Gente di Trieste
Joyce nella città in cui tra pasticcerie e postriboli concepì “Ulysses” e coltivò un ambivalente rapporto con Svevo. In libreria le lettere
Dolce prediletto da Franz Joseph, il presnitz, tortiglione di pasta frolla farcito di frutta secca, in vetrina da Pirona, la celebre pasticceria di largo della Barriera Vecchia a Trieste, era guatato ogni giorno da James Joyce. Gli era impossibile non vederlo. Da lì passava per rincasare. Dal 1910 abitava al numero 32, un po’ più in là della pasticceria. Un quartierino modesto al terzo piano di uno stabile dove dal XVII secolo sussisteva la storica farmacia del dottor Giovanni Picciola, proprietario delle stanze dove s’erano sistemati James con la moglie Nora, i due bambini Giorgio e Lucia e le sorelle Joyce, Eileen e Eva. E’ una delle tante case dove Joyce abitò nei suoi quindici anni a Trieste, “città che mi è entrata nell’anima”. Non ultima abitazione, quella della Barriera Vecchia, però. Certo, più tranquilla dell’appartamento del marito della sorella, Frantisˇek Schaurek, cassiere della Zivnostenská Banka, al terzo piano di un condominio in via Sanità 2, dove si acquartieravano James, la moglie e i due figli, il fratello Stanislaus, la sorella Eileen con il marito Frantisˇek e due figlie, la cuoca Ivanka e la bambinaia Loiska. In mezzo a quel turbine casalingo Jim lavorava all’Ulysses che, già dal 1914, aveva cominciato a elaborare in via Donato Bramante 4: "Ho scritto qualcosa. Il primo episodio del mio nuovo romanzo Ulisse è scritto”.
In quei giorni Jim insegnava lingua e corrispondenza inglese alla Scuola di commercio Revoltella, una vera monada per chi stava accumulando appunti per l’Ulysses nel remescio dell’appartamento di via Sanità. Quando la canizza del parentame montava, per riprendersi Joyce usciva, a buscar calma e, come d’uso, a darsi alle carognate in bettola con inevitabile approdo, mezzo incerito, nei bordelli in Cavana, alla Chiave d’oro o nell’altro ricettacolo da puttanieri in via del Pesce, a scaricare singulti venerei dove oggi, potenza delle memorie celebratorie, una lapide perpetua le sue scopate. E averne voglia… Continuare così nella caccia ai luoghi triestini dove Joyce visse, passò, s’incazzò, diede il peggio di sé, insegnò inglese, si abbandonò allo sbevazzo, si ingolfò in risse, ciondolò per le strade brancando stramazzi nelle cantonate… E arrivare alla sua imago bronzea, a grandezza naturale, che oggi si incontra passando per il Ponterosso sul Canal Grande. E’ lui, il grande James, Jim, sbertucciato, con il passo incerto, reduce dall’aver appena fatto il pieno in una gargotta. Con il passo più leggero e le farfalle in testa, emerso dal caffè Stella polare, dove ha appena letto al fratello Stanislaus brani dal Portrait of the Artist as a Young Man. Con insaccati nelle tasche, virtuoso negromante evocatore, gualcizzati polizzini con appunti insensati in triestino, latino, gaelico, sanscrito… gerghi sprofondati e singulti di memoria… “Haud ignarus malorum…”, imprecisa citazione dall’Eneide…; “For fools rush in where angels fear to tread”, da Pope…; “E con gli occhi seguì una vetturetta…”, da una ballata popolare di Samuel Tover… Magari la minuta d’una lettera mai spedita in cui, elegiaco gemebondo, perora soccorso per la sua persistente mancanza di denaro. Un universo di cui la pioggia delle sue lettere altro non è che la sinopia di una esistenza: riproposta in James Joyce, Lettere e saggi, a cura di Enrico Terrinoni, ed. Il Saggiatore, 1.100 pp., 75 euro.
“Dunque, caro Signor Schmitz, se ghe xe qualche d’un de Sua famiglia che viaggia per ste parti la mi faria un regalo portando nel fagotto che non xe pesante gnianche per un omo poiché, La mi capisse ze pien de carte che mi go scritto pulido, co la penna e qualche volta anche col ‘bleistiff’ [matita] quando iera la pena. Ma ocio a no sbregar el lastico, poiché allora nasarà confusion fra le carte. El meio sarà de cior la valigia che se pol serar colla ciave che nissun pol verzer. Ne ghe xe tante de ste trappole da vender da ‘Greintz Neffen’ rente al Piccolo che passa mio fradel el Professore della ‘Berlitz-Cul’. Ogni modo La mi scriva un per de parole, dai, come la magnemo. Revoltella me scritto disendo che xe muli da esaminar per 5 fliche [corone] ognidun e dopo i xe dottori de Rivoltella e chi mi vegno là per dar lori l’aufgabe [compiti] per inglese a 5 fliche, ma non go risposto perché iera una monada e po la marca me vegnaria costar co la carta tre fliche come che xe val 10 coi bori e mi avanzaria do fliche par cior el treno e magnar e bever tre giorni, cossa La vol che sia. Saluti cordiali e scusi per il cervelletto esaurito; si diverte un po’ ogni tanto”. Lettera celeberrima in triestino di Joyce, inviata da Parigi a Trieste, il 5 gennaio 1921, destinatario Hector Schmitz, Italo Svevo ovviamente, affinché lo aiuti a recuperare un brogliaccio lasciato nell’ultimo appartamento occupato a Trieste. Nientemeno che una messe di appunti dell’Ulysses.
Svevo partì con il fagotto cartaceo. “Mi incaricai io di portargli da Trieste a Parigi le annotazioni per l’ultimo episodio. Si trattava di vari chilogrammi di carta sciolta che io non osai di toccare per non alterarne l’ordine che mi pareva labile”. Joyce si era recato a Parigi invitato da Ezra Pound. Sembrava dover essere una toccata e fuga. Invece, già noto nei circuiti letterari internazionali, Joyce non si staccò dal “clima letterario” della Ville Lumière. La sua situazione economica sarebbe migliorata grazie ai generosi interventi di Harriet Shaw Weaver, ricca ereditiera e provvidenziale mecenate. Poi storia nota: Ulysses uscì il 2 febbraio 1922 presso la libreria Shakespeare & Co. di proprietà dell’americana Sylvia Beach. Joyce non tornò mai più a Trieste. Joyce e Schmitz si erano conosciuti nel marzo 1907. In quell’anno, dopo un breve periodo, Joyce lascia le lezioni alla Berlitz School per dedicarsi all’insegnamento privato. Hector Schmitz voleva sistemare il proprio inglese. La fabbrica di vernici sottomarine Veneziani, di cui era direttore, aveva aperto una filiale in Inghilterra, e Schmitz vi si doveva recare periodicamente e padroneggiare la lingua. In quello stesso anno Joyce scrive The Dead, l’ultimo racconto di Dubliners, pubblica la raccolta di versi Chamber Music e riscrive completamente Stephen Hero che assumerà il titolo A Portrait of the Artist as a Young Man. E inizia a collaborare al quotidiano triestino Piccolo della sera: il primo articolo uscì il 22 maggio 1907, dedicato agli indipendentisti repubblicani irlandesi, cui seguirono altri d’analogo argomento, indice dell’attenzione che Joyce aveva per le vicende politiche del suo paese.
Molti anni dopo la figlia di Schmitz, Letizia Svevo Fonda Savio, avrebbe rievocato quei giorni: “Joyce… lo ricordo alto, magro, con grandi occhi azzurri, indaganti oltre le lenti… Cominciò a venire a villa Veneziani a dar lezioni di inglese a mio padre e a mia madre…”. E, da orgogliosa figlia, in un eccesso di particolare partecipazione: “Credo si sia ispirato a mio padre per il personaggio di Bloom nell’Ulysses… e i capelli di mia madre, Livia Veneziani, gli ricordavano il fiume biondo che passa per Dublino. I miei genitori erano entusiasti di Joyce ed ebbe inizio una grande amicizia”. Ma come succede nelle città dove quasi tutti si conoscono, e i personaggi di rilievo sono esplorati con la lente fin nei minimi dettagli, aumentando di fatto ciarle e ciacolaggio, vi fu subito chi si incaricò di rimisurare la memoria della figlia di Svevo: “Il rapporto che Svevo aveva con Joyce era ambivalente. Del resto pur stimandosi molto reciprocamente, Joyce non scrisse mai su Svevo e si rifiutò anche di scrivere la prefazione all’edizione inglese di Senilità… Nella lettera che Joyce inviò nel 1932 al fratello Stanislaus precisa ‘…le mie relazioni con Schmitz erano piuttosto formali. Non ho mai varcato la sua soglia se non come insegnante a pagamento, e sua moglie quando incontrava Nora per strada faceva finta di non vederla’… Diceva che non poteva frequentare il loro ambiente perché non aveva abiti adatti… però le andava bene sfruttarla come stiratrice…”.
Tra le lettere di Joyce che Svevo conservò gelosemente salta fuori una cartolina. Per la sua natura tradisce una intrinseca confidenza, una comunanza letteraria, almeno. Più che cartolina è cortocircuito. Raffigura un pescatore seduto su una bitta con la didascalia “The Oldest Claddagh Fisherman”. Che sarebbe poi il più vecchio pescatore di Claddagh, la spiaggia sassosa poco lontana da Galway, al fondo dell’omonima baia volta verso l’oceano, protetta dalle isole Aran. Il più vecchio pescatore di Claddagh, al tempo, doveva essere l’unica “artisticità” degna d’essere trasformata in una cartolina per nobilitare quel luogo sperduto d’Irlanda, ricordato soltanto dai vortici provenienti dall’Atlantico. La cartolina parte da Galway il 26 luglio 1912. E’ indirizzata a Trieste (Austria), a un certo signor Hector Schmitz seguito dalla scappellata dell’Esquire – titolo di cortesia usato negli indirizzi – “presso la Fabbrica Veneziani Chiarbola Superiore”: “un universo” per chi ha notizia di vernici sottomarine, di operai assunti negli orfanotrofi – i più mona, perché non insidiassero i segreti di produzione della celeberrima protezione antialghe per la chiglia delle navi – di ultime sigarette, di senilità sul molo del porto triestino, di Anna Livia Plurabelle… La firma è di certo signor Stephen Dedalus, che civettando con se stesso e con l’immagine della cartolina, il più vecchio pescatore di Claddagh, scrive: “A portrait of the artist as an old man”.
La cartolina è un’intesa, per chi ovviamente sa le cose. Inviata intanto per esorcizzare la sorda rabbia di Stephen che, tornato per qualche tempo nell’amata e odiata madrepatria – sarà l’ultimo soggiorno – tentava di sciogliere nodi per arrivare alla pubblicazione del suo Dubliners, rifiutato dagli editori. Una cartolina come saluto decrittabile in esclusiva da due amici: James Joyce e Italo Svevo. Soltanto il destinatario poteva capire la forza allusiva del messaggio. Svevo sapeva. Era al corrente di cosa stesse combinando Joyce, intento a rielaborare l’autobiografia di Stephen Dedalus, quel Ritratto dell’artista da giovane iniziato nel 1907 e portato a termine nel 1914. E andando più nel profondo cogliere l’indicazione al vecchio pescatore – “le sardine e le scardole tutte d’argento nei panieri dei pescatori il vecchio Luigi vicino ai cento” – come ursinopia di un passo di Ulysses a cui, proprio in quel tempo, Joyce stava lavorando. Senza trascurare un omaggio di sguincio a Senilità di Svevo. D’altra parte, dopo la “scoperta” di Svevo, sarà proprio Joyce a suggerire per l’edizione inglese di Senilità (pubblicata a Londra da Putman il 12 settembre 1932) il titolo As a Man Grows Older, Quando un uomo invecchia, ma anche matura.
Ettore Schmitz, con circospetta timidezza, a un certo punto aveva confessato al suo insegnante di inglese, che lo sapeva scrittore, il “vizio segreto”, passandogli due libri stampati in proprio. Erano Senilità e Una vita. E quel gesto fu scintilla di un fatto raro e misterioso che finalmente sconvolse la vita di uno scrittore rassegnato al silenzio e all’anonimato. Un artista riconobbe un altro artista. Joyce segnala l’opera di Svevo – che intanto sta scrivendo La coscienza di Zeno – ai francesi Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux. Svevo è tradotto in Francia. Poi, finalmente, per merito di Sergio Solmi, Eugenio Montale e Roberto Bazlen anche gli italiani, dopo aver letto il saggio Omaggio a Svevo, pubblicato sull’Esame nel dicembre 1925, si accorgono dello scrittore triestino. Un irlandese venticinquenne aveva scoperto il talento dell’allievo quarantaseienne. Avvenne in una stanza della villa di Servola, di proprietà di Gioachino e Olga Veneziani, genitori di Livia, sposa di Ettore Schmitz, impegnato nell’azienda familiare. Svevo confessò il misfatto: “Anch’io sono uno scrittore”. L’insegnante di inglese aveva letto ai suoi amici The Dead, l’ultimo racconto dell’ancora inedito Dubliners. Livia, emozionata, raccolse nel giardino alcune rose e le offrì a Joyce. L’omaggio fu ricambiato. Diventerà Anna Livia Plurabelle in Finnegans Wake.
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