordare, fu progettato dall’architetto americano Richard Meier come spazio di bianchezza e luminosità. Il Frieder Burda possiede, come uno dei suoi gioielli più preziosi, la serie delle candele che l’artista tedesco (nato a Dresda nel 1932) ritrasse tra il 1982 e l’83 in 28 dipinti. Su ognuna delle tele, ciascuna regolare ed equilatera, di forma quadrata e dai lati di un metro per un metro, appare uno spazio geometrico essenziale, tanto scrupolosamente definito quanto indistinto: un intersecarsi di poche, una, due, massimo tre linee orizzontali e verticali che tracciano l’illusione di una tridimensionalità e fanno da quinte minimali a una, due, massimo tre candele accese. Bianca, lineare, diritta, semplicissima, quella cannula tesa, cilindro sottile, entra a ritmare con la sua esile silhouette il geometrico, evanescente gioco di superfici. E’ incolore, come lo sfondo su cui appare, o ha la tinta tenue, perlacea in cui si generano tutte le gradazioni dell’ombra. Ma sulla sua sommità vacilla una fiammella, ed è quella luce fioca a trasformare l’incorporea geometria in una stanza – camera, cappella, aula, o sagrestia? –, a dare profondità alla tela, realtà all’illusione, e a proiettare il quadro, davvero per magia, dall’astrattezza alla figurazione.

 

Non è per pedanteria che va osservato come la lunghezza della candela, rispetto a quella delle linee tra cui si situa, l’altezza della fiammella rispetto a quella della tela, la collocazione del lume rispetto al perimetro della cornice, sono sempre calcolati in base alla sezione aurea, la costante di Fidia, la proporzione divina. Per compiere il prodigio – fiat lux!, con tutto l’ambiente e l’atmosfera che la cingono – Richter si attiene rigoroso a una cifra esatta e si rifà al più classico dei rapporti. L’operazione è precisa, ambisce alla perfezione. Il gesto è grave, solenne, un aperto confronto con la tradizione. La faccenda è seria, perché ciò che con un banale artificio, un trucco d’artista, si vuole rappresentare è l’essenza stessa dell’artistica creazione, nonché l’archetipo di una delle sue figure più simboliche, ritratto con il suo alone magico e tutte le sue suggestive connotazioni. Significativo che, quando la citazione si fa aperta e la cifra viene esplicitamente decrittata, nell’ultimo cioè della serie dei dipinti di Richter, “Schädel mit Kerze”, “Teschio con candela”, del 1983, appaia, accanto al solito monastico (o domestico?) lume, un cranio umano, rovesciato e dondolante sulla curva della calotta ossea, incoronato – ornamento ben poco regale – dalla chiostra dei denti scoperti.

 

Qui il gioco ritmico delle figure geometriche diventa chiaramente narrazione e il richiamo alla simbologia della candela – che è nascita, creazione, vita, intimità, raccoglimento assorto, aureola di tepore – diventa uno scherzo, uno sberleffo, una risata che fa il verso a un’ultrainflazionata convenzione, quella della “vanitas vanitatum”, del “memento mori” che, nei dipinti barocchi o già in quelli rinascimentali, assieme al teschio, l’orologio, la clessidra, l’anemone sfiorito, il bicchiere vuoto, il frutto bacato, aveva promosso la candela a marchio inconfondibile di caducità. Sulla scia di Gerhard Richter lampadoforo – come Virgilio negli inferi danteschi –, ma non necessariamente rifacendosi a lui – la luce riflessa delle candele danza così vivace da illuminare angoli e piste imprevedibili -, una trentina di artisti contemporanei, tutti operanti tra Europa e Stati Uniti, con l’eccezione di un israeliano e di un coreano, e tra gli anni Novanta e questo primo quindicennio dei Duemila, ha giocato a proprio modo col fuoco: fuoco addomesticato, sconsacrato, dissacrato, o riportato alla sua aura votiva, celebrativa, meditativa, puntando in modo alterno il raggio della propria attenzione sui motivi, entrambi ben presenti nello spettro della candela, della commemorazione o dell’invenzione. Accesa su una torta di compleanno, sull’albero di Natale o su una tomba, sul luogo di una strage, di un incidente o di un miracolo, le candela sta lì per ricordare.

 

Così la dipinge per esempio Frank Bauer, colorata e spenta su un pudding avanzato, inquadrato di scorcio tra il disordine di una tavola imbandita che, piena di tappi, briciole, bottiglie vuote, fettine di limone, evoca molto alla lontana certe sontuose nature morte francesi e olandesi gremite di frutta, fiori, calici, strumenti musicali, e allo stesso modo fa il quadro di una festa già finita. Altrimenti commemorativa è la selva di lumicini che Thomas Demand accende sui toni prevalenti del rosso in una foto di grande formato intitolata al “Tributo” offerto sul luogo dell’incidente che, in seguito al panico della massa sfilante a Duisburg nella Love parade del 2010, fece decine di vittime e centinaia di feriti. La fotografia esibisce la propria finzione: scattata in studio, corredata di pagine di giornali vuote e di ritratti senza volto, di autentico e paradossalmente immortalato ha solo la luce effimera delle candele.

 

In memoria di un’opera d’arte scomparsa e anzi mai realizzata è concepita poi l’installazione di Urs Fischer, l’artista zurighese ma di stanza a New York che alla Biennale veneziana del 2011 si fece notare per aver dato fuoco al “Ratto delle sabine” del Giambologna, o meglio, per aver lasciato ardere e sciogliere sotto gli occhi del pubblico la riproduzione in cera del celebre modello scultoreo. Allo stesso modo, al museo di Baden Baden, Fischer presenta una copia del Monumento alla Terza Internazionale, la torre colossale immaginata nel 1917 dall’artista sovietico Vladimir Tatlin per raggiungere i sogni socialisti ma rimasta un progetto sfumato, ricostruita al MoMa di New York come un complesso di luci al neon da Dan Flavin negli anni Sessanta e ora rifatta in candele di cera per mandare un’altra volta in fumo il propagandistico colosso incompiuto. Non brucia, invece, l’enorme cero che Andreas Slominski erge come il tetro relitto di una sua opera distrutta. Era un’opera temporanea del resto, una rampa rivestita di scaglie di cera su cui uno sciatore andava su e giù per animare la sportiva installazione esposta alla Serpentine Gallery di Londra nel 2005. Smontata la scena, raccolti i pezzi, Slominski ne fuse il materiale fondente in una gelida reliquia che, proprio perché spenta, si presenta come un ironico ammiccamento al valore encomiastico della candela.

 

Già quelle descritte fino a qui brillano come lampi di trovate ed escogitazioni originali. Accese in segno di memoria, si propongono come inedite invenzioni. D’altra parte è difficile tenere separati i vari aspetti, spesso contraddittori, che innescano la potenza simbolica della candela. E spesso basta cambiare l’ordine degli addendi perché venga fuori un risultato inaspettato. Come fa Ariel Schlesinger, nato a Gerusalemme meno di quarant’anni fa e trasferito a Berlino, che mette in equilibrio sulle punte acuminate di due coltelli rivolti verso l’alto una candela accesa distesa in orizzontale e aspetta che la costruzione sorretta dalla freddezza aggressiva e affilata del metallo crolli giù sgretolata dall’esilità incenerita dello stoppino. Come fa Roman Signer, che accende il lampo di un’idea come una miccia che, collegata a una bomba, si prevede dia luogo a un’esplosione.

 

O Georg Baselitz che, al solito, ribalta le sue figure, le gira sottosopra e, capovolgendo due ritratti investiti da una luce di fiamma, nell’opera dal titolo “Kerzenfriedenfreude” “Pace e gioia con candela”, ci mostra due volti grotteschi, due facce stravolte da una smorfia accentuata da ombre profonde, che non accennano a trovare nei gioia né pace. Così la candela tradisce. Saluta un anniversario e ricorda minacciosa che “ruit hora”. Festeggia un compleanno e guasta la festa. Vuole rappresentare la vita e fa balenare lo spettro della sua fine. Irradia una luce e ingigantisce le ombre. Punta in altro, trascende nel divino, poi si consuma e si smorza sulle ceneri dell’umano. Oltretutto si offre innocente ma arde lussuriosa. Risplende di un bagliore spirituale ma brucia con ardore passionale. E’ appunto un simbolo erotico, fallico, osceno nelle realizzazioni dell’artista americano Eric Fischl, che la fa divampare accanto a una coppia intenta – in barba a qualsiasi romantico tête-à-tête a lume di candela – a consumare con esuberanza un amplesso nel proprio sontuoso salone. O nel raccapricciante soprammobile di Robert Gober in cui è supportata da un portacandele rivestito di pelo virile per ricordare la diffusione in Usa del virus dell’Aids nei primi anni Novanta. O nella megalomane smisuratezza del cero eretto di Seb Koberstädt, che ne ridimensiona l’impertinente baldanza con l’ironia del titolo, “es geht nicht um dich”, “non si tratta di te”, “non sei tu il protagonista”, “stai al tuo posto”, e con il ruolo subalterno assegnato al simbolo sessuale che correda la composizione: le corna di un cervo maschio ridotte a far da reggi moccolo.

 

La sensuale carnalità della candela non era mai stata così esplicita, benché da secoli la luce calda della fiamma tremante sullo stoppino serbasse la potenzialità di risvegliare questa tentazione. Basti pensare al “Ragazzo che soffia sulla torcia” di Godfried Schalcken (1643-1706) e così, allegoricamente, si impegna a dar vigore al fuoco della sua giovane passione, o alla “Mezzana” di Gerrit van Honthorst (1592-1656), Gherardo delle Notti, il Caravaggio di Utrecht, che punta la candela accesa sul generoso décolleté della ragazza indicata al cliente di turno, o a tutte le “bordeeltje”, le scene di bordello nella pittura di genere olandese sei e settecentesca, sfavillanti di lingue di fuoco. E’ l’ennesima stupefacente capriola dell’inafferrabile fiamma ballerina, spiritello fugace, fuoco fatuo, che si fa beffe della solida coppia Amore e Morte e con un oplà rovescia il segno inesorabile di Thanatos nel cenno irresistibile di Eros. Non sarà la sua ultima metamorfosi. Luce perpetua sulla tomba e sull’altare, fiaccola funebre e chiarore nuziale, presentata come traccia di un fuoco inestinguibile la candela conosce anche un’altra affascinante modulazione, seducente come e più del raggio dell’eterno o del guizzo dell’amore.

 

Rappresenta la luce chiara, trasparente, non necessariamente casta, ma certo salda, intensa, vivida, splendente della mente. A dispetto di tutta la distruzione e del pathos che può evocare, il suo lume, quando viene acceso, sospende il tempo e i sensi, crea il silenzio, disegna un cerchio magico, induce all’introspezione. Incoraggia un atteggiamento meditativo, magari fa pensare alla morte, o alla brevità dell’amore. Ma nella sua purezza speculativa sprigiona un’energia potentissima, per quanto sommessa sia la luce della sua fiammella lanceolata. E’ quanto suggerisce l’artista serba Marina Abramovic´ che nell’“Autoritratto con candela” (2012), realizzato per la serie “With Eyes closed I see Happiness”, seduta, immobile, lo sguardo rivolto all’interno, regge assorta quel lume per praticare un esercizio mentale. E’ quanto mostra il danese Jeppe Hein che, accendendo semplicemente una face dietro a uno specchio, fa sì che chi vi si avvicini per riflettervisi, veda brillare una luce al centro della propria fronte: in mezzo agli occhi, più o meno dove Cartesio collocava la ghiandola pineale, il fulcro cruciale della coscienza, il punto di contatto tra la res cogitans e la res extensa. E’ quanto infine rappresenta la fotografa di guerra Anja Niedringhaus, unica donna ad aver vinto il premio Pulitzer per i suoi reportage dall’Afghanistan, dove peraltro cadde vittima di un attentato nel 2014. In uno dei suoi scatti più struggenti, ritrae un soldato in un campo desolato alla fine di una lunga pattuglia notturna. E’ il suo trentaquattresimo compleanno e, all’alba, finita la sua ronda, si concede una sosta per celebrare il momento: perduto su un terreno di guerra, seduto in mezzo al nulla, lontano dalla famiglia e dagli amici, si ferma, china il capo e accende accanto a sé una cerchia di piccole candeline.

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