Non c'è banchiere che tenga
Prima c’erano i buoni e i cattivi, poi la crisi ha sconvolto i conti degli uni e degli altri. La gens nova
Questo articolo comincia con una domanda e finisce senza una risposta. Ogni rimostranza dei lettori, dunque, è assolutamente ben accetta. Il fatto è che si occupa di un soggetto di per sé enigmatico, molto difficile da decifrare, oggi ancor più di prima: il banchiere o meglio ancora il mestiere del banchiere. Non si tratta di un saggio, men che meno di un trattatello teorico; al contrario, partiamo dalla cronaca e da persone concrete, con nome, cognome e volto ben riconoscibili. La domanda è la seguente: come mai Fabrizio Viola non era in grado di portare in porto il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, mentre oggi è la persona giusta per ripescare e rilanciare la Popolare di Vicenza?
Romano, 59 anni, laurea alla Bocconi, Viola ha trascorso una vita nelle banche popolari (Milano, Reggio Emilia, la stessa Vicenza) finché nel 2012 non viene chiamato a sbrogliare la matassa purulenta del Montepaschi. E’ il 12 gennaio. Lo scandalo vero e proprio, quello per il quale è appena cominciato il processo che vede alla sbarra l’ex presidente Giuseppe Mussari e gli allora amministratori, scoppierà un anno dopo. Ma è chiaro che Viola deve affrontare un’assoluta emergenza. Il Monte ha chiuso il 2011 con un buco di 4,7 miliardi di euro, si rivelano inutili gli imbellettamenti finanziari che verranno allo scoperto nei mesi successivi, bisogna aumentare il capitale e per gestire operazioni del genere ci vuole gente che riscuota la fiducia non solo degli azionisti (al primo posto allora era la Fondazione che si svenerà inutilmente) ma dei risparmiatori, alias il mitico mercato. Viola sembra l’uomo giusto. Ad aprile verrà affiancato da Alessandro Profumo, nominato presidente, e gli aumenti di capitale saranno due, come gli scioperi generali per bloccare il piano di ristrutturazione. La cura Viola-Profumo inietta un ricostituente da otto miliardi, riesce a rimettere in sesto i conti operativi della banca che torna a fare utili, ma non sistema i valori patrimoniali, nonostante i prestiti pubblici con i Monti bond. Nel 2014 il Montepaschi fallisce il primo stress test della Bce: non ha abbastanza capitale per superare una emergenza estrema come quella ipotizzata dai tecnici di Francoforte, un caso limite se vogliamo, ma dopo il 2008 che cosa non lo è? La soglia del crac che un tempo sembrava lontana fino all’impossibile, si è fatta sempre più vicina.
L’altalena di Fabrizio Viola: giudicato incapace di portare in salvo il Montepaschi, diventa l’uomo giusto per la Pop Vicenza
Ci sono banche troppo grandi per fallire, il Montepaschi non lo è, semmai è troppo radicato in un territorio politicamente sensibile e non solo a sinistra. Viola trascorre due anni sull’orlo di una crisi di nervi, confessa che l’unico futuro per Mps è venire acquistato da una banca più solida, ma nessuno lo vuole non perché perda quattrini, ma perché ha sulle spalle una montagna di prestiti deteriorati, ben 47 miliardi di euro, molti dei quali difficilmente recuperabili. E’ Profumo a dire che c’è del marcio non solo in Danimarca, ma anche a Siena; un fondo oscuro, così lo chiama. Quando il 29 luglio 2016 fallisce anche il secondo stress test, Viola presenta la sua “Soluzione strutturale e definitiva per l’attuale portafoglio in sofferenza". E’ incauto nell’usare l’aggettivo definitivo che segna in effetti la sua defenestrazione.
Matteo Renzi aveva in serbo un’idea diversa maturata durante un incontro conviviale con Jamie Dimon, il big boss di JP Morgan. Si rivela un clamoroso flop, non arriva nessun investitore chiave, né straniero né (men che mai) italiano, né arabo, né russo, né cinese e tanto meno americano. Ma qui non vogliamo entrare nel merito già analizzato in più occasioni e da più attrezzati analisti. Viola riceve una telefonata imbarazzatissima del ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, azionista numero uno con il 4 per cento del capitale. Dice che gli tocca fare da portaparola, un “relata refero” (per conto di Renzi, di JP Morgan, di Mediobanca che l’affianca) che si trasforma in un vero calcio nel fondo schiena. Il 14 settembre Viola lascia Siena con l’amaro in bocca. Il 6 dicembre diventa amministratore delegato della Popolare di Vicenza, chiamato dall’azionista unico, il
Il carismatico Mattioli spiegava che le banche sono collocate ai crocicchi dell’economia non come briganti ma come vigili del traffico
fondo Atlante che fa capo all’economista Alessandro Penati. Un risarcimento dovuto? Viola non è stato cacciato perché ha fatto male il proprio mestiere o perché ha rovinato il Montepaschi. Al suo posto arriva Marco Morelli, incaricato di portare avanti un “salvataggio di mercato” che non è mai decollato; probabilmente fallito prima ancora che il No al referendum segnasse la caduta di Renzi. Non è colpa di Morelli, il quale è rimasto a gestire anche il “salvataggio di stato”. Banchiere per tutte le stagioni? Anche lui romano, non ha risciacquato i panni alla Bocconi, ma alla Luiss, ha fatto più esperienza nelle banche d’affari americane, alla stessa JP Morgan (forse per questo è stato scelto) e alla Merrill Lynch (ora in Bank of America). Ha trascorso ben quattro anni (dal 2006 al 2010) in posizioni apicali nello stesso Montepaschi prima di passare in Intesa Sanpaolo (è forse questa l’altro biglietto da visita importate visto il ruolo sistemico che svolge la banca fondata da Giovanni Bazoli). Il Tesoro ha smentito le voci di un suo cambiamento, certo, mollare anche lui sarebbe un segno di totale confusione da parte del ministro.
Carriere contro, patronage contro, politici contro. Stiamo entrando in una palude che ingoia il mestiere di banchiere. Secondo Luigi Einaudi, liberale di vecchia scuola, “le banche non sono fatte per pagare stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un saldo utile; ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto col servire nel miglior modo il pubblico”. Diceva così nel 1945 e in pieno miracolo economico, nel 1962, Raffaele Mattioli, carismatico capo della Banca Commerciale, spiegava che “le banche sono collocate ai crocicchi dell’economia, ma non come briganti in agguato, bensì come i vigili che regolano e distribuiscono il traffico”. Di tutt’altro tenore Lloyd Blankfein, big boss di Goldman Sachs: l’otto novembre 2009 in una intervista al Financial Times si confessa: “Io sono solo un banchiere che fa il lavoro di Dio”.
C’è un abisso tra il grand commis del capitale e la hybris della Goldman Sachs. Eppure il mestiere si esercita oscillando tra quei due poli in mezzo ai quali se ne inserisce un terzo che resta fondamentale anche nell’èra in cui il mercato ha imposto la propria egemonia: cioè quello di argentiere del sovrano. Dove la sovranità è nelle mani di un autocrate, il banchiere serve il principe, dove è nelle mani del popolo serve i partiti, i gruppi, i movimenti che ne intermediano e interpretano la volontà. Lo stesso Mattioli riconosceva questa natura ibrida se non doppia che nutre in seno una componente sulfurea. E’, come scrisse citando il Faust di Goethe, “Mefistofele nella cantina di Auerbach” che offre ogni tipo di vino: “Libera scelta per tutti”. Nell’epoca della globalizzazione finanziaria, dopo il big bang degli anni Ottanta quella cantina è diventata ancor più pantagruelica e “la difficile arte del banchiere”, così la chiamava Einaudi, si è fatta sempre più astratta, spesso tortuosa e indecifrabile al colto e all’inclita come un quadro di Jackson Pollock. Ogni tentativo di portare punti, linee e superfici in una cornice razionale è fallito. E la grande crisi cominciata nel 2008 ha rimesso tutto in discussione.
L’Italia del Dopoguerra, quando la maggior parte delle banche era dello stato e faceva capo al governo, direttamente come la Bnl o attraverso l’Iri come la Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma, mentre le altre rispondevano ai partiti (alla Dc la maggior parte delle popolari, a socialisti e comunisti quelle cooperative), non ha visto al comando dei grigi burocrati. Al contrario. Se pensiamo a Mattioli o a Enrico Cuccia, campioni della finanza laico-borghese, a Giovanni Bazoli che diventa, grazie a Beniamino Andreatta, paladino della finanza cattolico-lombarda, a Cesare Geronzi tessitore trasversale del sistema romano, se ricordiamo un personaggio forte e controverso come Ferdinando Ventriglia, uomo della Dc meridionale, per non parlare delle figure più esplosive alla Michele Sindona, il quale nel 1974 controllava metà della Borsa, lodato da Cuccia e da Guido Carli, non solo da Giulio Andreotti, prima di passare mani e piedi con la mafia. Persino Roberto Calvi, il ragioniere dagli occhi di ghiaccio, “il banchiere di Dio”, aveva dimostrato un certo talento nel saltare dai salvadanai della curia milanese con il Banco Ambrosiano al Corriere della Sera per conto della loggia P2. Nei modi, nelle forme, con gli obiettivi più diversi, anzi contrastanti, la banca è stata la palestra dei più clamorosi e importanti scontri del potere politico-economico. Dove la politica era al primo posto.
La nuova leva cresciuta negli anni Ottanta e arrivata al comando con le privatizzazionei nel decennio successivo, vuole distinguersi scegliendo il mercato come contraltare non tanto allo stato o alla politica, ma al primato dei partiti. I McKinsey boys non s’accontentano di imparare il mestiere a bottega, passano per le grandi società di consulenza, diventano manager, pensano che la banca sia una impresa da guidare con efficienza, per fare profitti, non gestire rendite. Alessandro Profumo e Corrado Passera sono le due personalità di spicco, ma con loro vano ricordati anche i galletti della nidiata Cuccia, dal figlio d’arte Gerardo Braggiotti a Matteo Arpe fino ad Alberto Nagel. Intendono segnare una rottura di metodo e di sostanza, gestionale e culturale. Ci riusciranno solo in parte. Non cambieranno il paradigma dominante nell’Italia bancocentrica, dipendente in tutto e per tutto dagli umori del Palazzo. Quel che introduce una vera rottura è la crisi; anche se non è ancora chiaro chi ne uscirà vincitore.
Banca supermarket o radicata nel territorio? Il primo modello entra in crisi con il crac del 2008, l’altro con la recessione successiva
I critici della finanziarizzazione si scagliano contro la banca supermarket esaltando quella radicata nel territorio. Il primo modello entra in crisi con il crac del 2008, il secondo con la recessione sucessiva. Il banchiere pizzardone servirà sempre meno. Anche nel credito come sulle strade prevale l’automazione. Pagamenti, acquisti, transazioni, mutui persino si possono contrarre on line. Per giocare in Borsa in modo decente basta affidarsi ad alcuni algoritmi. Quel che invece sfugge e sfuggirà sempre alle macchine e al calcolo astratto è la preferenza del singolo risparmiatore, che dipende non solo dalla sua professione, dal suo reddito o dall’età, ma dai suoi umori, dal suo carattere, in definitiva dalla sua libertà e capacità di scegliere una cosa o l’altra, spiega un banchiere-economista che si proclama liberale, davvero tra i pochi nelle banche e in questo mondo pluto-populista dove anche chi ama gli affari e se ne pasce non ama il mercato.
Gestire patrimoni, grandi e piccoli, con competenze e indicazioni diverse, mettere a frutto il risparmio, saperlo soppesare e indirizzare. La sapienza del banchiere-artigiano, non più solo il banchiere-manager. Basta guardare ai bilanci: le banche che erogano prestiti non guadagnano, gli utili vengono da quello che gli anglofoni chiamano asset management. I francesi hanno una lunga tradizione e sono ben piazzati. In Italia il Crédit Agricole (che possiede Cariparma) si è assicurato Pioneer attraverso la consociata Amundi pagando un prezzo profumato (3,5 miliardi) a Unicredit. La banca italiana si è tolta una fonte di profitto, ma adesso ha bisogno di mettere fieno in cantina e comunque intende sviluppare questo settore dall’interno. Ricomincia dal basso, attendendo tempi migliori.
Eppure si affacciano nuove formule. L’esempio di Igea Banca e della tedesca Number 26, primo istituto completamente digitale
La Intesa Sanpaolo creata da Bazoli e guidata da Carlo Messina è rimasta italocentrica e vuole “fare sistema”, riprendendo la bandiera caduta nella polvere della crisi, al punto da riproporre la liaison dangereuse tra banche e giornali, con il pieno sostegno all’acquisto del Corriere della Sera da parte di Urbano Cairo. Lo fa con un bilancio in salute e un capitale in regola, ma sa di muoversi sulle sabbie mobili. Anche per questo cerca di presidiare tutti gli angoli lasciati scoperti dal collasso delle banche territoriali, gettandosi lei pure nella logica di nicchia. Dalla banca dei tabaccai a quella dei farmacisti, dei medici o di altre categorie professionali, nuovi soggetti nascono come funghi nei cespugli della crisi. C’è un vantaggio nel partire da zero con strutture snelle e già ritagliate sul proprio business come ha fatto in Sicilia la Igea Banca di Francesco Maiolini uscito da Banca Nuova, gruppo Popolare di Vicenza, o in Germania la Number 26 prima banca completamente digitale guidata dal giovane Valentin Stalf.
In fondo è un mestiere antico recuperato in vesti, forme e con tecniche nuove, dagli uomini delle boutique d’eccellenza: finora si erano rivolti soprattutto ai ricchi, oggi nel credito così come nell’industria manifatturiera diventano il nuovo paradigma economico. Ne dovrà tener conto anche chi esce vincitore dalla selezione darwiniana, per esempio la Ubi, già salotto della borghesia industriale bergamasco-bresciana (dai Pesenti ai Beretta, da Bazoli ai Lucchini), guidata da Victor Massiah. Ha appena acquisito per un euro le strutture ripulite di Etruria, Marche, Chieti, le tre banchette liquidate l’anno scorso dal governo (Ferrara finirà invece in Cariparma), ma adesso dovrà chiudere sportelli, razionalizzare, selezionare, reinventarsi un modello.
E che fine fanno i superbanker o i mega empori della finanza? Molti – come Paul Volcker, il vecchio presidente della Federal Reserve – auspicano che vengano ridimensionati, magari sollevando di nuovo steccati tra chi accede al pubblico risparmio e chi usa fondi privati per giocare in borsa. Questo potrebbe caricare di altri eccessi regolamentatori un settore che dopo la crisi del 2008 è semmai super-regolato. La via maestra è sempre un’altra: la concorrenza di nuovi soggetti agili ed efficienti che mettano alla frusta i vecchi elefanti. Già, ma a parlare di mercato oggi soprattutto in Italia si fa peccato e, per di più, non ci si azzecca come dimostra la nostra domanda di partenza: perché hanno defenestrato Viola? A Siena non aveva capito dove porta il futuro, mentre sulla via di Vicenza ha ricevuto l’illuminazione? Chissà; eravate avvertiti che tutta questa storia si sarebbe chiusa senza risposta.
Il Foglio sportivo - in corpore sano