Così l'antipolitica corre lungo la storia degli Stati Uniti
Dalla guerra ai partiti, “selvaggi e voraci”, alla polemica contro leader e apparati
Divisivo, sconsiderato, incompetente, maschilista, ignorante, pericoloso, xenofobo, razzista, isolazionista, protezionista, populista: l’elenco degli epiteti poco lusinghieri sul conto di Donald Trump è ormai lungo come una quaresima. Resta il fatto che il tycoon newyorchese, con un linguaggio quasi adolescenziale e con una retorica un po’ dark, ha saputo calamitare con consumata perizia da businessman gli umori yankee avversi alla “power élite” descritta da Charles Wright Mills. “Ciò che davvero importa – ha detto il 20 gennaio nel suo discorso d’insediamento – non è quale partito controlli il governo, ma se il governo è controllato dal popolo”. Intendiamoci, però. L’immagine del popolo che mette in riga l’establishment tramite il leader scelto dal popolo non è certamente nuova. Al contrario, l’hanno usata in molti, da Franklin D. Roosevelt a John F. Kennedy, da Ronald Reagan a Barack Obama. Così come l’idea che la fedeltà al partito possa entrare in contrasto con la fedeltà al paese, incentivando la corruzione, la rapacità clientelare, le menzogne della stampa, la passione smodata per il potere, risale addirittura agli albori della Rivoluzione americana. Lo storico Arnaldo Testi vi ha dedicato pagine magistrali (di cui sono debitrici queste note), che oggi meritano di essere rilette anche per evitare abbagli clamorosi nell’analisi del “trumpismo” (Trionfo e declino dei partiti politici negli Stati Uniti, 1860-1930, Otto editore, 208 pp., 15 euro).
L’idea che la fedeltà al partito possa entrare in contrasto con la fedeltà al paese risale agli albori della Rivoluzione americana
Nel suo Farewell Address (discorso di commiato) del 1796, già il primo presidente George Washington (1789-1797) aveva ammonito i suoi concittadini sugli effetti perniciosi di quello spirito partigiano che indebolisce l’Amministrazione, fomenta rivolte e insurrezioni, agita la comunità con gelosie laceranti, apre la strada all’influenza straniera. Altrettanto chiaro era stato Thomas Jefferson nel 1789, quando aveva definito la dipendenza da un partito come “l’ultima degradazione di un agente libero e morale”. Anche il secondo presidente degli Stati Uniti, John Adams (1797-1801), bisnonno di Henry, considerava la divisione della repubblica in due grandi partiti, ognuno guidato da un proprio capo, “come la più grande calamità politica sotto la nostra Costituzione”. Come ha osservato Testi, c’è un elemento paradossale in queste altisonanti dichiarazioni. Infatti, sia Washington e Adams che Jefferson si stavano comportando, nel fuoco della lotta politica di quegli anni, esattamente come uomini di partito, del Partito federalista i primi due, del Partito democratico-repubblicano il terzo. Ma c’era comunque qualcosa di genuino e di profondamente sentito nelle loro esortazioni, ossia la convinzione che l’unità della nazione non doveva essere messa a repentaglio da rappresentanze politiche rissose e con obiettivi divergenti.
Non tutti i padri fondatori della repubblica, in verità, erano della stessa opinione. James Madison, l’estensore della Carta costituzionale, anch’egli presidente (1809-1817), riteneva che nella società esistessero interessi in conflitto tra loro, e che ciò avrebbe inevitabilmente portato alla formazione di partiti con diverse basi sociali, diverse visioni dei problemi e diverse ricette per risolverli. La regolamentazione di questi contrastanti interessi, scrisse nel 1787 in un passaggio di un celebre opuscolo (il Federalista, n. 10), “costituisce il compito principale di una moderna legislazione, e comprende lo spirito di partito e di fazione nel necessario e ordinario funzionamento del governo”. Madison, quindi, non pensava che l’esistenza dei partiti fosse un bene, ma un male da tenere sotto controllo. In questo senso, la funzione essenziale del governo era quella di impedire il predominio di una fazione maggioritaria, in grado di imporre la sua volontà al resto del paese. Per questo si era battuto per una costituzione imperniata sulla separazione dei poteri e sul federalismo.
Un libro dello storico Arnaldo Testi aiuta a evitare abbagli sul “trumpismo”. Lo spirito partigiano nel commiato di Washington
Durante l’età jacksoniana (il periodo che va dagli anni Trenta alla guerra civile del 1861-1865, e che prende il nome dal presidente Andrew Jackson), nei comizi dei politici, negli editoriali dei giornali e negli slogan elettorali iniziano a essere esaltate le virtù di una vigorosa competizione tra partiti, programmi e princìpi contrapposti. Anche la fedeltà al partito viene proclamata come un valore positivo ed eticamente edificante. L’alternativa era rappresentata dalla volubilità del voltagabbana, non degna di un cittadino. Il nuovo vangelo trovò espressione in un saggio intitolato Inquiry into the Origin and Course of Political Parties in the United States, redatto prima della guerra civile ma pubblicato nel 1867. Il suo autore era Martin Van Buren, eletto presidente (1837-1841) dopo una lunga e onorata carriera nel Partito democratico, che aveva contribuito a costruire nella sua forma moderna. A giudizio di Van Buren, “i due grandi partiti di questo paese, con qualche occasionale cambiamento di nome, hanno occupato, nel corso di quasi un secolo, posizioni antagoniste su tutte le più importanti questioni politiche. […] Né l’influenza di nuove connessioni familiari o di fedi religiose, né qualsiasi altro dei forti motivi che spesso determinano le azioni normali degli uomini sono stati sufficienti, con pochissime eccezioni, a superare il pregiudizio della appartenenza e della simpatia di partito, la devozione al quale è stata per tutti, da entrambe le parti, di regola, la passione dominante”. Era insomma l’apatia piuttosto che l’ambizione personale il nemico da sconfiggere, ed era il conflitto piuttosto che l’armonia a garantire un “commonwealth” vitale e ben governato.
Questi princìpi erano considerati poco meno che satanici dagli intellettuali liberali della élite colta e patrizia, settentrionale e metropolitana. Storicamente repubblicani, dopo la guerra civile – nelle cui ragioni si erano identificati – si considerarono sempre più degli “indipendenti”. Di fronte agli scandali che avevano segnato le due amministrazioni di Ulysses Grant (1869-1877), cominciarono a chiedersi quale nazione fosse uscita da quella guerra sanguinosa, e la loro risposta fu un brivido di orrore. Nella sua Ode al Quattro Luglio (1876), il poeta James Russel Lowell diede voce a questi sentimenti: “E’ questo il paese che abbiamo sognato in gioventù / Dove la saggezza e non i numeri avrebbe avuto peso, / Terreno di semina di maniere più semplici, di verità più audaci, / Dove la vergogna avrebbe cessato di dominare / Nelle case, nelle chiese e nello stato? / E’ questa Atlantide?”.
I Liberal Reformers, come furono chiamati, avviarono così una critica radicale della democrazia di massa, in cui proliferavano politici di professione semianalfabeti e volgari, e burocrazie di partito dedite al saccheggio delle risorse pubbliche, che stritolavano – attraverso lo “spoil system” – i cittadini onesti con la loro avidità di cariche pubbliche e di prebende di vario tipo. Erano gli anni in cui Mark Twain raffigurava Washington come una città nella quale i membri del Congresso avevano una fama talmente desolante che gli affittacamere pretendevano il pagamento anticipato della pigione. The Gilded Age (1873), il suo romanzo satirico scritto in collaborazione con Charles Dudley Warner, diventò il simbolo beffardo di un’intera epoca: non dell’oro, ma falsamente dorata. Anche un poeta come Walt Whitman, il cantore del “sogno americano”, non nascose la sua inquietudine per “lo spettacolo allarmante dei partiti che usurpano il governo, partiti selvaggi e voraci”. Fino a lanciare, in Democratic Vistas (1871), un appello accorato: “Disimpegnatevi dai partiti. Sono stati utili, e in qualche misura lo rimangono; ma sono […] gli agricoltori e gli impiegati e i lavoratori i padroni dei partiti, […] sono loro di cui abbiamo più bisogno, ora e nel futuro. Conviene non mettersi nelle mani di nessun partito, non sottomettersi ciecamente ai loro dittatori”. Il linguaggio di Whitman era diverso da quello dei riformatori liberali, che per lui erano “dilettanti e damerini”, ma il rimedio suggerito era identico.
All’indomani della guerra civile, in A True Republic (1879) Albert Stickney propose addirittura l’eliminazione del sistema dei partiti, e la sua sostituzione con assemblee locali e rappresentanti del popolo senza scadenza di mandato, revocabili solo in caso di cattiva condotta. Queste suggestioni utopiche furono accolte con freddezza dai riformatori liberali che, sotto la guida di Henry Adams, Robert R. Bowker e Theodore D. Woolsey, si erano impegnati in campagne memorabili contro quel “partito-macchina” che intrappolava la libertà di scelta dell’elettore. La sfida alle sue burocrazie e ai suoi boss poteva contare sull’appoggio di periodici influenti come l’Atlantic Monthly e di quotidiani come il New York Times. Essa, inoltre, godeva del favore di politici autorevoli, come il repubblicano Rutheford B. Hayes e il democratico Grover Cleveland. I riformatori liberali, dopo aver tentato la via del “terzo partito” col nome di Liberal Republicans, abbracciarono decisamente la strategia “indipendentista”. Nacque allora il movimento degli Young Scratchers, così chiamato perché chiedeva agli elettori di cancellare (“scratch”) dalla scheda i nomi dei candidati non graditi. Bowker, che ne era la testa pensante, si vantò di avere imposto, con la minaccia del ricorso in grande stile a questa tecnica elettorale, la candidatura repubblicana di Hayes nel 1876 e di James A. Garfield nel 1880. Nel 1884, pur di impedire la nomina dell’odiato James G. Blaine, invitò i propri simpatizzanti a sostenere Cleveland, spianandogli l’ingresso alla Casa Bianca. Dopo questo episodio, i liberali riformatori furono ribattezzati con il termine di Mugwumps (“coloro che non si schierano”).
L’età jacksoniana esalta le virtù di una vigorosa competizione tra formazioni politiche, programmi e princìpi contrapposti
Conservatori per mentalità ed estrazione sociale a dispetto del loro nome, gruppo di pressione sui vertici del Partito repubblicano che però rifiutava la disciplina di partito, per diffondere i propri programmi i Liberal Reformers avevano creato anche una fitta rete di circoli, associazioni, leghe, agenzie. Una febbre organizzativa coronata da qualche successo, come il tentativo di limitare il suffragio universale (auspicato dalla Commissione Tilden nel 1877) nei grandi centri urbani, “regno delle classi pericolose”. Con la fine del vecchio sud schiavista, scrisse l’Atlantic nel 1879, gli Stati Uniti avevano conosciuto l’industrializzazione e l’immigrazione di massa. In questa nuova realtà, aveva avvertito Charles F. Adams, “il suffragio universale può solo voler dire, in parole povere, il governo dell’ignoranza e del vizio: di un proletariato europeo, soprattutto celtico, sulla costa atlantica; di un proletariato africano sulle rive del Golfo; e di un proletariato cinese sulle rive del Pacifico”. Anche suo fratello Henry non aveva dubbi in proposito: con il regime democratico era tramontato l’antico ideale ciceroniano del “governo dei migliori”, e si era affermata una generazione di politicanti i quali avevano costruito “una macchina che solo essi erano in grado di gestire”, e ai quali i “migliori” avevano delegato il lavoro sporco.
All’inizio del Novecento, gli stessi progressisti si servirono di alcune di queste critiche per sferrare un duro attacco contro i “politicians”. Per uomini come i senatori Robert La Follette del Wisconsin e George Norris del Nebraska, che erano stati tra gli architetti delle scissioni del Partito repubblicano nel 1912 e nel 1924, la conquista dell’autonomia dagli apparati di partito era una bandiera e perfino una ragione di vita. Nati poco dopo la metà dell’Ottocento nelle aree rurali del Middle West, la loro formazione politica era stata influenzata dalle battaglie dei Muguwups. Attivisti scarsamente inclini alle riflessioni teoriche, costruttori essi stessi di poderose macchine politiche, avvocati di provincia che avevano trovato nel Partito repubblicano un mezzo di ascesa sociale e di realizzazione personale, non esitarono a definire “penoso” il loro distacco dall’antica fede. Nelle sue memorie (pubblicate nel 1913), La Follette – uno degli inventori delle elezioni primarie dirette – racconta così il suo primo incontro, quando era ancora un giovanotto ingenuo, con uno stagionato boss repubblicano: “Era un buon rappresentante della politica vecchia maniera: la politica della forza e delle manovre segrete. Era dittatore assoluto nel suo territorio; poteva fare i candidati e distruggere gli eletti. Mi combatté per vent’anni”.
L’eliminazione del sistema dei partiti, un’ipotesi nel 1879. L’idea del suffragio universale come governo del vizio e dell’ignoranza
Di avviso opposto era invece un altro repubblicano progressista, Theodore Roosevelt. Di famiglia aristocratica, educato nella New York multietnica e ad alta concentrazione di immigrati, aveva maturato una diversa sensibilità, se non un vero e proprio disincanto, verso le forme più discutibili della politica popolare. Giunse quindi alla conclusione, come ricorda nella sua autobiografia, che “c’è spesso molto di buono nel tipo del boss, specialmente nelle grandi città, che assume nei confronti della gente del suo distretto, in maniera abile e rozza, la posizione di amico e protettore. […] Ad alcuni dei suoi elettori rende favori legittimi, e ad altri favori illegittimi; ma con tutti conserva relazioni umane”. Fu in questo clima che il boss si trasformò gradualmente da mascalzone in benefattore sociale, e la sua figura smise i panni del “villain” per indossare quelli del “folk hero”, dell’eroe – per esempio – del bestseller di Edwin O’Conor The Last Hurrah (1956). Secondo il reporter Lincoln Steffens, divenuto celebre per le sue inchieste sulla corruzione nel mondo finanziario, il boss era un dirigente naturale del popolo venuto dal popolo. Il suo peccato consisteva nell’aver tradito, nell’essersi venduto per denaro agli uomini d’affari, nell’aver acconsentito alla degenerazione della democrazia americana in una plutocrazia. La sua colpa, inoltre, era quella di alimentare una “idiota devozione a una macchina che è usata per portarci via la sovranità”, che trasferisce “a un partito la lealtà dovuta agli Stati Uniti”. E tuttavia non faceva mistero di detestare profondamente quei riformatori “upper class”, petulanti ed elitari, paternalisti e sostanzialmente indifferenti ai bisogni degli umili, avvolti nell’ipocrita mantello della loro rettitudine morale e alterigia intellettuale, (The Shame of the Cities, 1904). C’era una volta in America…
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