Alfabeto dissidente

Eugenio Cau

È morto l’uomo che ha inventato un sistema per trascrivere il cinese in caratteri latini. A 111 anni ancora criticava Mao

Per un periodo della sua lunga vita, Zhou Youguang ha pranzato tutti i giorni nella mensa comune dell’unità lavorativa in cui era stato assoldato come consulente per il governo della Cina comunista. Erano pasti modesti, a volte poveri, ma sempre meglio delle continue carenze di cibo che affliggevano il paese in quegli anni. Zhou poteva portare anche la moglie alla mensa, e questo voleva dire sfamare gran parte della famiglia. Tutti i giorni Zhou e sua moglie erano seduti di fianco a un uomo taciturno. Anche lui mangiava quei pranzi poveri, e anche lui portava la moglie con sé. Zhou ci mise un po’ di tempo a riconoscerlo. Era Pu Yi, l’ultimo imperatore della dinastia Qing, un tempo riverito nella Città proibita, ma in quegli anni costretto alla povertà di quella mensa di operai.

 

Zhou Youguang aveva sei anni quando Pu Yi, imperatore bambino, fu detronizzato dalla rivoluzione. Durante i suoi trenta, Zhou aveva vissuto l’occupazione giapponese della Cina e visto la Seconda guerra mondiale. A 43 anni era un banchiere di successo a Wall Street, ma decise di abbandonare tutto per aiutare Mao Zedong e la rivoluzione comunista a riformare la Cina in senso democratico e pluralista, come la propaganda di Mao prometteva a tutti gli intellettuali che volevano unirsi alla rivoluzione. Aiutò il Partito in una delle più grandi imprese culturali del Novecento, ma dal suo ritorno in Cina si è trasformato in un durissimo critico del regime. Sabato scorso, a 111 anni appena compiuti, Zhou Youguang è morto a Pechino. Era l’inventore del “pinyin”, e il più anziano dissidente del mondo.

Zhou Youguang è stato l’uomo che più di ogni altro ha contribuito a far uscire centinaia di milioni di cinesi dall’analfabetismo, ha aiutato milioni di stranieri a imparare la lingua cinese e ha aperto alla Cina le porte di internet, consentendo alla sua lingua madre di essere scritta con una normale tastiera. La sua invenzione, il pinyin, è l’alfabeto fonetico usato in tutto il mondo per trascrivere in alfabeto latino i caratteri e la pronuncia del cinese moderno. Chi conosce anche per grandi capitoli la storia della Cina e le difficoltà millenarie di trovare una lingua e una scrittura capaci di unificare il paese, sa che l’invenzione di Zhou (che è considerato il “padre del pinyin”, anche se l’alfabeto fu ovviamente un lavoro di squadra: in un’intervista del 2008 al Guardian, lui si definisce “figlio del pinyin”) può difficilmente essere sottostimata. Eppure sabato scorso, alla notizia della morte, il governo cinese ha celebrato scarsamente uno dei suoi eroi intellettuali.

 

Zhou era nato il 13 gennaio 1906 a Changzhou da una famiglia benestante e di origini nobiliari. Il padre era un funzionario imperiale e anche dopo la rivoluzione questo consentì a Zhou di frequentare le migliori università cinesi. Studiò Economia (con studi secondari in Linguistica) alla St. John’s University di Shanghai, la prima università in stile occidentale del paese, poi si laureò in Economia alla Guanghua University. Quando nel 1937 i giapponesi invasero la Cina, Zhou si trasferì con la moglie e i suoi due figli a Chongqing, allora la capitale del governo nazionalista. A Chongqing, vide morire sua figlia di sei anni di appendicite, divenne amico di Zhou Enlai, che al tempo era un astro in ascesa del Partito comunista, e iniziò a lavorare per la banca Sin Hua. Nel 1946, Zhou fu scelto per rappresentare la Sin Hua a Wall Street. Per tre anni trascorse nel cuore di New York quella vita da banchiere di alto livello che in seguito il Partito comunista avrebbe condannato come segno di decadenza borghese: si spostava per gli Stati Uniti esclusivamente in prima classe, viaggiava per l’Europa con la nave Queen Elizabeth e durante alcune visite a Princeton avrebbe conosciuto Albert Einstein.

 

Nel frattempo, però, nel suo paese natale la rivoluzione comunista aveva vinto la sua guerra pluridecennale contro il regime nazionalista di Chiang Kai-shek. La Cina era da ricostruire, e il governo comunista aveva esteso i suoi appelli a tutti gli intellettuali all’estero per aiutare il paese a raggiungere il sol dell’avvenire. Erano i tempi in cui Mao Zedong diceva ai giornali americani che i comunisti cinesi non erano veri marxisti, e che la forma di governo più adatta alla Cina era la democrazia. Mentiva in accordo con i sovietici e con l’intento specifico di sviare il sentimento dell’opinione pubblica americana, ma al tempo le parole di Mao suscitarono speranza in migliaia di persone – continuarono a farlo per decenni. Zhou abbandonò tutto e ritornò in Cina per ricostruire il suo paese. “Tutti eravamo sicuri che la Cina avesse una grande opportunità di sviluppo, non ci aspettavamo il disastro che sarebbe arrivato”, avrebbe detto al Guardian. “La storia ci ha ingannato tutti”.

 

Per i primi anni Zhou insegna Economia alla Fudan University di Shanghai, ma Zhou Enlai decide che ha altri progetti per lui. Dalla vittoria della rivoluzione, Zhou Enlai era diventato primo ministro del governo cinese (lo rimarrà fino al 1976, nella storia della Cina comunista dei primi decenni la sua figura è seconda in importanza solo a quella di Mao) e sceglie Zhou Youguang come capo della commissione nazionale per la riforma della scrittura cinese. “Io dissi che ero un dilettante, un profano, non potevo fare quel lavoro”, ricorderà Zhou Youguang in un’intervista del 2011 a Npr. “Loro mi risposero: in un nuovo lavoro, tutti sono dei dilettanti”. Nel 1955, Zhou e la sua squadra iniziano a studiare il sistema di scrittura cinese. Tre anni dopo, nel 1958, il pinyin sarà introdotto in tutte le scuole della Cina.

 

Per capire l’importanza del pinyin, serve un po’ di introduzione su come funzionano la lingua e la scrittura cinesi. Al contrario delle parole scritte in alfabeto latino, che sono delle trascrizioni fedeli dei suoni espressi nella lingua parlata, i caratteri cinesi veicolano informazioni di tipo semantico, ma non fonetico (questo è solo parzialmente corretto: alcune centinaia di caratteri hanno delle componenti fonetiche, ma spesso non corrispondono alla pronuncia effettiva). Prendiamo la parola “drago”: in una qualunque lingua indoeuropea, la parola drago descrive al tempo stesso un significato e un suono, e collega tra loro la lingua scritta e la lingua parlata. Chi sente pronunciare la parola “drago” sa immediatamente scriverla, e chi la legge sa come si pronuncia. Questo, invece, è il carattere in cinese tradizionale che significa “drago”: 龍. Questo carattere non è legato in alcun modo alla parola che lo rappresenta nel cinese moderno, cioè lóng. Anche un madrelingua cinese che conosca la parola lóng ma non avesse mai visto il carattere prima non riuscirebbe a ricollegare il testo scritto al suo significato. Per dirla in maniera semplicistica: tra la lingua cinese parlata e la lingua scritta non c’è (quasi) nessun collegamento evidente, e questo perché ai tempi dell’impero cinese il sistema di scrittura doveva poter veicolare una quantità innumerevole di lingue parlate usando lo stesso set di caratteri. Un sistema di scrittura come quello cinese, in cui i caratteri esprimono un significato ma non sono legati a nessuna pronuncia specifica, era perfetto per essere usato in un impero in cui le lingue e i dialetti erano centinaia. (Il cinese moderno, o putonghua, è nato nel corso del Novecento come un artificio deciso a tavolino dai linguisti basandosi sul dialetto di Pechino, e a tutt’oggi è parlato solo dal 70 per cento della popolazione cinese, con una percentuale molto più bassa di cittadini capaci di usarlo in maniera fluente).

 

I caratteri cinesi, ha scritto il sinologo David Moser nel suo “A Billion Voices”, un libro uscito l’anno scorso sul viaggio della Cina verso una lingua unitaria, sono come i numeri arabi: il numero 7 veicola sempre lo stesso significato sia che sia pronunciato sette, seven, siete o sieben. Ma come è necessario per i numeri arabi, anche i caratteri cinesi per essere usati devono essere imparati a memoria uno per uno. I numeri sono dieci e le lettere dell’alfabeto latino sono 26, ma i caratteri cinesi da imparare a memoria sono più di 9.000: per leggere un giornale bisogna conoscerne almeno 3.000, per leggere un’opera letteraria molti di più. Questo ha reso da sempre l’apprendimento della scrittura cinese un “semi martirio”, come scrisse un missionario gesuita nel Sedicesimo secolo.

Fin dal loro arrivo in Cina, i missionari europei hanno cercato di trascrivere la lingua scritta in alfabeto latino. I linguisti cinesi trascorsero la gran parte del Diciannovesimo e Ventesimo secolo a ideare nuovi possibili alfabeti, ma alla fine il pinyin di Zhou Youguang fu quello definitivo: lóng, la parola cinese per drago, è una trascrizione in pinyin. La dizione “Mao Zedong” (al posto del vecchio Mao Tse-tung) è pinyin.

 

Avere un metodo comune per trascrivere la lingua cinese in un alfabeto facile da memorizzare e da scrivere ha aperto alla Cina infinite possibilità: è stato come dire “apriti sesamo”, ha detto Zhou a Npr. Si ritiene che l’invenzione di Zhou abbia contribuito ad aumentare l’alfabetizzazione dal 20 per cento della popolazione a circa il 95. Apprendere il cinese è diventato per uno straniero (relativamente) più facile. Per scrivere in cinese su un qualsiasi computer oggi si usa il pinyin, e dunque si può dire che l’invenzione di Zhou ha aperto internet alla Cina. L’alfabeto Braille in cinese usa il pinyin. E’ facile dire che Zhou Youguang è uno dei padri del cinese moderno, e per qualche anno, tra la fine dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, sembrò che il pinyin avrebbe sostituito completamente i caratteri cinesi anziché affiancarli soltanto – non successe, le vicende della rivoluzione cambiarono le priorità del Partito comunista.

 

L’invenzione del pinyin, inoltre, salvò Zhou. Due anni dopo il suo “cambio di lavoro” da economista a riformatore della lingua, Mao diede inizio alla Campagna anti destra, la prima repressione di massa dei critici del regime. Gli economisti, per loro natura, erano considerati “destrorsi”, e quelli che venivano dall’odiata America più di tutti. “Se fossi rimasto a Shanghai a insegnare economia penso che sarei stato di sicuro messo in prigione per 20 anni”, ha detto Zhou in un’intervista. “Un mio caro amico fu arrestato e si uccise, la stessa fine che fece un mio studente”.

 

Zhou non riuscì a scampare alla repressione per sempre. Alla fine degli anni Sessanta, durante la Rivoluzione culturale, fu accusato di essere un reazionario e mandato a “riformarsi” nella remota provincia rurale del Ningxia, per vivere come un contadino e coltivare i campi di riso. “Per la prima volta in vita mia dormii in un letto fatto di terra”, ha ricordato Zhou. Dopo due anni nei campi di lavoro, con la fine della Rivoluzione culturale e la morte di Mao, anche Zhou fu lentamente riabilitato. Nel 1985 contribuì alla traduzione in cinese dell’Enciclopedia Britannica, e in seguito, parlando con i media occidentali, avrebbe ricordato gli scontri con la censura quando i contenuti dell’opera non combaciavano con la verità promulgata dal Partito.

 

Nonostante il suo lavoro continuo per il governo, Zhou non ha mai perso la convinzione che la Cina sarebbe dovuta diventare una democrazia, convinzione alla quale con il tempo si è unita la disillusione nei confronti del governo comunista. Quando a 85 anni è andato in pensione, la statura intellettuale, i servizi resi alla patria e l’età hanno protetto Zhou da ogni forma di repressione, e così l’anziano dissidente ha continuato a criticare il regime quasi indisturbato. Decine di giornalisti sono andati a trovarlo nella stanza del dormitorio della Commissione di stato sulla lingua, l’organo in cui ha lavorato per parte della vita e che ha continuato ad abitare anche nei suoi ultimi decenni. Peter Hessler, nel suo libro “Oracle Bones”, pubblicato nel 2009, racconta di come nello stesso dormitorio di Zhou Youguang vivessero altri due grandi riformatori della lingua cinese, Yin Binyong e Wang Jun, e che entrare nel brutto edificio in stile comunista era come entrare in un tempio. Dalla sua stanza, Zhou ha rilasciato innumerevoli interviste, il cui senso è sempre stato lo stesso: “In tutta onestà, non ho niente di buono da dire su Mao Zedong” (questa frase specifica l’ha detta all’agenzia Afp nel 2015). Memore della sua giovinezza negli Stati Uniti, Zhou (parlando con il New York Times nel 2012) ha definito la democrazia come “la forma naturale delle società moderne”, e ha smentito la tesi secondo cui prima di arrivare a un governo democratico la Cina deve ancora passare attraverso nuove fasi di sviluppo economico: “La democrazia si può applicare a qualunque livello di sviluppo”.

 

Sul massacro di piazza Tiananmen, Zhou si è detto sicuro che “giustizia sarà fatta”, e ha negato che il Partito comunista goda della maggioranza del consenso popolare: “La gente non ha la libertà di esprimersi liberamente, non possiamo saperlo con certezza”.

 

Nel corso della sua vita, il grande riformatore della scrittura cinese ha pubblicato più di 40 libri, dieci dei quali scritti dopo aver compiuto cento anni. In uno di essi, uscito nel 2010, ha profetizzato la ragione per cui alla fine il Partito comunista rischierà il tracollo se non sarà in grado di riformarsi – Zhou era convinto che succederà, nel corso di tutta la sua vita si è sempre definito un ottimista perché “i pessimisti tendono a morire”: “Le invenzioni sono fiori che crescono dal terreno della libertà. L’innovazione e le invenzioni non crescono dagli ordini del governo”. Poco dopo la sua pubblicazione, il governo ha fatto ritirare dal mercato tutte le copie del libro.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.