La fabbrica degli ospiti tv
In televisione ci sono le star e ci sono loro, manodopera per talk-show, reality, talent. Ecco i registi occulti
Seduto sul divano, scrutando le straripanti domeniche televisive dell’Italia degli anni Ottanta, Beniamino Placido fissava la nascita di un fenomeno inedito: “Viviamo vite modeste, chiuse, anonime, ma se riusciamo a farci invitare a ‘Punto 7’, a ‘Buona Domenica’ o a ‘Domenica in’ per cinque minuti la nostra popolarità è assicurata”. Il quarto d’ora warholiano era già un lusso. Un arco di tempo incapace di contenere la crescente domanda di visibilità della gente comune, il desiderio di partecipazione ai talk, la voglia di entrare nel giro delle domeniche di Costanzo, Sabani, Mino Damato. Oltre l’effetto compagnia (“attraverso la tv, la domenica vengono a farci visita persone che non ci saremmo mai sognati di avere a casa nostra”), Placido notava come l’impennata dell’ospitalità aperta a tutti stesse capovolgendo l’assetto della tv. “L’idea di aver avuto in casa nostra la Lollobrigida o Gassman, Luigi Pintor o Milva è allucinatoria, ma quella della nostra presenza o esistenza televisiva semplicemente non può essere soddisfatta”. Perché “la pretesa di diventare celebri in cinque minuti è illusoria”, perché “il rapporto fra televisione e pubblico è necessariamente, irrimediabilmente asimmetrico”, perché è “lavorando al vertice che si rende più democratica la televisione, non incrementando il numero dei partecipanti alle trasmissioni domenicali”. Trent’anni dopo, immersi nel radicale rovesciamento dello scenario indicato da Beniamino Placido, i partecipanti alle trasmissioni televisive debordano da ogni argine domenicale, festivo, infrasettimanale. La dilatazione del palinsesto e la moltiplicazione dell’offerta fanno il resto. La tv è fatta dagli ospiti. Tutti gli spettatori possono diventare ospiti, ma com’è ovvio non tutti gli ospiti sono uguali.
Ai piani alti c’è il superospite, l’animatore e catalizzatore dello show-evento costruito su poche, irripetibili prime serate. Il superospite funziona come dimostrazione di forza di una rete, vedi Matthew McConaughey e Richard Madden seduti accanto a Maria De Filippi nello studio di “C’è posta per te”. Il superospite “in promozione” è chiamato a raccontarci la sua ultima “fatica”. Il superospite può legittimare un programma, anche se non c’entra niente col programma. Oppure, il superospite va nel programma per provare a intercettare nuovi target, come Checco Zalone a “Che tempo che fa?” o Roberto Saviano e Matteo Renzi ad “Amici” (anche se gli è andata meno bene). “Sicuramente sembra strano che io sia qui”, dice Saviano rivolto ai ragazzi di Maria De Filippi, “Cosa c’entro? Non canto, non ballo, scrivo… eppure, sono convinto che è il posto giusto”.
Ai piani bassi invece c’è la quotidiana fabbrica di ospiti televisivi. Una catena fordista che rimpolpa di manodopera talk-show, reality, talent e programmi di ogni tipo. Un’oscura miniera di personaggi creati dalla tv, animati dalla tv, chiamati dalla tv per celebrare la tv. “Sono persone che non hanno un mestiere, non si capisce perché sono qui a parlare”, dice Filippo Facci rivolto a Manuela Villa in un pomeriggio di fine dicembre a “Domenica Live”, poco prima che lei gli molli una pizza in faccia facendogli volare via gli occhiali. Al culmine della solita litigata a braccio sulla dieta del dottor Lemme (miniera inesauribile di colpi bassi, provocazioni metaboliche, sconfinamenti del guilty pleasure televisivo in quello alimentare e viceversa), Filippo Facci metteva improvvisamente in discussione la competenza del parterre. Notava che lì, a dibattere di dimagrimenti prodigio, c’erano persone che parlavano come testimoni (i famigerati “cadetti” dell’Accademia di filosofia alimentare), oppure in qualità di “esperti”, come Rosanna Lambertucci e il dottor Lorenzetti, che a “Domenica Live” presta il volto all’epistemologia della scienza minacciata dalle post-verità di Lemme. Manuela Villa, invece, “non si capisce che lavoro fa”, diceva Facci. Come se anche lui non sapesse che fa esattamente quello che vediamo tutti. Manuela Villa canta, recita, agita l’infinita saga dell’eredità artistica e immobiliare del reuccio. Ma nel vasto repertorio della realtà televisiva fa anzitutto l’ospite. I ritmi forsennati del palinsesto, l’inevitabile inclinazione alla sovraesposizione mediatica, fanno sì che quando si diventa ospite non si smette più di esserlo. Come nel celebre adagio di Daniel Boorstin sulle persone “famose per essere famose”, l’ospite è qualcuno che fa l’ospite.
Un programma tv, va da sé, si costruisce sugli ospiti. E’ sempre stato così. Ma dalla neotelevisione in poi, gli ospiti dei talk-show sono anzitutto personaggi televisivi. Poi, sempre più raramente, testimoni di una qualche “expertise”. Qui però si sconfina nel vasto mare del talk, dall’approfondimento politico alla cronaca. Ospitate gratis, quasi sempre giornalisti della carta stampata, quasi sempre residenti a Roma, collegamenti via skype. Format che costano poco e rendono bene, anche se nessuno lì dentro sa perché sia stato chiamato. “Vengo qui gratis, e mi rompo pure le palle”, come diceva Vittorio Feltri a “In Onda”, su La7. Ospiti riciclati che arrivano per parlare delle barricate di Goro e Gorino e si ritrovano catapultati nell’analisi geologica dell’Appenino. Giornalisti che diventano conduttori e ridiventano ospiti. Come Luisella Costamagna, professionista dell’indignazione, un blog sul Fatto dove ogni tre post si dice “schifata”, un talk tutto suo su Agon Channel, un’ospitata permanente un po’ ovunque, la domenica da Giletti, il lunedì da Del Debbio, ospite fissa nel nuovo talk di Telese, “Bianco e Nero”. “Teniamo gli ospiti migliori e paghiamoli in base all’audience del programma”, suggeriva Giovanni Minoli, “è una buona cura per ottimizzare la qualità dei talk. Riempirli con gente preparata”. Alcuni programmi si stanno attrezzando coi voucher. Spunta anche un nuovo genere di comparsata, l’“ospite riparatore”; Giovanni Floris mandato via come conduttore da Raitre, poi ingaggiato per andare a presentare il suo libro da Fazio. Un complotto di pugnalatori tutto interno a Viale Mazzini. Ma Floris vuol dire Beppe Caschetto. Perché gli ospiti e i presentatori vanno e vengono, ma a smistare il traffico c’è la triade degli agenti: Lucio Presta, Bibi Ballandi, Beppe Caschetto, l’Enrico Cuccia dell’aristocrazia televisiva, imprenditore passato dal mondo della Cgil a quello dello spettacolo, “un mondo con cui non è facile relazionarsi”, come recita il sito della sua agenzia, “ma che egli ha immediatamente cercato di modellare a suo piacimento”, per “rendere le sue star una proposta sempre allettante, fedeli alla filosofia di evitare cloni”. Non è detto però che in tv la produzione di cloni sia un problema, anzi.
La riuscita di un format o di uno show è subordinata agli ospiti e alla loro valorizzazione, su questo non c’è dubbio. Secondo alcuni, però, l’effetto saturazione di questi anni sta impoverendo la scrittura televisiva e le idee, specie dalle parti dello show. L’ospite non è più solo l’elemento di valorizzazione di uno show, ma ciò che detta ritmo e tono allo spettacolo. Il superospite non si inserisce più in una struttura narrativa. Al contrario, la struttura si trasforma in un assemblaggio di ospiti, con possibilità di invenzione limitate per gli autori. Dipende, ovviamente, dal tipo di programma e dal format. Recensendo la prima puntata di “Music”, lo show condotto da Bonolis, Aldo Grasso si domandava se fossero necessari sette autori per legare uno dopo l’altro i numeri musicali degli invitati. “Si invitano cantanti famosi, magari una star internazionale come Simon Le Bon e John Travolta, e con la scusa di far loro scegliere la ‘canzone della vita’, si prepara una bella scaletta di cover. Buoni cantanti e buona musica, il gioco è fatto”. A questo punto, bisognerebbe farli scherzare col conduttore, costruire delle gag, eccetera. Ma qui, “le chiacchiere con i cantanti erano così prive di ritmo, così autoreferenziali e compiaciute, da appesantire in maniera insopportabile il programma”. Insomma, troppi ospiti, poche idee. “Una volta gli autori creavano programmi nuovi, scritti su misura per artisti come Mina”, raccontava in un’intervista Enzo Paolo Turchi, “erano autori come Dino Verde e Antonello Falqui che faceva anche la regia. Erano in due. Ora ce ne vogliono venti per tradurre un format”. Tradurre un format significa spesso trovare i personaggi giusti. Ed è qui, forse, che si manifesta la profonda influenza dei reality sul modo di intendere e scrivere tutta la televisione. Perché in un reality, il casting è tutto. Se hai trovato i concorrenti adatti il più è fatto, il programma si guida quasi da solo. Quando dagli sconosciuti si passa ai vip, l’impianto di fondo resta più o meno lo stesso. I nomi vengono prima delle idee, specie se il format è comprato all’estero. D’altro canto, il pubblico televisivo si intercetta con gli ospiti. Autori, produttori e addetti ai lavori non hanno dubbi. “Gli ospiti all’interno di un programma televisivo sono parte integrante di un format, soprattutto nell’entertainment”, dice Gabriele Immirzi, direttore di “FremantleMedia Italia” (“The Apprentice”, “X-Factor”, “Italia’s got talent”) “poi, se un programma ha degli autori scarsi, lo saranno anche nel trattamento degli ospiti, ma quello è un altro problema”. Di sicuro, “in uno scenario dove lo spettatore può scegliere tra decine di canali più o meno uguali, l’ospite può fare la differenza tra l’essere mediaticamente in un cono d’ombra o diventare un contenuto rilevante”. Da noi però sembra che se nel format ci sono troppi vip non c’è quality tv, e viceversa. Una forma di snobismo culturale, prosegue Immirzi, che ci rende “poco disposti ad ammettere che le persone sono interessate a vedere e ascoltare cosa hanno da dire le celebrities”. Ma forse dobbiamo solo imparare a farle parlare con più ritmo. “Anche in Italia gli ospiti con un prodotto in promozione hanno finalmente capito che per lanciare meglio il disco, il libro, il concerto o altro, non basta cantare la canzone nuova, salutare con la mano e andarsene”, dice Arnaldo Greco, autore tv della squadra di “Che tempo che fa”; “casomai, serve accettare di mettersi un po’ di più in gioco, partecipare attivamente allo show, così gli autori possono farsi venire qualche idea in più”.
Nella logica televisiva, gli ospiti ideali sono quelli fabbricati dalla stessa rete che poi sa valorizzarli, come succedeva nella golden age di Hollywood, quando le star erano di proprietà degli studios. In questi anni, più di altri Mediaset si è dedicata alla messa a punto uno “stardom” domestico. Un sistema di produzione seriale di creature televisive che, grazie ai talent, a volte accedono al ruolo di “celebrities”. Oppure, restano lì, come risorse umane che nutrono il palinsesto, alimentano il circuito del gossip, assicurano il rimando di temi e motivi tra un format e l’altro, secondo uno sviluppo narrativo circolare, chiuso, teso a celebrare l’autoreferenzialità della televisione. Vedi l’allevamento di Maria De Filippi. “Selfie”, condotto da Simona Ventura su Canale 5, ennesima variazione sul tema della trasformazione fisica, è stato in gran parte costruito attorno alle rivalità intestina tra Gemma Galgani e Tina Cipollari, entrambe provenienti dalla scuderia di “Uomini e donne”. Soprannominata “la dama torinese”, omonima di una tormentata mistica dell’800 legata all’ordine dei “passionisti”, Gemma Galgani nasce come corteggiatrice del “trono over”, nel 2010.
Da Maria De Filippi, la dama torinese viene spesso bullizzata dalla drag queen dell’alto Lazio, Tina Cipollari. Si crea il conflitto. Lei partecipa quindi a “Selfie”, accettando l’invito di Alessandra Celentano (parco di “Amici”, di Maria de Filippi). Gemma Galgani diventa una concorrente della trasmissione che si sottopone a un intervento ai denti, ma per gli abitanti dell’universo defilippico è anche un “grande ospite di Selfie”, come infatti annunciano le riviste di gossip. Da lì si rimbalza di nuovo a “Uomini e donne”, dove Tina Cipollari le intima di togliersi “a’ dentiera”, e via così, in un loop infinito. Nel frattempo, lei decolla sui social, le dedicano un’ora per ogni puntata di “Uomini e donne”, servizi su rotocalchi, interviste fiume. Spunta persino una vecchia storia con Walter Chiari, forse, chissà. Persone comuni che mettono in scena se stesse, riscritte quanto basta dagli autori. Non diventano mai davvero “famose”, però funzionano come materiale umano per ospitate televisive, esperimenti con nuovi programmi. “Glass Testimonial” della rete che li ha creati, prima che del loro vissuto.
Mediaset valorizza le potenzialità della “do it yourself celebrity”, come la chiama Graeme Turner (in “Understanding Celebrity”, saggio del 2004). Perché la tv è un sistema dove lo spettatore ha smesso da tempo di sentirsi l’ultimo anello della catena, ormai è consapevole di essere parte integrante dell’incessante ciclo di produzione di un’economia della fama. “Non c’è televisione senza volto televisivo”, diceva Beppe Caschetto intervistato sulle pagine di questo giornale da Salvatore Merlo; “una volta Ballandi disse a un broadcaster con il quale stava trattando: ‘Tu hai la pista, io ho i piloti’. Senza i piloti, la pista diventa come il circuito di Imola, un parco verde e vuoto. Così è la televisione senza volti”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano