Quelli del Tartarughino
Ora che è tornato in gran spolvero il proporzionale, ecco una guida ai misteri e ai piaceri della Prima Repubblica: uomini, partiti, luoghi, trame, svaghi. Oggi chi interpreta chi?
La sera andavamo al Tartarughino. L’indirizzo è già un romanzo: via della Scrofa, Roma. E’ un locale di tavoli collocati nella penombra della riservatezza. Un luogo da dopolavoro per la casta dove trincare moderatamente e dolcemente decidere se far schiattare o meno un governo della Repubblica (la “Prima”), fosse pure il granitico Caf, l’esecutivo di Craxi (Benedetto detto Bettino), Andreotti (Giulio) e Forlani (Arnaldo). L’urgenza di attualizzare – non senza lanciare un bacio ad Anja Pieroni, incantevole nella felice stagione degli anni Ottanta – può imporre il paragone con Salotto 42, in piazza di Pietra, un posto da apericose dove ci va la Boschi (Maria Elena), e dietro di lei l’umanità in carriera della Repubblica, la “Seconda”, mai diventata “Terza” e tornata – grazie al ritorno del proporzionale, appeso al traguardo del 40 per cento – a essere finalmente “Prima”, forse l’unica. Un rewind non può che riavvolgere, mescolando i volti e le maschere, il nastro eterno del potere: al posto di Andreotti c’è Matteo Renzi e in luogo di Craxi, Silvio Berlusconi.
Non c’è più Mario Tanassi, c’è però Angelino Alfano il cui Ncd è una specie di Psdi. Per non dire dei sacrissimi numi del lavorio etico-politico: non c’è più un Aldo Moro ma c’è pur sempre un Nico Stumpo e se ogni nuova legge elettorale incespica nel vecchiume delle regole – perfino il sorteggio, giusto a scongiurare la scelta individuale – vuol sempre significare, il dettaglio, che da qualche innesco deve pur cominciare l’incendio dei rimpianti. E sempre vale il motto di Vladimiro Crisafulli detto Mirello: “A me sta bene qualunque sistema elettorale, sia proporzionale, sia maggioritario, e anche il sorteggio”. La sera da qualche parte si deve andare. L’album dei ricordi di quella tana odorosa di agrumoso liquore Cointreau qual è il Tartarughino squaderna tra i flash la crapa nuda di Renato Altissimo. E’ l’assai simpatico segretario nazional del Pli, protagonista di nottate di piacevole dissipazione della Repubblica: la “Prima”. Appunto, l’unica. La sera si andava anche in trattoria, i democristiani bussavano alle porte dei conventi e Roma by night – in attesa dei giornali dell’indomani, all’edicola di Largo Chigi – assecondava i rumori della chiassosa comitiva di Gianni De Michelis, insuperato gran signore, il ministro degli Esteri.
Al posto di Andreotti c’è Matteo Renzi e in luogo di Craxi, Silvio Berlusconi. Non c’è più Tanassi, c’è però Angelino Alfano
Era a via del Corso, e poi ancora all’hotel Raphaël – alle spalle di piazza Navona – che planavano le belle figliole in minigonna di pelle in cerca del Cinghialone cui offrirsi, ma la città che dettava il giusto tono era ovviamente Milano, tutta da bere, vissuta giusto un attimo prima di precipitare nella catastrofe di Tangentopoli, quella che Paolo Mieli con una felice espressione definisce “l’infarto della Repubblica”. Sempre della “Prima” si parla e dunque, l’unica. Prima Repubblica e perciò archetipo di tutto il carosello a seguire anche se la muta dei magistrati – giusto per l’urgenza di attualizzare – senza più la bava di Arnaldo Forlani al processo, senza più quei magnifici socialisti in vacanza, ha da azzannare solo la fragile Virginia Raggi. Il sindaco di Roma è l’inerme vittima su cui montare la panna della nemesi. Alla libera stampa, ai giornali autorevoli, non pare manco vero di lanciarsi all’assalto – sono pur sempre 20.000 euro annui al fratello di Raffaele Marra, manco quelli della tangente Siemens, con centinaia di milioni di euro, una sfrontatezza simile – e replicare così, in obbedienza al non detto, la voluttà delle manette. Oltre alla panna, il rosolio del crucifige: beneficiaria di ben due polizze sottoscritte a sua insaputa da un assai saputo Romeo (er mejo der Colosseo).
Tutto torna perché tutto coincide. Per ogni Raggi c’è però una Chiara Appendino. Il sindaco del M5S che succede a Piero Fassino, a Torino, ha buona brezza alle vele, amministra bene ed è stimata. Non c’è però fornace battesimale, sia istituzionale, sia culturale – fatta eccezione di Alessandro Baricco, in considerazione della Scuola Holden – che non s’adoperi per “l’interdetto” sul movimento fondato da Beppe Grillo. Era, quello dell’interdetto, il cardine inamovibile da cui promanava la legittimità politica ed era il Msi – tre milioni di elettori, esiliati in patria – a essere escluso da qualunque concertazione, perfino dai colloqui con gli incaricati alla presidenza del Consiglio (solo Craxi fece eccezione convocando Giorgio Almirante). E sono oggi i Cinque stelle – impresentabili in ragione dei congiuntivi sbagliati – a ricoprire il ruolo dei reietti nella rediviva Repubblica del proporzionale. Con le sorelle Paola e Annalisa Taverna additate tra le erinni dell’antipolitica. E con la società Casaleggio Associati del fu Gianroberto prossima a essere oggetto di una Commissione parlamentare d’inchiesta (da far presiedere a una novella Tina Anselmi, magari Pina Picierno, giusta nel physique du rôle). Torna il proporzionale e bussa alle porte del nuovo la Prima Repubblica. Massimo D’Alema, con la sua proverbiale verve, se la sta scialando rispetto a ciò che sta per accadere.
L’ex presidente del Consiglio, già vincitore col suo No al referendum dove tutte le forze del Bene votavano Sì, parla a un’assemblea del centrosinistra e ride all’idea del “al voto, al voto!” degli sprovveduti renziani: “Forse”, dice gorgogliando allegria, “bisognerà trovare un compromesso per trovare un ragionevole equilibrio fra rappresentanza e governabilità e non precipitare il paese nell’ingovernabilità oppure in un inciucione i cui confini sono difficilmente immaginabili. A conti fatti si rischierebbe un governo M5s-Lega”. Gli uomini e le donne di Beppe Grillo, se non proprio dei fuorilegge, sono considerati quantomeno fuori dalla Costituzione. Malgrado il fragoroso consenso alle urne, e la seria possibilità – ben spiegata da Massimo D’Alema – che possano essere loro, e non tanto Forza Italia in intesa col Pd, a raggiungere il 40 per cento chiamandosi in alleanza, al governo di domani, con la Lega di Matteo Salvini, i Cinque stelle continuano a essere il terzo escluso nella prosecuzione della “conventio ad exludendum 2.0”.
Era, quello dell’interdetto, il cardine inamovibile da cui promanava la legittimità politica ed era il Msi a essere escluso
Digitale o meno che sia, quella dell’Italicum 2.0, è pur sempre un’epifanica incrostazione della partitocrazia. Tutto torna, e quell’unità d’intenti di comunisti e cattolici attesa all’epoca del “compromesso storico”, nel solco di quel che fu il Pci, l’unica opposizione riconosciuta, il partito di Enrico Berlinguer che non governava ma – tacitamente – comandava nel tessuto vivo della società, s’invera oggi nel mainstream. Il Pci – legittimato in virtù dell’Arco costituzionale – senza ministri aveva comunque la presidenza di tutte le commissioni parlamentari, il controllo della magistratura, delle università, della Rai e quell’egemonia culturale che se oggi difetta in conseguenza della catastrofe dell’establishment, regna comunque sovrana in forma di acchiappo degli ultimi privilegi possibili. Nella pur residuale ma pur sempre lussuosa spartizione dell’argenteria, infatti – nei giornali, nei canali televisivi e nell’ancora ricca torta della fabbrica creativa – la nomenclatura perpetua se stessa. Torna tutto. E il revival impone una contradanza. Tramonta il portavoce e risorge il portaborse. Il potere di Filippo Sensi, formidabile sciamano al tempo di Matteo Renzi imperante – molto più discreto nel ruolo, oggi, con Paolo Gentiloni – arretra rispetto alla pletora dei volontari prenotatisi nelle portantine. Il feticcio de’ tempi nuovi – lo smartphone – trova alloggio nelle valigette ventiquattrore accanto alle preziose cartuccelle, fitte di appunti e memoria di “segnalazioni”, inviolabili più di qualunque chat elettronica.
In mancanza di Terza, avendo saltato la Seconda, anche gli accessori della Prima Repubblica fanno la dovuta rentrée. E così le cravatte napoletane di Marinella, o anche certe vetrine romane – i negozi d’abbigliamento Cenci – tornano in voga dopo l’oblio d’obbligo subìto nella stagione della rottamazione renziana. La Smart dell’onorevole Ernesto Carbone – una sorta di zucca fatata su cui Renzi fece il suo ingresso da Cenerentolo a Palazzo Chigi – cede il passo a più consone Audi da doppiopetto, fosse pure da parastatale. Torna finalmente la politica, potrebbe dirsi, tutta di personalità forti forgiatesi nel percorso in salita di dialettica interna e confronto con gli avversari. Ecco, in Transatlantico, alla Camera dei deputati, è tutto un capannello. A presiedere la scena c’è Nico Stumpo. L’uomo forte della “ditta” bersaniana dirige le truppe parlamentari del Pd manco ci fosse Pier Luigi Bersani a Palazzo Chigi e non l’ignaro Paolo Gentiloni. Nico bacia e incontra tutti. Bersani gli sussurra qualcosa all’orecchio, il ministro Andrea Orlando gli strizza l’occhio, e perfino i berlusconiani incrociano il suo sguardo accennando un inchino. Ecco, è tutto un “Nico, dov’è?”, un “Nico, che fa?”. E’ la somma che fa il totale, e quindi si va al punto, alla questione delle questioni: “Nico, quanti seggi scattano al Pd e al partito di D’Alema?”.
Ecco, munito di carta e penna Nico da Catanzaro riceve singolarmente gli astanti e rasserena gli animi dei deputati in cerca di
In Transatlantico è tutto un capannello. A presiedere la scena c’è Nico Stumpo, che dirige le truppe pd, bacia e incontra tutti
un seggio. Tutto a un tratto in Transatlantico si materializzano anche Marco Follini e Giorgio La Malfa e la sovrapposizione delle maschere e dei volti prende il sopravvento sulla dissonanza temporale. Oggi è oggi, ma è proprio come ieri. Follini e La Malfa sono due figure dell’album della Repubblica, la Prima. Uno è democristiano, l’altro è repubblicano. La gens nova in attesa teme la loro apparizione: un seggio anche per loro? Come una sfinge, Nico Stumpo ostenta un silenzio tutto di ammicchi antichi, antichissimi, quasi calabresi. La società liquida dei frou-frou, insomma, come nella profezia di Karl Marx, si dissolve nell’aria e il territorio, invece – la prateria del consenso dove solo a grattare la superfice saltano fuori i voti – porta a compimento la propria condensa di sangue e merda restituendosi ai professionisti della politica. Padroni delle tessere, si sarebbe detto un tempo, e sono sempre loro: cacicchi di provata capacità: una sola, la politica. Giusto nell’etimo, polis, la città di cui conoscono vita, morte e miracoli di cui non si può neppure immaginare altra condizione che quella dei radicati fino a farne una signoria.
Tutto il contrario dei “paracaduti” nei collegi, i nominati, i fedelissimi dei leader bravi solo a dire di sì – volatili quanto a peso politico – e incapaci di farsi votare anche dal proprio vicino di pianerottolo. Torna un’antropologia. Scomparse le vecchie sigle elettorali, fanno di nuovo capolino le correnti. Più che per le affinità, è per le utilità che si aggregano gli apparati della politica. Accaniti, voraci collezionisti di preferenze, vanno ad aggiornare un catalogo di figuri necessarissimi. E’ quello degli alchimisti dei conteggi, inesorabili a trasformare i resti del pallottoliere elettorale in seggi. Non senza un lavoro preparatorio, quasi una gestazione di delicata messa in opera. Spietati nello scannatoio delle correnti, questi stessi, sono registi – infine – delle particolarissime giornate di convocazione di convegni, incontri, conferenze: adunate dove i partecipanti, reclutati secondo un indirizzario, prezioso come un gruzzolo di semini da cui far germinare granai elettorali infiniti. Si è sempre parrocchiani di qualcuno e come quarant’anni or sono, ancora oggi, pur arrivando in ritardo, ognuno sa cosa dover innanzitutto fare: farsi vedere dal “convocante”.
Fosse solo per un istante, anche solo alla fine, comunque fare atto di presenza Dismessa tutta quella stagione di slogan, di hashtag, di tweet e di fredda comunicazione impersonale, già sembra di vedere disegnarsi all’orizzonte il profilo delle corpacciute cartelle, zeppe di lettere di raccomandazione in archivio, tutte calde di contatto umano, tutte uguali nell’incipit: “Caro Onorevole, La prego vivamente…”. Torna la politica e si riversa su Roma l’intera provincia italiana. Questuanti di ogni risma si presentano nelle anticamere delle segreterie politiche di sottosegretari, sottopancia e sottoposti pratici di sottoscala. Le cravatte sbagliate, finalmente, coronano le panze rassicuranti dei nuovi Remo Gaspari, dei futuri Antonio Gava e degli agognati Calogero Volpe. E’, il Volpe, un altro venerando patriarca della Democrazia cristiana che fu, assai vicino alla famiglia dell’attuale capo dello stato, Sergio Mattarella, giusto perché tutto torna e nulla in Italia accade a caso. Uomini d’altri tempi, quelli. Attesi in questi. Uomini della Patria proporzionale, votati all’occorrenza all’inciucio, all’accordo e alla ragionevolezza e che tutto erano fuorché ingrati verso il popolo sovrano che li votava, anzi: assicuravano a tutti uno stipendio, cosa non da poco visti i tempi bui di oggi, da poco scampati ai voucher, ai bonus e alla riduzione della spesa, senza che mai ci fosse un posto dove, la sera, poter andare.
Il Foglio sportivo - in corpore sano