Scrivere e parlare al tempo del web
Non siate troppo severi: l'italiano è vivo e lotta insieme a noi
I requiem per la “morte del congiuntivo”: prematuri. La pervasività dell’inglese: più un’impressione che un’effettiva realtà. I neologismi orrendi: si dimenticano presto. Un dantista in difesa della lingua che cambia
Nella classifica dei modi in cui gli italiani si sono più o meno metaforicamente scannati tra di loro nel corso della storia, un posto eminente occupano quegli scontri che non hanno fatto scorrere sangue (anche se, a dirla tutta, non ci giurerei), bensì i proverbiali fiumi di inchiostro: e cioè, i dibattiti linguistici. Da Dante “padre della lingua italiana” agli umanisti snob spregiatori del volgare, dal Bembo primo e vincente normatore della lingua della letteratura alle dure polemiche settecentesche tra intellettuali francesi e italiani, dai puristi un po’ parrucconi di primo Ottocento al Manzoni e alla sua proposta fiorentinocentrica per un italiano finalmente lingua di comunicazione unica e condivisa per tutta la nazione, dallo sprezzo dei grandi poeti dialettali verso l’italiano della tradizione letteraria sentito come lingua morta, fino alla nuova questione linguistica rilanciata da Pasolini in pieno Novecento, non c’è stato secolo, cinquantennio o più breve torno d’anni in cui gli italiani non si siano aspramente confrontati sulla lingua (scritta) da usare, sullo stato della lingua (parlata) e sulle sorti (quasi sempre periclitanti – ovvio) della medesima.
Un sorprendente interesse, che sfocia spesso in passionacce e accese diatribe, per i fatti di lingua. Le discussioni attraverso la rete
Anche oggi della situazione dell’italiano si continua a parlare, benché con alcune differenze sostanziali che dicono molto del contesto sociolinguistico in cui (finalmente) ci troviamo a centocinquant’anni dall’unificazione politica e a invece soli pochi decenni da quella, effettiva, reale, linguistica: vale a dire che le discussioni, prima che sulle pagine dei giornali o sulle riviste specializzate (o accanto ad esse), avvengono o passano o trovano nuovo slancio attraverso la rete, amplificandosi; e che ad esse partecipano non soltanto professori e scrittori e intellettuali, ma una più ampia, non sempre ben attrezzata (eufemismo), platea. I due fatti, come è naturale, sono strettamente connessi: le aumentate possibilità tecnologiche – è noto – inducono le masse a svariate modalità di interventismo verbale. Ma ciò che più conta è che tali mezzi telematici hanno permesso alla lingua nazionale di affermarsi, dopo che nel parlato, anche nell’“uso scritto di massa” (come ricorda un linguista acuto e attento al presente, Giuseppe Antonelli, nel suo ultimo libro, Un italiano vero, Rizzoli 2016). Internet, insomma, dopo la televisione di Mike Bongiorno e del maestro Manzi, come ultimo elemento linguistico unificante di massa.
Dopo la televisione di Mike Bongiorno e del maestro Manzi, internet come ultimo elemento linguistico unificante di massa
Accanto, in mezzo a questa vera e propria rivoluzione della scrittura (fateci caso, oggi tutti scriviamo tutti i giorni, in qualsiasi situazione, su qualsiasi supporto: non era mai capitato nella storia dell’uomo), si segnala in Italia oggi – complice anche il ruolo dei social network – un sorprendente interesse, che sfocia spesso in passionacce e diatribe piuttosto accese, per i fatti di lingua. A certificarlo basterà ricordare, ad esempio, il successo di una iniziativa promossa da Rai Tre col patrocinio del ministero dell’Istruzione, la Giornata ProGrammatica (con grande séguito su Twitter), o la rinnovata centralità universalmente, diffusamente riconosciuta all’Accademia della Crusca, veneranda istituzione sorta più di quattrocento anni fa e oggi assai attiva in rete e sempre più puntuale, chiara ed efficace nella divulgazione e nella consulenza linguistica (fatevi un giro sul sito e sfogliate “La Crusca per voi”, foglio periodico dedicato “alle scuole e agli amatori della lingua”. Altrettanto consigliato è il sito della Treccani).
Dicevamo però dei dibattiti. La tipica vis polemica italica trova dunque sfogo, oggidì, anche (e ancora) sui fatti di grammatica e di lingua in genere. Schiere di commentatori, di agguerriti “utenti della lingua”, di docenti di ogni ordine, di dilettanti, di cultori, di aspiranti scrittori, di lettori forti e deboli, di giornalisti, di blogger, o di anonimi naviganti dai profili culturalmente più misteriosi e sfuggenti, si danno appuntamento online (una pagina Facebook particolarmente vivace è quella del bel programma radiofonico di Radio Tre, “La lingua batte”, condotto da Giuseppe Antonelli e curato da Cristina Faloci) per lanciare provocazioni, proclami, elevare tristi lai sulla situazione corrente, tessere laudationes temporis acti (“Ah, come si parlava/scriveva meglio una volta!” – balla per altro colossale), denunciare orrori ortografici (qui si maramaldeggia con grande facilità: c’è addirittura un ironico gruppo su Facebook denominato “Scartare corteggiatori e potenziali amanti per gli errori grammaticali”), puntare il dito contro la scomparsa di questo o quell’altro fenomeno morfosintattico, stracciarsi le vesti dinnanzi all’ineluttabile avanzata dell’inglese nei verdi prati del Belpaese dove il sì suona.
Oggi tutti scriviamo tutti i giorni, in qualsiasi situazione, su qualsiasi supporto: non era mai capitato nella storia dell’uomo
Se lontani sono i tempi in cui il poeta secentista Alessandro Guidi poteva morire per un colpo apoplettico nella sua carrozza dopo aver scorto un refuso nel suo ultimo volume di versi, non si può dire che oggi le attenzioni al riguardo siano tanto meno sensibili. In particolare verso la cosiddetta “morte del congiuntivo”, da più parti pianto come il migliore e più innocente degli illustri defunti, dei nostri cari estinti. Non è certo però sugli svarioni fantozziani di cui è piena la recente storia minima italiana (dal virtuoso Lapo Elkann ai calciatori ai politici d’ogni parte), che si misura la salute del nostro prezioso modo verbale. La cui morte, ha scritto Andrea De Benedetti sulla Treccani online, sarebbe una morte solo “percepita”. Perché, in realtà, il congiuntivo sta benone. Parola, tra gli altri (si veda, di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Viva il congiuntivo!, Sperling&Kupfer 2009), di Francesco Sabatini, uno dei più importanti linguisti italiani, già presidente e ora presidente onorario della Crusca, oltre che volto noto della televisione grazie a un rubrica di consulenza linguistica (il “Pronto soccorso linguistico”) che da anni tiene sulla Rai all’interno del contenitore della domenica “Unomattina in famiglia”. Sabatini, nel suo recentissimo libro, Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso (Mondadori 2016), sostiene che il congiuntivo tutto sommato tiene, e se recede, recede in precisi contesti comunicativi, nel parlato per lo più; e se anche recedesse ancor di più, inutile stracciarsi le vesti, altre nobili lingue europee lo hanno sostanzialmente perso e il mondo non si è certo incenerito in un cumulo di fumanti macerie culturali. Un atteggiamento, questo del professore, di estremo, sobrio realismo, figlio di decenni di studi e di raffinate competenze storico-linguistiche, che gli ha attirato (fatico a trattenere le risa, qui) sonore critiche: dalla ginnasiale che ha addirittura spedito al Corriere della Sera una noiosissima, inesatta e stucchevole letterina, ai grammarnazi annidati nelle pieghe dell’internet.
Lontani i tempi in cui un poeta poteva morire di colpo apoplettico dopo aver scorto un refuso nel suo ultimo volume di versi
All’incirca gli stessi che non si danno pace di fronte a un “a me mi”, il classico, intramontabile primo passo verso il baratro cultural-linguistico cui il paese si sta evidentemente votando. E’ sempre il professor Sabatini (e non da oggi, in verità) a spiegare con pacatezza che costruzioni come questa (che si chiama frase segmentata) “esistono nella nostra lingua da mille anni, sono state usate ininterrottamente e sono presenti anche nei grandi classici”; si tratta cioè di una forma di tematizzazione, in cui “a me”, che può equivalere a “quanto a me, per quanto mi riguarda”, non è ridondanza ma rafforzamento espressivo. Insomma, “non può essere considerata un errore, è una struttura normale nei testi”, benché non in tutti, magari (meglio evitarla, allora, nei testi “rigidi”, quelli cioè più formalizzati, come quelli scientifici). Tutto come sempre dipende dalle circostanze d’uso, dal rapporto che si istituisce col destinatario del testo, dalla necessità di comprendere che non esiste un italiano monolitico ma diverse varietà di italiano, registri, codici e sottocodici da utilizzare nei modi più appropriati a seconda delle necessità, delle situazioni e delle funzioni comunicative ed espressive. Il linguista – insegna Sabatini, e con lui altri specialisti – non dirà “è giusto, è sbagliato”: piuttosto, “è opportuno, lo è meno; è efficace, lo è meno” (in questo filone, un libro di Silverio Novelli si intitola proprio: Si dice? Non si dice? Dipende, Laterza 2014). E’ stupefacente notare poi come siano proprio le giovani leve ad essere le più conservatrici (e non solo in questo, a mio avviso: a vent’anni si hanno rigidità tremende): ogni volta che a lezione propongo questa lettura di Sabatini dell’a me mi, ottengo per solito una veemente levata di scudi e nulla vale (né la mia misera autorità, né l’autorevolezza del grande cruscante) a convincerli del fatto che stanno, senza saperlo, riproponendo posizioni grammaticalmente (e comunicativamente) antiquate, passivamente recepite da una scuola (dall’obbligo in su) che, troppo spesso, altrettanto passivamente gliele ammannisce (assieme agli assurdi divieti di usare “lui” e “lei” come soggetti, o di inizare le frasi con “E” e con “Ma”. Sì, càpita ancora di trovare censure del genere). Avere vent’anni e pensare come vecchi tromboni. Se c’è di mezzo la grammatica e le questioni di lingua, con tutta evidenza, si può.
Ogni lingua si nutre, si deve nutrire di parole nuove, che si creano internamente o si prendono in prestito da altre lingue
Così come si può scendere in guerra – ecco un altro nodo che toglie i sonni agli ingenui alfieri della lingua più bella del mondo – contro gli anglicismi, e cioè l’asfissiante presenza dell’inglese nel nostro vocabolario comune. Sarà vero? L’italiano rischia di morire per colpa dell’imbastardimento costante cui è sottoposto? Dante si rivolta nella tomba? No, no, e poi no. L’italiano non è oppresso da nessun barbaro invasor, è abbastanza al sicuro nelle sue strutture portanti morfolessicali e Dante credo si agiti piuttosto per altre ragioni (senza dire che nella Commedia inserì intere terzine in una lingua straniera, il provenzale, e usò a piene mani parole provenienti da tutti i volgari italiani – il che allora significava più o meno, di nuovo, “altre lingue”). La pervasività corrompente dell’inglese è più un’impressione (ben fondata, ma circoscritta: diremo come) che un’effettiva realtà socio-lessicale. Siamo sì bombardati ogni giorno da trend e mission e spending review e Jobs act e welfare e location, ma a esaminarle (e a indagarne la diffusione) paiono piuttosto proiettili a salve. Voci sì fastidiose, quasi sempre innecessarie e facilmente traducibili, ma che, se si allarga lo sguardo, si disperdono poi nel vasto pelago lessicale dell’italiano, lasciando quasi sempre solo labili tracce. Termini della perfida Albione dominano dunque nel discorso quotidiano e pubblico, nel concreto uso dell’italiano oggi? Diamo ancora la parola a Antonelli: “Una presenza obiettiva [di anglicismi] contenuta in percentuali fisiologiche (circa il 2 per cento dei vocaboli in tutti i maggiori dizionari) viene avvertita come preoccupante perché amplificata dai mezzi di comunicazione di massa”. Un errore prospettico, insomma, che dà di nuovo l’impressione del pericolo percepito. Eppure non si può fare a meno del minaccioso apporto straniero. Ogni lingua si nutre, si deve nutrire di parole nuove, neologismi appunto che si creano internamente o si prendono in prestito da altre lingue, secondo meccanismi noti e ben funzionanti. E’ il normale processo di accrescimento lessicale cui soggiace qualsiasi sistema linguistico dall’inizio dei tempi. E che – per ricorrere alla grigia, e questa sì inespressiva, lingua della burocrazia – ne certifica l’esistenza in vita.
Il punto è: ci serve questa parola o è solo un infiocchettamento fighetto e superfluo? Va a individuare un oggetto, un’idea che mancava, o la usiamo solo per dare un fatuo lustro al nostro eloquio, per attestarci in una élite, per rivendicare l’appartenenza a un ben preciso (foss’anche millantato) status? Soccorre allora in questa diatriba un passo dello Zibaldone di Leopardi (che opportunamente cita Antonelli in un altro suo libro, Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, Mondadori 2014): “Rinunziare o sbandire una nuova parola o una sua nuova significazione, per forestiera o barbara ch’ella sia, quando la nostra lingua non abbia l’equivalente o non abbia così precisa o ricevuta in quel proprio e determinato senso, non è altro e non può esser meno che rinunziare o sbandire e trattar da barbara e illecita una nuova idea e un nuovo concetto dello spirito umano”.
Speculare, infine, alla crociata anti-inglese è l’avversione per i neologismi, ivi compresi appunto gli anglicismi e spesso loro per primi; un’avversione quasi sempre priva di reale (cioè storico, cioè scientifico) fondamento: perché, secondo questa visione, si tratta semplicemente di parole sentite come brutte. Dall’ormai datato “attimino” (si ignora però forse che l’equivalente “momentino” era usato senza scandalo alcuno da scrittori ottocenteschi) a “ciaone”, ad altre coniazioni create, di nuovo, sull’inglese (“screenshottare”, “uozzappare”, addirittura “laikare”, ecc.), che in gran parte finiranno – dopo pochi anni, o mesi, di gloria effimera – nell’oblio (modismi e occasionalismi, li chiamano i lessicografi), il plotone d’esecuzione dei neo-neopuristi appare sempre pronto a far fuoco sui nemici della grande bellezza dell’italiano (per vedere cosa essa sia davvero si scorra, appunto, La grande bellezza dell’italiano. Dante, Petrarca, Boccaccio, di Giuseppe Patota, Laterza 2015), e nemmeno disposto a concedere al condannato l’ultima sigaretta. Figuriamoci di fronte al povero “apericena”, autentico emblema dell’orrore lessicale e del disgusto che ne deriva ai palati più fini. Eppure il linguista sa che tale neoformazione, perfettamente grammaticale, rientra nel gruppo delle cosiddette parole macedonia, uno speciale tipo di parole composte. Per intenderci: parole banalissime e domestiche come “ferrotranviere” e “cantautore”; o, per l’inglese, “smog”, che risulta dall’incontro tra “smoke” e “fog” (anni fa uno dei massimi storici della lingua italiana del Novecento, Arrigo Castellani, propose di sostituire “smog” con “fubbia”, cioè fumo + nebbia. Fa ridere? Be’, non dovrebbe, è semplicemente l’esatta trasposizione in italiano del procedimento lessicale inglese, del quale quasi ogni giorno ci si riempie la bocca. Dovrebbe piacere ai nemici dell’aggressione barbara, “fubbia”…).
Il criterio di vaglio e cernita, se inteso alla lettera (parole brutte contro parole belle), rischia di risultare un po’ snobistico e puristico fuori tempo massimo, nonché intrinsecamente erroneo, perché appare di natura sterilmente estetica: dunque con buona probabilità destinato a sbattere contro i più solidi frangenti della realtà e della funzionalità linguistica. Per cui valga, come sempre nella storia è valsa, l’aurea indicazione oraziana: “si volet usus”, se l’uso – sommo giudice – lo vorrà, se i parlanti la riterranno appunto “utile”, una parola, una forma, un’espressione o una locuzione si imporrà, magari a scapito di altre. Non esistono parole orrende, ma parole così orrendamente impiegate che non “significano” più, non dicono, non apportano alcunché all’arricchimento del pensiero e dell’informazione, alla brillantezza stilistica, alla pienezza di senso. Proprio #paroleorrende è l’hashtag (di successo) col quale da qualche anno Vincenzo Ostuni raccoglie voci e modi dire aberranti, e anzi più precisamente ne denuncia l’uso e l’abuso, se non anche il contesto socioculturale, politico e economico cui rimanderebbero e in cui prolifererebbero.
Se l’uso, sommo giudice, lo vorrà, se i parlanti la riterranno “utile”, una parola, una forma si imporrà, magari a scapito di altre
Il problema allora (e in effetti chi ha lanciato la campagna di segnalazione delle parole orrende ne è ben conscio) è piuttosto il luogocomunismo linguistico, lo stereotipo, la frase fatta e vacua (che in particolare si rinvengono nell’antilingua per eccellenza, il burocratese, e nella sua versione aggiornata e se possibile ancor più abbrutita, il cosiddetto aziendalese, quello per cui ci si può impunemente esprimere così: “Siamo la società XXX, operiamo nel settore dell’outsourcing, dovendo di conseguenza gestire gli obblighi e gli oneri derivanti dalla L.626/94, vorremmo per scelte logistiche e per un’azione diretta di riscontro al fine di essere maggiormente efficienti, essere il più vicino possibile al luogo di operatività”), di cui troppo spesso si fanno pigri e pervicaci propalatori i mezzi di comunicazione, seguiti volentieri, quando non incoraggiati, dai politici e dalle istituzioni in genere. La questione verte tutta, non sulle singole parole (che potranno avere vita loro, e le nostre personali idiosincrasie poco potere avranno per determinarne il futuro e la fortuna), ma sulla lingua che non dice, inerte e ingolfata – per citare la studiosa Ornella Castellani Pollidori – di “plastismi”: quella che i francesi chiamano icasticamente lingua di legno.
Su un altro versante, più ampio e senz’altro più decisivo, la preoccupazione riguarda invece la capacità di comprensione, rielaborazione, gestione e produzione di testi corretti, efficaci e comunicativamente adeguati alle varie situazioni – capacità che, e non solo nei vituperati giovani, svariati studi condotti ad hoc rivelano essere non molto sviluppate o, se acquisite, poi perdute (lo spesso citato analfabetismo strumentale e funzionale, diffuso in vaste fasce di popolazione, che il compianto Tullio De Mauro ha denunciato per anni). Ma anche qui la situazione, mutatis mutandis, non appare così diversa rispetto a ogni singola micro-epoca passata: ogni stagione ha i suoi frutti, ogni periodo la sua percentuale di grulli. Leggete questo passo riportato da Antonelli: “Salvo i giovanetti di mente sveglia, gli altri, sebbene non stupidi addirittura, arrivano al ginnasio, passano al liceo, entrano nell’università, e finalmente anche nelle professioni, nei pubblici uffici, nel Parlamento, che non sanno scansare gli errori più ovvi d’ortografia”. Lo avrà dichiarato pieno di sdegno Augias in tivù? O Gramellini riferendosi a Di Maio e Di Battista? No. Lo ha scritto il filologo Francesco D’Ovidio. Nel 1871.
Checché se ne dica, oggi la quota di italiani che parla e scrive in maniera decente è assai più ampia rispetto a cinquanta, sessant’anni fa, quando una larga fetta di popolazione aveva ancora come lingua prima, o lingua madre, il dialetto (dialetto che, tra l’altro, è tornato ad essere in Italia una notevole fonte di espressività linguistico-lessicale. Da lombardo, ad esempio, sono grato a Maurizio Milani per aver contribuito a diffondere il verbo “ciulare” nel senso, che non è l’unico – l’arguto lettore mi capirà –, di “rubare”).
Dove va, allora, l’italiano? Rispondere è pressoché impossibile. Come spesso si ripete, la lingua, ogni lingua, è come un organismo vivente, che muta impercettibilmente ma inesorabilmente, rinnovando ogni propria cellula così come fa il nostro corpo; e a questo immane, inarrestabile cambiamento partecipa ogni giorno ciascuno di noi, dando più o meno consapevolmente un minuscolo, ma in prospettiva fondamentale, contributo. La norma linguistica e grammaticale, ha detto un altro importante storico della lingua, Luca Serianni, è come il comune senso del pudore: cambia nel tempo. Tutto a questo mondo è soggetto a mutazioni, nel tempo e nello spazio, lingua inclusa: se ne era accorto già Dante per primo, nel De Vulgari Eloquentia: “Gli uomini più sciocchi credono che in una stessa città si sia sempre usata nella vita civile una lingua immutata”.
Una lingua che cambia è una lingua sana, è una lingua in perfetta forma, che reagisce ottimamente e nel modo più normale alle sollecitazioni interne ed esterne. Insomma: l’italiano è vivo e lotta insieme a noi. Cosa accadrà tra cent’anni non lo possiamo di certo sapere noi, che dibattiamo e ci interroghiamo o soltanto cerchiamo di decrittare i segnali del nebuloso presente, di definirne con esattezza i contorni linguistici e sociolinguistici. Esercizio arduo, rischioso. Ma da tentare seppur con le dovute (scientifiche, direi) cautele, evitando gli inappropriati toni millenaristici e profetici (“L’italiano sta morendo! Tra un secolo non ci sarà più!”; mantra, anche questo, non nuovo).
Forse si può solo chiudere così come uno dei padri fondatori della disciplina che meno di cento anni fa prese il bellissimo nome di Storia della lingua italiana, Bruno Migliorini, aveva chiuso l’introduzione al suo più importante libro (non a caso: Storia della lingua italiana, Sansoni 1960), citando cioè una frase di Gino Capponi del 1869: “La lingua italiana sarà ciò che sapranno essere gli italiani”.
Ma non sappiamo se si tratti di un augurio, di un timore o di una maledizione.
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