Samuel P. Huntington (1927-2008) è stato docente all’Università di Harvard. Ha fondato la rivista Foreign Policy, sulla quale è apparso il suo più celebre articolo, quello sullo scontro di civiltà

La sibilla di Trump

Giulio Meotti

L’America sembra uscita dai libri del sulfureo Samuel Huntington. Un genio che non credeva nell’universalità della cultura occidentale

Nei primi anni Novanta, gli opinion-maker americani facevano a gara per superarsi a vicenda in ottimismo e trionfalismo. Francis Fukuyama dichiarò, nel 1992, “la fine della storia” e il trionfo universale del liberalismo occidentale. Negli stessi giorni, Samuel Huntington cominciò a formulare una visione più oscura e pessimista dei nuovi rapporti di forza. E sostenne che le vecchie divisioni ideologiche della Guerra fredda sarebbero state sostituite non dall’armonia liberale universale, ma da divisioni culturali ancora più antiche. Il mondo si sarebbe profondamente diviso tra le diverse civiltà e religioni. “Il futuro sarebbe stato forgiato nelle moschee di Teheran e nelle commissioni per la pianificazione a Pechino, piuttosto che nei caffè di Harvard Square”, scrisse l’Economist alla morte del professore.

 

La storia gli avrebbe dato ragione. Di lui hanno parlato tutti. Huntington è diventato una figura odiata dai liberal e un eroe per molti conservatori. Ma la sua visione era molto più complicata. Era un democratico nel midollo e un rappresentante di quella razza in via di estinzione di mastini liberal della Guerra fredda. Huntington aveva scritto discorsi per Adlai Stevenson e aveva lavorato come consigliere di politica estera per Hubert Humphrey, fino al ruolo nelle amministrazioni Johnson e Carter e l’amicizia con Zbigniew Brzezinski, uno dei primi sostenitori di Barack Obama. Huntington era un fiero oppositore dei neoconservatori che pensavano di poter trapiantare i valori democratici in Mesopotamia. Con l’elezione di Donald Trump, le idee di quel sulfureo professore di Scienze politiche sembrano aver preso possesso della Casa Bianca. “La loro visione del mondo prende in prestito lo ‘scontro di civiltà’ di Samuel Huntington”, ha scritto due giorni fa il New York Times a proposito dei consiglieri di Trump. Michel Onfray, nel suo ultimo libro, “Décadence”, parla di Huntington come della sibilla del nostro tempo. Ross Douthat, sempre sul New York Times, suggerisce di leggere Huntington per capire l’“America Great Again”. Difficile immaginare Trump alle prese con i poderosi volumi di quello scienziato della politica che insegnava nella Ivy League. Eppure, la rivista dei realisti d’America, National Interest, pochi giorni fa ha spiegato che per capire la nuova Amministrazione si deve riscoprire la tanto abusata figura di quell’intellettuale passato alla storia, vent’anni fa esatti, con il saggio “Lo scontro delle civiltà”.

 

Mai un libro era stato tanto diretto sull’islam: “I confini dell’islam grondano sangue, perché sanguinario è chi vive al loro interno”. E ancora: “Il vero problema per l’occidente non è il fondamentalismo islamico, ma l’islam in quanto tale, una civiltà diversa le cui popolazioni sono convinte della superiorità della propria cultura”. In uno dei suoi ultimi saggi, “Dead Souls”, Huntington sembrava quasi immaginare l’America di Trump: “Le opinioni del pubblico su questioni di identità nazionale differiscono significativamente da quelle delle élite. Il pubblico, nel complesso, si preoccupa della sicurezza fisica, ma anche della sicurezza sociale, che coinvolge la sostenibilità e l’evoluzione dei modelli esistenti di lingua, cultura, religione e identità nazionale. Per le élite, queste preoccupazioni sono secondarie rispetto al partecipare all’economia globale, sostenere il commercio internazionale e le migrazioni, il rafforzamento delle istituzioni internazionali, promuovere i valori americani all’estero, incoraggiare le identità e le culture minoritarie in patria. La distinzione fondamentale tra il pubblico e le élite non è fra isolazionismo e internazionalismo, ma fra nazionalismo e cosmopolitismo”. Se c’è un filo comune che lega la politica estera di Trump è la convinzione che gli Stati Uniti siano impegnati in una guerra di civiltà contro il “terrorismo islamico”. “La nuova Amministrazione sembra aver pienamente abbracciato le idee di Samuel Huntington, non solo sullo scontro di civiltà, ma sul declino americano, l’idea di un occidente circondato da nemici, e anche in materia di immigrazione”, scrive Emma Ashford su National Interest.

 

“Ma i collegamenti alle idee di Huntington vanno più nel profondo della semplice accettazione della sua tesi sullo scontro di civiltà”. Dopo tutto, Huntington pone non solo il conflitto tra le diverse civiltà, ma anche l’idea che la posizione nel post Guerra fredda era tale da portare a un conflitto tra l’occidente e “il resto” del mondo. Questa idea è stata esplicitamente fatta propria dal consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, Michael Flynn, le cui opinioni plasmano la politica nella nuova Amministrazione. In un suo libro, “The field of fight”, Flynn postula l’esistenza di un’alleanza antioccidentale che lega insieme gruppi terroristici come al Qaida, Hezbollah e l’Isis con molti stati, tra cui la Cina, la Russia, la Siria, l’Iran e il Venezuela. “Allo stesso modo, le idee di Huntington sul declino americano e i pericoli dell’immigrazione incontrollata sono per molti versi precursori della retorica di Trump”. Echi huntingtoniani ricorrono ovunque dentro l’Amministrazione Trump. Quando Steve Bannon, consigliere speciale alla Casa Bianca, dichiara che “la classe media è stanca di farsi comandare da ciò che noi chiamiamo il ‘partito di Davos’”, questo è puro Huntington. “Davos Man”, infatti, è la formula coniata nel 2004 dall’allora politologo di Harvard.

 

L’opera più controversa di Huntington, sicuramente quella che più influenza oggi l’Amministrazione Trump, non è “Lo scontro di civiltà”, ma il suo ultimo libro, “Who we are”, in cui respinse l’idea che i valori liberali condivisi siano la base comune per l’identità americana a favore invece della cultura “Wasp”, bianca, anglosassone e protestante, che ricorda molto da vicino la visione anti-immigrazione di Trump. Nella rubrica delle lettere di Foreign Policy, Huntington fu sommerso di accuse di “razzismo”, “xenofobia” e “nativismo”. Il sottotitolo del libro, “La sfida della società multiculturale”, espose una tesi dirompente. Huntington vi dichiarava guerra al multiculturalismo, definito “una civiltà antieuropea” e dunque antioccidentale. In secondo luogo: l’immigrazione, specie ispanica, costituiva un pericolo per l’identità americana. In “Who we are”, Huntington sfoderava la sua veste più conservatrice, scagliandosi contro la “multietnicità”, come Trump. L’arrivo massiccio dell’immigrazione ispanica, sosteneva, rischia di minacciare gli stessi Stati Uniti, che invece devono pensare a proteggere la propria cultura e poi, forti della propria identità, cercare comunanze culturali con altre civiltà. Huntington teorizzava l’assimilazione, che a partire proprio dagli anni Sessanta era finita sotto il tiro di molti studiosi, a vantaggio del principio opposto, quello della “etnicità”.

 

C’è chi accusò Huntington di “nativismo”, che negli Stati Uniti ricorda la matrice anglosassone-protestante in funzione di attacco all’immigrazione cattolica. Il ragionamento dal quale partiva Huntington si basa essenzialmente su alcuni fattori che hanno determinato la realtà americana: la fine dello scontro con i sovietici che, sul piano interno, ne rafforzava l’identità; la necessità, già indicata da Bill Clinton, di avviare la terza rivoluzione, ossia mostrare che gli Stati Uniti possono vivere “senza una cultura dominante europea”; terzo, il connubio tra la massiccia ondata migratoria cominciata negli anni Sessanta e una “maggioranza di immigrati” che parla una sola lingua, lo spagnolo, diversa dall’inglese. A fronte di questa nuova realtà, l’America può farcela soltanto rifacendosi “alla cultura, alle tradizioni e ai valori anglo-protestanti che per tre secoli e mezzo sono stati accettati e rispettati dagli americani di tutte le razze, di tutte le etnie e di tutte le religioni e che hanno costituito la fonte delle loro libertà, della loro unità, del loro potere, della loro prosperità e della loro leadership morale come forza rappresentativa del bene in tutto il mondo”.

 

Un vero e proprio “credo” come lo definiva lo stesso Huntington, una “cultura di base dell’America” che comprende “la religione cristiana, i valori protestanti e il moralismo, l’etica del lavoro, la lingua inglese, le tradizioni britanniche di diritto, giustizia e limiti del potere del governo, l’individualismo, il governo rappresentativo e la proprietà privata”. Samuel P. Huntington è morto ottantunenne nel 2008 a Martha’s Vineyard, nel Massachusetts. Episcopaliano, “democratico old fashioned come non se ne sono più” secondo Robert Kaplan, liberal nelle idee ma conservatore nell’analisi della storia e della politica estera, Huntington descriveva la Guerra fredda come un evento passeggero rispetto alla lotta secolare tra l’occidente e l’islam. Per Huntington, i fronti dello scontro di civiltà avrebbero potuto essere ben sette (l’occidente, l’America latina, il mondo islamico, quello hindu, quello ortodosso, la Cina e il Giappone) o persino otto, aggiungendo l’Africa. “Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro”, scriveva il politologo. Nel post Undici settembre, Huntington è stato erroneamente indicato come ispiratore di George W. Bush. Al contrario, Huntington, come Trump, era contrario alla guerra in Iraq sin dal primo momento, così come all’idea di esportare la democrazia anche con le maniere forti. “Un pensatore originale e senza dubbio uno dei pensatori più influenti in politica per gli ultimi cinquant’anni”, ha detto di lui Henry Rosovsky, professore emerito di Economia a Harvard. Fondatore della rivista Foreign Policy e del John M. Olin Institute for Strategic Studies di Harvard, Huntington non era solo una creatura dell’accademia, ma anche un consigliere di politica estera.

 

Fu un mentore per tanti giovani studiosi, come Fukuyama, Michael Desch a Notre Dame, Steve Rosen a Harvard, Eliot Cohen al Dipartimento di stato, Fareed Zakaria. Con quasi dieci anni di anticipo, Huntington aveva “previsto” l’11 settembre: “In qualche parte del medio oriente potrebbe benissimo esserci un gruppetto di ragazzi che indossa jeans, beve Coca-Cola, ascolta musica rap e tra una genuflessione e l’altra alla Mecca mette una bomba su un aereo di linea statunitense”. Bollata come “semplicistica”, la tesi di Huntington ipotizzava che nel mondo post Guerra fredda le alleanze determinate da motivi ideologici o da rapporti fra superpotenze avrebbero lasciato il campo libero a nuovi confini che coincidono con quelli culturali. “La Guerra fredda è finita con il crollo della cortina di ferro”, scriveva. “Con la scomparsa delle divisioni ideologiche in Europa, la faglia tra cristianità occidentale, cristianità ortodossa e islam è riemersa” (anche qui, Huntington vide giusto sulla rinascita della Russia conservatrice e putiniana, il “jihad ortodosso” come l’ha chiamato qualcuno). Figlio di un editore e di una giornalista, Huntington fu un ragazzino prodigio, ammesso a Yale all’età di sedici anni, cresciuto in un mondo, come dirà lui stesso, “in cui erano tutti liberal e Franklyn Roosevelt era Dio”. Allievo di Reinhold Niebuhr, il teologo dell’America protestante e realista, Huntington si vide rifiutare un dottorato da Harvard quando pubblicò “The soldier and the state”, peana a favore della presenza dei militari nella vita politica americana (anche qui echi trumpiani?).

 

Durante la docenza a Harvard, gli studenti che avevano letto sull’Harvard Crimson dei suoi legami con l’Amministrazione Johnson nella guerra in Vietnam andavano a manifestare fuori dal suo ufficio. Negli ultimi anni, Huntington arrivò a sostenere che la “crisi della democrazia” risiede nella crisi del concetto di leadership, messo in pericolo dal “livellamento della moderna democrazia di massa”. Bisogna tornare a quella che nell’Ottocento si chiamava “democrazia referenziale” tramite una riaffermazione di forti élite. Fra i bersagli prediletti di Huntington quelli che chiamava “i decostruzionisti”: “I decostruzionisti hanno promosso programmi per migliorare lo status e l’influenza di gruppi subnazionali, razziali, etnici e culturali. Hanno incoraggiato gli immigrati a mantenere le loro culture dei paesi di origine, hanno denunciato l’idea di americanizzazione come non-americana, hanno spinto per riscrivere i programmi di studio e i libri di testo di storia in modo da fare riferimento ai ‘popoli’ degli Stati Uniti al posto delle singole persone, hanno sostituito la storia nazionale con la storia dei gruppi subnazionali, hanno declassato la centralità della lingua inglese nella vita americana e spinto per l’educazione bilingue e la diversità linguistica, hanno giustificato le teorie del multiculturalismo e l’idea che la diversità piuttosto che l’unità dovrebbe essere il valore dell’America. L’effetto combinato di questi sforzi è stato quello di promuovere la decostruzione dell’identità americana che si era creata nel corso di tre secoli”.

 

Ma aveva “speranza”, sempre alla Huntington: “I risultati delle battaglie nella guerra decostruzionista saranno senza dubbio notevolmente influenzati dalla misura in cui gli americani soffriranno ripetuti attacchi terroristici”. In una delle sue più famose interviste, al quotidiano francese Le Monde, Huntington espresse tutto il suo pessimismo: “L’islam è più dinamico del cristianesimo, in virtù sia dei suoi tassi di natalità che del suo proselitismo. Il cristianesimo progredisce per le conversioni, l’islam per le conversioni e per il tasso demografico. Il demografo francese Jean-Claude Chesnais ha constatato che i musulmani, che vent’anni fa rappresentavano il 18 per cento della popolazione mondiale, saranno il 23 per cento tra qualche anno e il 30 per cento nel 2025: cioè più numerosi dei cristiani”. Huntington però ci ha lasciato in eredità anche qualcosa di molto preoccupante. L’idea che “la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa”. Ma se le cose stanno così, anche l’esito dello scontro di civiltà è già scritto. A favore dell’islam, non certo nostro.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.