Frida dei ritratti
Kahlo, la pittrice che abitava nei suoi quadri e sembrava una dea azteca. La femminilità ferita e l’ostensione del corpo ne hanno fatto un’icona pop. Una mostra a Bologna
Una dea azteca. Così apparve a Carlos Fuentes che la vide alla prima del Parsifal di Wagner a Città del Messico. Era appena iniziata l’ouverture quando un fremito di stupore dal fondo del teatro zittì l’orchestra e tutti si voltarono verso i palchi per guardare l’ingresso in sala di Frida Kahlo e Diego Rivera. In abito vistosamente colorato e con monili tintinnanti che le davano una sonorità regale, lei era una visione potenziata dalla consapevolezza comune che tessuti e gioielli davano vita, armonia e bellezza a un corpo disabile e martoriato quasi sempre costretto a rimanere immobile.
C’è un disegno abbastanza impressionante che mostra in sezione, come se fosse un giocattolo rotto, un manichino vestito da Frida, sorretto da un’asta interna simile alla “colonna spezzata” del celebre, omonimo quadro del 1944, dove lei si è dipinta come un san Sebastiano trafitto e tenuto insieme da un busto. Doveva sentirsi così. Era stata una bambina poliomielitica vitalissima e nel 1925 – diciottenne – le era capitato l’incidente mostruoso che l’aveva lasciata con la spina dorsale rotta in tre punti e con il bacino infilzato dal corrimano di un tram. La lettura dell’elenco degli interventi chirurgici sopportati nel corso della vita – morì a soli 47 anni – è quasi insostenibile.
Frida Khalo ha lasciato più di 140 opere di cui almeno un terzo sono autoritratti; chi scherza proclamandola così vicina alla sensibilità contemporanea perché regina del selfie, trascura il fatto che si tratta di opere di complessa (“perfino difficile”, puntualizza la storica dell’arte Gioia Mori) lettura iconografica. Ma certamente Frida, che da bambina aveva posato per il padre fotografo e che fu ripetutamente immortalata come una celebrity, aveva con l’obiettivo un feeling assoluto. E molto ha lavorato su di sé davanti allo specchio.
E’ ancora Carlos Fuentes a suggerire che si vestiva per dipingere, ma anche il contrario: adeguava la sua immagine reale a quella pittorica, creava se stessa come opera d’arte. Vivere e dipingere erano la stessa cosa. Frida abitava nei suoi quadri, ci stava dentro un po’ come il sognatore di Kurosawa. La differenza sostanziale è che l’arte era la sua realtà, lei non dipingeva sogni, come cercò di spiegare negando di potersi considerare surrealista. Anche se dei surrealisti aveva abilmente cavalcato il movimento internazionale, partecipando nel 1939 a una mostra a Parigi, organizzata da Breton che trovò orrendo come tutto il suo gruppo, salvando soltanto Marcel Duchamp e la sua compagna americana. Quella mostra però valse l’acquisizione di un suo quadro al Louvre, unica artista messicana vivente, il famoso abito Madame Rivera creato da Elsa Schiaparelli e una copertina di Vogue.
Sì, forse è proprio nella straordinaria naturalezza della dimensione creativa, l’essere contemporaneamente dentro e fuori del quadro, la forza indomabile di Frida che ha colonizzato potentemente la nostra immaginazione. Chioma corvina intrecciata con nastri e fiori tropicali, sopracciglia nerissime unite ad ali di gabbiano, scelse di essere messicana. In realtà era meticcia e aveva ereditato quelle sopracciglia, diventate il suo emblema (basta tracciarne il segno per capire che stiamo parlando di lei), non dalla madre india a metà, ma dalla nonna paterna, ebrea tedesca d’origine ungherese. Nata nel 1907, per far coincidere la sua vita con l’epos del nuovo Messico, spostò la sua data di nascita al 1910, anno d’inizio della rivoluzione. Sulle pareti del patio di Casa Azul a Coyoacàn, oggi Museo Kahlo, è scritto: “Frida y Diego vivieron en esta casa 1929-1954”. E anche questo non corrisponde al vero, come si sa la loro fu una relazione burrascosa, fatta di tradimenti e separazioni, divorzio e riconciliazione, anche nel matrimonio vissero divisi: tutto è stato proprio da lei dipinto e raccontato, ma Casa Azul è il mondo dei desideri e non c’è dubbio che lei si volle in simbiosi con Rivera.
Da tempo, il mito ha trasformato Kahlo in icona pop. Oggi Diego Rivera che le fu maestro, e che aveva vent’anni più di lei, è un grande muralista messicano, Frida è un’artista globale. Sotheby’s ha recentemente venduto all’asta – per un milione e 812mila dollari, che non è la sua quotazione migliore – un quadro che si riteneva perduto, La ragazza con la collana: donato da Diego Rivera a Lola Alvarez Bravo, questo dipinto di Frida era rimasto chiuso per sessant’anni in una stanza della casa di Lola a San Francisco. Le mostre continuano a fare il giro del pianeta: vengono da un’esposizione a Sidney parte delle opere ora visibili a Bologna a Palazzo Albergati fino al 26 marzo (“La collezione Gelman: arte messicana del XX secolo”. Con opere di Frida Khalo, Diego Rivera, Rufino Tamayo, María Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Angel Zárraga, a cura di Gioia Mori, catalogo Skira). Mentre al Museo Dalí di St. Petersburg, in Florida, va avanti fino a metà aprile l’esposizione di 60 opere, focalizzata sull’eccentrica costruzione del sé che accomuna Khalo e Dalí. Gli Orti botanici di Tuckson in Arizona ospitano invece fino a fine maggio una ricostruzione di Casa Azul e dei giardini dove l’artista lavorava: la stessa che lo scorso anno, a New York, ha avuto mezzo milione di visitatori. In Italia, la cometa Kahlo attraversa il cielo almeno una volta l’anno: nel 2014 con la grande esposizione alle Scuderie del Quirinale, nel 2015 al Palazzo Ducale di Genova con la mostra centrata sul rapporto con Diego Rivera, nel 2016-2017 la collezione Gelman a Bologna, mentre nel 2018 Frida tornerà al Mudec a Milano. Ogni anno c’è almeno una grande collezione di moda che le rende omaggio, ultima in ordine di tempo quella Osman Yousefzada.
A Bologna, è di Frida metà della superficie espositiva con una ventina di opere, con la ricostruzione della camera da letto dove dipingeva sdraiata, guardandosi nello specchio che la madre le aveva fatto montare sul baldacchino, e con una raccolta di capi del suo guardaroba e di abiti stile Kahlo, disegnati da Marras, Lacroix, Ferré, Curiel, Valentino. Insieme a foto e video di grandi fotografi come Edward Weston, Leo Matiz, Gisèle Freund, Nickolas Muray che con lei ebbe una relazione durata dieci anni e che le scattò le più belle immagini a colori, e Lucienne Bloch, muralista e figlia del compositore Ernest, alla quale la galleria bolognese Ono Arte Contemporanea (via Santa Margherita, 10) dedica fino al 26 febbraio un’altra piccola mostra, con 45 fotografie degli anni Trenta che documentano la sua affettuosa amicizia con Frida.
A Palazzo Albergati diverse opere rimandano alla relazione tra Kahlo e Rivera. Lui è presente con quadri importanti degli anni Trenta e Quaranta come Paesaggio con cactus, Girasoli, Venditore di calle e con un voluttuoso ritratto di Cristina Kahlo, la sorella di Frida che fu tra le sue innumerevoli amanti. Di lei, ci sono l’Autoritratto come Tehuana, con Diego nei suoi pensieri dipinto in fronte, e il celebre L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego e il signor Xolotl, del 1949, quando Frida ha ormai sopportato ogni genere di tradimento ed è rassegnata ad accettare la sua indistruttibile ossessione amorosa, quasi misticamente trasfigurata: si rappresenta madre di un Diego bambino che stringe tra le braccia. L’uomo adulto di cui rimase sempre innamorata, quello con la “testa di tipo asiatico” e con “bocca di Buddha dalle labbra carnose” lo si trova nel Ritratto di Diego del 1937.
La documentazione fotografica restituisce i due nella loro semplice corporeità: un uomo gigantesco e panciuto e una ragazza minuta e fragile, l’elefante e la colomba del lessico familiare, una creatura di Rabelais e un personaggio di Marquez, nella sintesi efficace della biografa Hayden Herrera (l’ultima edizione italiana della sua Frida, che ha ispirato il film con Salma Hayek, è di Neri Pozza). Molto divertente è vedere come lui e lei dipinsero lo stesso soggetto: Natasha Gelman, per esempio, moglie del produttore cinematografico e collezionista ebreo russo che fu il committente di entrambi. Diego la ritrae adagiata su un divano coperto di calle, con un abito di seta bianco che avvolge il suo corpo nella stessa affusolata forma del fiore, e con le lunghe gambe nude che sbucano dallo spacco vertiginoso come pistilli vibranti dalle corolle. La Natasha di Frida è invece tutta in un primo piano da miniaturista (30 centimetri per 23): una signora con il collo affondato in una pelliccetta e boccoli biondi fissati sul capo, un po’ Evita Peron e un po’ starlette anni Quaranta.
Ma perché Frida, così popolare, ha superato Diego che era considerato un vero genio? “I due sono artisti diversi e incomparabili – osserva Gioia Mori, la storica dell’arte che ha curato la mostra della Collezione Gelman – Quella di Frida è una pittura personale, racconta l’ossessione d’amore, la sofferenza del corpo o le pene dell’anima, tocca corde intime più che storiche e questo la rende certamente più vicina al pubblico globale. Con i suoi cicli di argomento storico ed epico, Rivera, che era un artista di formazione europea, oggi appare più legato al Messico. Oppure, se pensiamo a opere realizzate negli Stati Uniti, come l’epopea dell’industria automobilistica a Detroit o L’uomo al crocevia del Rockefeller Center di New York, che come è noto fu distrutto, vediamo un pittore ideologico…”.
Eppure anche Frida fu pienamente comunista, visse in quel groviglio di artistica esaltazione e umana ferocia che fece da incubatrice all’assassinio di Trotsky. Frida pianse la morte di Stalin, pur essendo stata amante di Trotsky nel 1937 – su richiesta di Rivera – l’aveva ospitato a Coyoacàn, nella Casa Azul, con la moglie Natalja. A Trotsky aveva dedicato e regalato un vezzoso autoritratto in vesti di primadonna, al centro di un sipario aperto. A distanza di qualche tempo, degli ospiti russi Frida non conservava esattamente un buon ricordo, mentre nel 1940 Rivera aveva già rotto con Trotsky e, dopo il fallito attentato che coinvolse il muralista Siqueiros, era dovuto fuggire dal Messico. Tre mesi dopo, quando Ramon Mercader portò a termine la missione, conficcando una piccozza nel cranio del vecchio rivoluzionario, Diego si trovava negli Stati Uniti e Frida finì tra gli indiziati perché il sicario era stato a cena a casa sua… Per capire in quale clima di orrore tutto questo si fosse consumato basterà dire che dopo la guerra, per farsi riammettere nel Partito comunista, Rivera arrivò a dire di aver trovato rifugio a Trotsky in Messico proprio per farlo ammazzare.
Fonte d’ispirazione continua per illustratori e artisti del fumetto, in questa stagione, Khalo è nelle librerie italiane come soggetto di lavori diversi. C’è Frida di Sébastien Perez e Benjamin Lacombe, illustratore francese amato da Tim Burton, pubblicato da Rizzoli. E nelle sue tavole vediamo Casa Azul come organismo vivente, il suo giardino come una giungla lussureggiante piena di animali, la terra del Messico come un deserto vivido di cespugli rosso sangue, e l’incidente al quale sopravvive la giovane Kahlo come il momento della sua rinascita: l’artista esce dal corpo sventrato della ragazza in una festa di colori violenta e abbagliante, che rimanda ai punti cardinali della tradizione Maya, mentre le ferite liberano farfalle, simboli di resurrezione nel folklore messicano… La Frida di Lacombe è una creatura sciamanica, una pittrice dove nulla è infantile o ingenuo e tutto restituisce significati spirituali profondi.
E’ un’autobiografia con la voce dell’artista in ironico dialogo con la Morte, la Frida di Vanna Vinci per 24 Ore Cultura, “operetta amorale a fumetti” dove la Falciatrice con cui Khalo ha ingaggiato una sfida permanente non può essere quella di Amleto o quella di Bergman. E’ una Morte messicana, di carta e di zucchero, veste cappelli con frange e piume da vicereame spagnolo; è “la pelona” – come la chiama Frida quando irride la Morte nei diari e nelle lettere. Dura e in bianco e nero è invece la Krazy Kahlo di Marco Corona per 001 Edizioni, versione espansa di un precedente lavoro a fumetti, dove troviamo la ragazza eccessiva, quella che beve e parla da bad girl, quella che va a letto con uomini e donne e che decora i suoi corsetti di gesso, l’artista sofferente in crisi d’astinenza da morfina con le sue visioni grandiose. Chi volesse infine ricostruire il profilo della grande seduttrice libera e appassionata, audace e irruenta, può trovarlo nel libro di Valeria Arnaldi Gli amori di Frida Khalo, arricchito da un centinaio di fotografie e pubblicato da Red Star Press.
A ognuno la sua Khalo. Non si diventa leggenda, se la porta d’ingresso al tuo mondo creativo non è accessibile con più chiavi. E Frida fu certamente un po’ di tutto questo, ma soprattutto fu in tremendo anticipo sui tempi. Nel racconto della femminilità ferita: il tema pittorico sconvolgente dei suoi aborti (voleva disperante essere madre e, a causa dell’incidente che le aveva rotto il bacino, non poteva) è del 1932. E in un’ostensione del corpo, dell’erotismo e del dolore da rock star contemporanea. “Frida interessa moltissimo i giovani – dice Gioia Mori – per la sincerità assoluta della sua vita da guerriera, che tutto espone senza nascondere nulla”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano