Steno, nostro padre
Sceneggiatore e regista, genio della commedia, era nato cento anni fa. Il ricordo dei fratelli Vanzina
Tra dieci giorni avrebbe compiuto cent’anni Stefano Vanzina, in arte Steno, sceneggiatore e regista di alcuni dei più bei film del Novecento. E noi che amiamo i vecchi e gli uomini in giacca e cravatta l’avremmo festeggiato come merita un genio semplice, riservato e sicuro di sé, colto e spiritosissimo, feroce ma pieno di umanità, sferzante e tenerissimo, come i suoi film, ormai parte integrante della nostra identità e autorappresentazione. In primavera, una grande mostra, “Steno l’arte di far ridere – C’era una volta l’Italia di Steno. E c’è ancora”, organizzata alla Galleria nazionale col patrocinio della regione Lazio a cura di Marco Dionisi e Nevio De Pascali, esporrà dall’11 aprile al 5 giugno, foto, cimeli, documenti, testimonianze, video e carteggi, ci farà riscoprire la storia pubblica e privata di un artista autore di film indimenticabili come Un giorno in pretura, Un americano a Roma, Guardie e ladri, Totò cerca casa, Febbre da cavallo, e tanti altri. I suoi figli, Enrico e Carlo Vanzina, sceneggiatori e registi in proprio, hanno tirato fuori dagli archivi tanti materiali, cartoline, poesie, persino il “Diario futile”, un album “divertentissimo” che da piccoli sfogliavano avidamente, composto dal padre tra il 1941 e il 1943 con ritagli, foto, vignette, appunti e collages. “Un capolavoro assoluto non solo dell’umorismo – gelido, esilarante e tragico come lo era durante la guerra – ma dell’arte grafica, visto che precorre la pop art, in anticipo su Mimmo Rotella”. Perché Steno iniziò la sua carriera al Marc’Aurelio, la rivista satirica fondata nel 1931 che fu la palestra dell’umorismo sotto il fascismo e la nave scuola per tanti registi e sceneggiatori. “Era cresciuto nelle rubriche umoristiche del Marc’Aurelio” spiega Carlo che col fratello condivide tutto, l’amore per il padre, il cinema popolare, il successo e persino le battute, sempre in sincronia e senza ripetizioni. “E anche se era un uomo colto, che amava la pittura e aveva letto i romanzi dell’Ottocento, scelse scientemente il genere popolare, per diventare il re della commedia, iniziando a scrivere sceneggiature con Monicelli, e cavalcando tutti i comici del suo tempo”. In quarant’anni, Steno è passato dalla rivista di Macario a Totò, da Peppino De Filippo a Alberto Sordi, da Walter Chiari a Proietti, Abantantuono, Pozzetto.
“Da piccolo teneva due statuette sul comodino” avverte Enrico, “una di Chaplin e l’altra di Ridolini, i suoi eroi. E i registi che gli piacevano di più erano Chaplin e René Clair, Lubitsch e Billy Wilder, che però non incontrò mai”. Enfant prodige, Steno anche da giovane doveva essere molto elegante, con le sue giacche di tweed e le cravatte assortite, sempre composto, mingherlino e minuto, i baffetti curati, i capelli lisci di brillantina. Figlio di un giornalista del Corriere della Sera che aveva fatto fortuna in Argentina e aveva sposato un’aristocratica lombarda un po’ bislacca, sedotta sul piroscafo che lo riportava in Europa, era rimasto orfano di padre a quindici anni, e aveva conosciuto la vita grama del declassato, dividendo con la madre pensioncine improbabili e camere ammobiliate, fra nobili decaduti e militari in disarmo. Fu così che entrò nel laboratorio delle miserie italiane, del vorrei ma non posso, della mistica dell’apparire che aspira a surrogare l’essere, attingendo alla materia prima dei suoi futuri film. L’apprendistato si protrasse finché la madre, che aveva il vizio del gioco, non si arrese all’insolvenza e finì per affidare il figlio a una sorella, professoressa di matematica a Roma, che gli diede un focolare e lo iscrisse al Mamiani. Finito il liceo, il ragazzo s’iscrive a Legge, segue i corsi del Centro sperimentale e inizia subito a scrivere, a disegnare e a fare battute per il cinema. All’inizio fa il gagman per registi come Mario Mattoli che lo adora (popolarissimo autore di varietà e di film come Miseria e nobiltà, Signori si nasce), o Carlo Ludovico Bragaglia (maestro nel filone dei telefoni bianchi e del genere comico brillante) che gli lascia la sua impronta. Poi matura il sodalizio con Mario Monicelli. “La guerra aveva azzerato tutto”, racconta Carlo.
“I film li andavano a sceneggiare nei bar, perché le case erano troppo tristi. Quando iniziarono a fare un po’ di soldi, affittarono una stanza doppia all’Hotel Moderno, accanto al Quirino, dove si riunivano con Moravia, Flaiano, mettendo i copioni sul letto: c’era di tutto da Totò contro Maciste, a Le Amiche di Antonio, dal Lupo della Sila ai primi film di Tognazzi e Vianello. A volte si incasinavano, e le pagine scivolavano da un copione all’altro. Ma il cinema allora era una grande famiglia. Era una generazione che aveva perso tutto, condiviso la fame, la guerra, e pronta a ripartire, coltivava grandi affetti e un forte senso di solidarietà”. E poi c’erano i produttori, tanti, indipendenti, pieni di entusiasmo. “La storia di Steno, ma anche di Age e di Monicelli, non sarebbe stata la stessa senza l’amicizia tra autori e produttori” aggiunge Enrico.
“Dino De Laurentiis, Carlo Ponti, Goffredo Lombardi e il vecchio Angelo Rizzoli era gente che investiva e rischiava in proprio. E papà non scherzava. Sapeva che il cinema era un’industria, anche se non ha mai puntato sugli incassi. Di soldi non se ne parlava proprio: registi e produttori erano amici, vivevano in sintonia. Ricordando quegli anni, il vecchio Monicelli, che pure era un tipo molto schivo, una sera a Milano, tornando in albergo dopo una conferenza al Piccolo, s’intenerì: ‘tutto quello che ho imparato nel cinema me l’ha insegnato Steno’, mi disse. ‘Al movimento di macchina preferiva il senso dell’umorismo che in lui era grandioso e gli permetteva di far recitare gli attori come nessun altro. Mai incontrato uno sceneggiatore tanto bravo’. Insieme, Steno e Monicelli scrivono sceneggiature per Ponti, il quale, un giorno, non avendo un regista, propose ai due di farlo loro. Nacque così Totò cerca casa”. Un altro capolavoro. Il cinema di quegli anni era molto scritto, con battute fulminanti e curatissime non solo per i protagonisti, ma per la folla dei personaggi minori di contorno. “Era un’arte giovane, influenzata dal teatro”, ammette Carlo. “Oggi un attore, magari strapagato (e non fa nomi, ndr), pensa che per far ridere basti la sua faccia e trascura l’intelaiatura, il contesto, i caratteristi. Mio padre invece adorava i personaggi laterali. In Un giorno in pretura, o in Guardie e ladri ce ne sono di meravigliosi. L’ispirazione l’aveva in casa. Da bambino, quando viveva a Arona sul Lago Maggiore, aveva un cugino, Giuseppino, il quale, ogni volta che papà gli proponeva di andare al cinema, domandava: ‘El à da ride?’ e si muoveva solo se c’era da ridere”.
“Quando ebbi la fortuna di scrivere con lui Febbre da cavallo – continua Enrico – mi disse: facciamo un film pieno di caratteristi come negli anni 50, e infatti nel film troneggiano Mario Carotenuto, Adolfo Celi, Proietti, Montesano. Papà sapeva che il protagonista diventa più forte se accanto ha dei caratteristi che lo aiutano. I suoi idoli erano Panelli, Franca Valeri, Tina Pica, tutti grandi attori dalla comicità allo stato puro”. E poi c’era un attore come Alberto Sordi, che in Un giorno in pretura fa il coattone romano, Meniconi Ferdinando o Mericoni Nando… imputato per oltraggio al pudore: un giorno si tuffa nella Maranella per fare il gradasso coi suoi amichetti, e quando un vigile gli sequestra i vestiti e si dilegua, resta da solo come Dio l’ha fatto vagando per la campagna romana, finché non entra in una villa, dove è in corso una festicciola di allegri buontemponi, che gli organizzano uno scherzo con esiti esilaranti… “In realtà, non si è mai capito quale fosse il vero nome di quel personaggio del giovane romano che imperversava con gli americani a Roma”, dice Enrico. “Sordi l’azzeccò, ma il vero inventore fu l’aiuto di papà, Lucio Fulci, il quale si era ispirato a un capogruppo soprannominato Blacky Norton, un trasteverino verace che portava le comparse e parlava in finto americano”. Ma è vero che Ponti per quel ruolo avrebbe preferito Walter Chiari? “Sì. Vedere Sordi muto gli faceva schifo. Il Raul Bova di allora era Walter Chiari, anche se allora non si facevano ancora i calendari. Ma alla fine prese Sordi”.
La scena della festa con Meniconi Nando che gira nudo davanti agli ospiti inorriditi, e finisce per ritrovarsi nella stanza della vecchia, è ancora oggi esilarante… e la famosa battuta “c’è n’omo nudo sior…” ormai fa parte del lessico famigliare italiano. “E’ vero”, dice Carlo divertito. “Ma all’inizio non sai mai come la prenderà il pubblico. Puoi sperare che si identifichi in un personaggio, ma non è detto. Papà ci raccontava sempre che quando il film uscì a Roma, al cinema Corso, in piazza in Lucina, la gente aspettava con l’orologio in mano per rientrare a rivedere quell’episodio. Lo vedevano in loop”. “Papà era diviso tra l’amore per Sordi e l’amore per Totò” aggiunge Carlo. “Per sfatare un luogo comune, bisogna dire che Totò improvvisava pochissimo. Provava tutto in camerino con Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, con la spalla Mario Castellani. Era come un orologio, e papà aveva capito che con attori come lui o come Sordi non bisogna mai dare lo stop, perché nel finale c’è il guizzo imprevisto, l’improvvisazione irresistibile”. Anche per Enrico Un giorno in pretura è un capolavoro più di Un americano a Roma. “E dentro ce ne sono tanti altri, come il duetto teatrale tra il pretore e l’imputato, e il dialogo di Peppino De Filippo con la statua di Cicerone sulla difficoltà di fare il giudice. Pezzi memorabili, come la scena finale di Guardie e ladri col dialogo tra Totò e Aldo Fabrizi sulle scale, dove il ladro quasi si scusa di essere un delinquente, e la guardia si dispera per doverlo arrestare”. Nel 1952 quel film vinse il premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes e il Nastro d’argento. “Fra gli sceneggiatori c’erano anche Flaiano, Brancati e Pinelli, un gruppetto non da ridere, il che dimostra che per fare meglio servono più cervelli”. Eppure Steno, regista popolare ma sofisticato e dalla spiritosaggine leggendaria, doveva avere un ruolo chiave.
“Non solo capiva l’umorismo, ma era capace di suscitarlo. Gli attori si divertivano come pazzi. Aveva il dono della sintesi: condensare qualcosa di buffo in poche battute. I suoi miti furono due fenomeni come Marcello Marchesi e Vittorio Metz (scrittori, sceneggiatori, due geni del teatro di varietà che firmarono Totò cerca moglie e Totò sceicco, Marchesi inventò fra l’altro il famoso slogan ‘Con quella bocca puoi dire ciò che vuoi’ ndr). E poi visse sotto l’ala protettiva di Leo Longanesi e Mario Soldati, due giganti attraverso i quali iniziò a frequentare scrittori intelligenti ma buffi come Ennio Flaiano, Ercole Patti, Sandro De Feo, registi come Vittorio De Sica, oltre a sceneggiatori come Age e Scarpelli e Ettore Scola, che venivano da quel mondo di cui lui era stato un po’ il decano, e lo stesso Fellini che, sbarcato a Roma diciottenne con una cartellina di disegni, venne assunto su due piedi proprio da lui come vignettista al Marc’Aurelio”.
“Longanesi”, aggiunge Enrico, “era l’uomo più intelligente che avesse conosciuto. Quando morì si chiuse nel salone e restò da solo a piangere per cinque ore. Un giorno passò per caso nella sua città natale, e mandò a Soldati una cartolina in versi che presenteremo alla mostra: ‘Passo per caso a Bagnacavallo/ mi manca lui, mi manchi tu / cos’è la vita? / un libro giallo / o la Recherche du temps perdu?’. Purtroppo, non abbiamo mai trovato le memorie della fuga a Napoli con Longanesi e Soldati, di cui parlano gli appunti del 1944 (Sotto le stelle del 44) che ne erano il seguito e che abbiamo pubblicato con Sellerio nel 1993. Papà ci raccontava di quel viaggio, dovevano andare a trovare Malaparte e Benedetto Croce, lui faceva l’imitazione del Duce alla radio. Molto di quella fuga da Roma è stata raccontata da Mario Soldati nel Viaggio in Italia. Nel corso di quel viaggio rocambolesco, dopo l’8 settembre, mio padre ebbe un’intuizione decisiva. Immagina Longanesi, Soldati, Steno e il grande pugile Enzo Fiermonte campione di boxe che fuggono alla volta di Napoli. Sul cammino, si aggrega a loro un soldato sbandato che non mangiava da giorni, e preso dai morsi della fame, s’era stretto un fazzoletto in testa. La sera arrivano a casa di un contadino, che riconosce il pugile, viene a sapere che gli altri sono del Marc’Aurelio, e subito tira fuori polli, galline, formaggi, latte e ogni ben di Dio. I viandanti si mettono a trangugiare tutto quello che non avevano mangiato durante la guerra e se vanno a dormire. Il contadino cede il suo letto a Longanesi e a papà che erano più piccoli. Nella notte il soldato sbandato vede il contadino e gli fa: ‘Ma voi la pizza non la fate mai?’ Ecco cos’è la commedia all’italiana: il comico unito al tragico, fare ridere a partire da un argomento drammatico”. Ma Steno in quale considerazione teneva se stesso? “Era un uomo che non si sentiva nessuno, non aveva borie, non si atteggiava a grande maestro”, risponde Carlo.
“Ci ha insegnato il super low profile. Diceva che il cinema era una professione. E come un professionista, un medico, un avvocato, un ingegnere la mattina usciva di casa in giacca e cravatta per andare a girare. La critica non fu molto tenera nei suoi confronti, i suoi film venivano considerati di serie B, anche se avevano grande successo. E questa cosa fece sempre soffrire papà, anche se lui non l’ha mai detto”. “Papà considerava il lavoro fino a una certa ora, e poi si occupava di noi”, aggiunge Enrico. “Quando eravamo piccolissimi ci insegnava le parole nuove disegnando le cose, fu così per esempio che che mi insegno la parole pope. Perdeva tempo con noi, ci portava in giro, a vedere i musei. ‘Per capire il mondo dovete conoscere la pittura’, ci diceva. Ci spingeva a leggere, a studiare le lingue. E’ stato un padre moderno, molto intelligente. Non ce lo siamo mai detti a quattr’occhi, ma quando ha visto che facevamo cinema a tempo pieno, lui che non voleva che facessimo il suo lavoro temendo precarietà e insicurezza, è stato soddisfatto”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano