Gogna assassina
L’incidente, il colpevole designato, il delitto, il coro di castigatori. Ripercorrere il caso Vasto, tragedia esemplare con odio in Rete
“… Words are very unnecessary / they could only do harm…” (“Enjoy the silence”, Depeche Mode, 1990) Hanno pensato a Fëdor Dostoevskij, ai Montecchi, ai Capuleti, al Far West, alle guerre tra bande americane, cinesi, giapponesi, ai regolamenti di conti anni Venti, Trenta, Quaranta, ai giustizieri della notte, ai gladiatori, agli odiatori, ai santi, agli eroi, all’assurdità del caso e alla banalità del male. Hanno cercato per giorni le parole, e anche le immagini. Immagini e parole che potessero aiutare a capire che cosa fosse davvero successo il primo febbraio, fuori dal quel bar dal nome incongruo per un wine bar – “Drink Water Cafè” – e lungo quel marciapiede mattonato di viale Perth, a Vasto, provincia di Chieti, dove a metà pomeriggio un giovane uomo, l’ex calciatore e panettiere Fabio Di Lello, 34 anni – vedovo di Roberta Smargiassi, 33 anni, morta il primo luglio scorso nell’impatto tra il suo scooter Yamaha e una Fiat Punto – ha estratto una calibro 9 regolarmente detenuta e ha esploso tre colpi mortali contro un altro giovane uomo: Italo D’Elisa, 22 anni, ex tecnico all’azienda Denso e aspirante volontario della Protezione civile. Colui che la notte del primo luglio era al volante della Punto che ha investito Roberta. Incensurato, non ubriaco, non sotto effetto di stupefacenti, non lanciato a folle velocità al momento di un impatto avvenuto dopo che, dice l’accusa, non era stato rispettato il semaforo rosso, Italo D’Elisa, indagato per omicidio stradale, il 21 febbraio sarebbe dovuto comparire in tribunale per l’udienza preliminare. L’udienza avrebbe deciso del suo futuro: rinviato a giudizio oppure no.
Era un indagato a piede libero, da luglio, Italo, non essendo fuggito la notte dell’incidente e anzi avendo chiamato i soccorsi, non avendo guidato in stato di ebbrezza e non avendo precedenti. Era a piede libero perché, in casi come il suo, questo vogliono la legge e la “giustizia”, molto invocate sui social network nei sette mesi che separano l’incidente dal delitto. Ma il termine “giustizia” è mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda di come lo si guardi, e la giustizia, nel caso Vasto, guardata storta a prescindere, la si sarebbe voluta in azione “on demand”: “Fate presto”, “possibile che nessuno vada in carcere?”, scrivevano sulla pagina Facebook di Di Lello o su altre bacheche ad hoc amici o semplici paladini occasionali, in nome dello slogan “Giustizia per Roberta”, anche striscione della prima fiaccolata commemorativa della donna, fiaccolata da cui, come si vedrà, l’avvitamento mediatico, se non la storia, ha avuto inizio. “Giustizia per Roberta”, “intervento rapido” e “punizione esemplare”, ha chiesto, a un certo punto, fuori da Facebook, anche l’arcivescovo di Chieti Bruno Forte, provocando la reazione del procuratore Giampiero Di Florio, secondo il quale non c’è stata lentezza alcuna, durante le indagini “durate 110 giorni dalla data dell’incidente”, ma molte voci che da un fuori campo virtuale (internet) sono entrate in campo in modo scomposto: “…Vedo una gioventù malsana che non parla più e si affida a questi commenti spregiudicati. Sono forme di violenza anche quelle. Sono veramente stufo di queste comunicazioni in Rete, dove cova l’odio”, ha detto Di Florio. E anche la chiesa sembra essersi spaccata a Vasto, a partire dal web: ai funerali di Italo, le parole del parroco Antonio Totaro sono suonate a molti diverse da quelle dell’arcivescovo. “Basta odio”, ha detto don Antonio, “Basta con questa violenza… Ha perso la città. Noi abbiamo perso… basta con i social. Dobbiamo tornare a parlare tra di noi. Senza conoscere abbiamo condannato”.
Si dà infatti il caso che a Vasto, nei sette mesi che hanno preceduto il delitto, l’odio anti-Italo sia montato prima di tutto in bacheca – bacheca di Facebook. Un odio tanto irrefrenabile quanto sputato fuori in un secondo: scrivo e mi sfogo, scrivo e dimentico di aver scritto, scrivo e mi scarico la coscienza cosiddetta civile e indignata contro “i poteri forti”, non si sa in che cosa implicati in questa vicenda (ma tutto si tiene nel mantra “lo stato protegge le élite e i delinquenti in galera non ci vanno mai”). Scrivo e ci metto la frustrazione per altro, mentre scarico improperi contro l’“assassino” figlio “della casta” (qualcuno, sul web, al principio, come ha raccontato Nicolò Zancan sulla Stampa, pensava che Italo D’Elisa fosse a piede libero in quanto “figlio di un avvocato” – e però D’Elisa è figlio di operai). E l’odio – che non era neppure, almeno inizialmente, quello del diretto interessato Di Lello – oggi è diventato assoluzione collettiva e apologetica per Fabio, con iperbole di colpevolezza: nonostante Fabio abbia ucciso Italo, l’assassino è sempre e comunque Italo, reo senza processo per il Tribunale della Rete. E allora si cerca un punto, il momento in cui è cominciata la doppia discesa agli inferi di Fabio e Italo, Italo e Fabio, due che – tutti e due, dicono parenti e amici – stavano “male”, malissimo, e non dormivano, e tornavano in continuazione con la mente (per motivi diversi, ovvio) alla morte di Roberta, senza poterla dimenticare: uno indagato per omicidio colposo, l’altro vedovo.
Ed è nota la fine: la pistola calibro 9 avvolta in una busta di plastica e lasciata da Fabio, dopo il delitto, sulla tomba di Roberta, prima della dichiarazione dell’anatomopatologo: tre colpi hanno ucciso Italo. La fine è nota e disegnata per terra in viale Perth – un cerchio bianco per ogni proiettile esploso da Di Lello, costituitosi la sera del delitto e ora accusato di omicidio premeditato. La fine è impressa nelle foto del funerale di Italo: palloncini bianchi con sopra scritto “il tuo sorriso restera sempre nei nostri cuori”, mentre tutto attorno, su Facebook, non si spegne il grido contro Italo l’“assassino”, anche se Italo ora è morto per mano di un altro. Anche il principio è noto: ore 23 e 45, primo luglio 2016. Roberta arriva in motorino da via Giulio Cesare. Italo in macchina da corso Mazzini. Semaforo che cambia colore, uno schianto. Ma già due giorni dopo quella sera si sa più di quello che si dovrebbe sapere. Perché, a due giorni dall’incidente mortale per Roberta, il video dello scontro – immagini riprese da una telecamera di sorveglianza – comincia a circolare su Whatsapp e su Facebook. Condiviso come si condivide il video della laurea, delle vacanze, della gaffe di Donald Trump. Ora che il video non si può più vedere, restano fotogrammi e racconti di chi l’ha visto. Si vede la luce bluastra della notte, quella rosata di riflesso di un lampione. Una macchina ferma (non quella di Italo). Una ragazza che arriva (Roberta). Un’altra macchina che arriva da un’altra via (quella di Italo). L’impatto. Roberta che finisce contro il semaforo e poi sbalzata in aria e poi a terra.
Non c’è più niente da fare. Italo si ferma e chiama i soccorsi. Tutto il resto si potrà accertare e capire in un’aula di giustizia. Ma il problema è che sul web è già partita la non-indagine preventiva, con condanna sommaria, e quel video che corre sugli schermi dei telefonini è la prima pietra scagliata e da scagliare ancora e ancora. Eppure c’è un particolare che, visto dalla fine, può stupire: Fabio Di Lello, lo stesso Fabio Di Lello che sette mesi dopo, nel baratro del dolore e della rabbia, ucciderà Italo D’Elisa senza attendere il processo, e Nicolino Smargiassi, padre di Roberta, in quei giorni d’estate denunciano “l’appropriazione fraudolenta” del video suddetto, “coperto da segreto istruttorio”, e la sua diffusione “sprovveduta e irresponsabile” tramite Whatsapp”. E diffidano chiunque “dal pubblicarlo o divulgarlo…”. Ma la realtà era già bifronte. Da un lato la diffida, dall’altro quello che dev’essere sembrato, a Di Lello, un conforto nei primi giorni senza Roberta: tenere viva la memoria di Roberta. A metà luglio, infatti, in una sera di pioggia estiva, lungo i viali, sotto gli ombrelli, si snoda la “fiaccolata sileziosa” per Roberta, quella che parte dall’incrocio dell’incidente, lambisce l’obitorio e arriva sotto al tribunale, dove quel “Giustizia per Roberta” (slogan e striscione, poi anche immagine sulla pagina Facebook di Fabio) prende piede come sussurro e preghiera, prima, e come grido esacerbato da social network, poi: dovete fare presto, sbattetelo in galera. Che cosa si muova sottotraccia, nella mente di Fabio, non si sa. Si sa che Fabio appare sempre più immerso nel gorgo del lutto, nella non-accettazione della vita senza Roberta.
Si sa che, a un mese dalla morte di sua moglie, prima della messa commemorativa, scrive una lettera aperta a Roberta, pubblicata dal portale “Zonalocale”, in cui si domanda “dov’è la giustizia?” e si risponde che “forse non esiste”, mentre rievoca la donna che gli “è stata rubata… rubata ai propri sogni, ai progetti di vita, rubata al suo desiderio di essere madre… al suo sorriso…”. Essere madre: l’altro particolare. Roberta, infatti, il giorno dopo l’incidente avrebbe dovuto comunicare alla famiglia di essere incinta, raccontano gli amici. E da quel giorno però non c’è più Roberta ma Fabio che si avvita su se stesso, seduto davanti alla tomba su una panchina (“fatta mettere apposta”, dicono a Vasto). E Fabio davanti alla tomba pensa, ripensa, parla col suocero, si dimentica della vita là fuori e della sua, di vita (“mangiava persino lì, a volte”, dicono a Vasto). Poi c’è Italo. Anche Italo da quella sera di luglio ha incubi costanti, ogni notte. E di giorno non esce più, tormentato dall’immagine di quella ragazza sbalzata dal motorino, dopo l’impatto con la sua automobile. Italo non ha più la patente e non lavora più, vorrebbe aiutare i terremotati come prima, ma è ricoverato in un centro neurologico perché la mancanza di sonno è troppa.
E c’è il padre di Italo che ha paura per lui, perché quel clima di ostilità collettiva verso il figlio a Vasto non gli piace, e perché vede il ragazzo isolato, emarginato, additato come “assassino”. E in questo balletto macabro di dolori opposti e non confrontabili– eppure ugualmente reali – si inserisce, a fine dicembre, il balletto surreale delle dichiarazioni degli avvocati, sempre online, sul sito Histonium.net. La difesa, nella persona dell’avvocato Pompeo Del Re, afferma che “l’indagato, un giovane di appena 20 anni all’epoca dei fatti”, “profondamente segnato da quanto avvenuto”, non è affatto “un pirata della strada…”. Ma è un’altra la frase che allarma Di Lello: “… La visione dei filmati acquisiti nel corso delle indagini”, dichiara Del Re, “consente di verificare che l’assistito si trovava a percorrere corsia favorita da luce semaforica verde e, giunto all’intersezione con via Giulio Cesare, era costretto ad effettuare manovra di emergenza di sterzata a sinistra, al fine di evitare l’impatto con il motoveicolo… Le riprese video evidenziano, altresì, che alla motociclista il casco, peraltro non integrale, si è sfilato immediatamente…”. La tesi della difesa, dunque, è che “la dinamica del sinistro evidenzi una serie di fatalità non imputabili all'indagato”.
La replica della parte civile, attraverso un comunicato stampa dell’avvocato dei Di Lello Giovanni Cerella, arriva a stretto giro: “Il capo d’imputazione a carico dell’uomo”, dice Cerella, “è omicidio stradale aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale relative all’eccessiva velocità e al mancato rispetto del segnale con luci rosse dell’impianto semaforico… le responsabilità dell’accaduto sono chiaramente ed unicamente riconducibili… all’indagato…”. Ma anche nella dichiarazione della difesa c’è una frase che conterà più delle altre a livello di pre-processo mediatico: “… La famiglia Smargiassi… tiene a precisare che fino ad ora nessun componente della famiglia del 21enne, compreso l’indagato, si è mai messo in contatto con loro per esprimere cordoglio per quanto accaduto…” (particolare smentito pubblicamente dal padre di Italo, il quale sostiene di aver inviato una lettera ai Di Lello, firmata da tutti i D’Elisa). Ed è a quel punto, dopo che le parole di accusa e difesa si rincorrono sul web, che il clash tra contrapposte versioni si fa virulento: i paladini di Di Lello si fissano sul tema “Italo non è sufficientemente pentito” (l’avvocato Cerella, a Radio Capital, dopo la morte di Italo, dirà che Italo “non aveva mostrato segni di pentimento”). Si comincia a pensare che, viste le parole della difesa, Italo possa non andare in carcere come Di Lello si augura. L’Ordine forense di Vasto, nella persona del presidente Vittorio Melone, invita alla “misura” e alla non “spettacolarizzazione”, ma è troppo tardi, il delirio collettivo è già partito.
“Strafottenza”, dicono alcuni di Italo. “Sofferenza”, dice ora suo padre, dichiarando a Repubblica che il figlio è stato uccisoda Di Lello, sì, ma che Di Lello ha ucciso “un uomo morto”, tanto Italo era traumatizzato dalla gogna internettiana che lo seguiva anche fuori dal web, sotto forma di manifesti ostili affissi in città e ostracismo. E la gogna prosegue post-mortem, nei gruppi (poi chiusi) inneggianti a “Italo D’Elisa, uno di meno” o “Italo D’Elisa- la giusta fine”, e nei commenti tipo quello apparso qualche giorno fa sul sito del Giornale, in cui tale “blackindustri” plaudiva “al gesto di obbligata giustizia fai da te” di un “povero ragazzo esasperato sbattuto in galera” contro lo “sbruffone che ora potrà fare il figo al bar dell’inferno”. Pochi caratteri, e si aizza la rabbia un tanto al chilo di una platea dormiente, pronta all’insurrezione comoda del clic. Pochi caratteri e si solleva la virulenza degli arrabbiati seriali del web, quelli che ogni volta che c’è da gridare “stato assente, difendi solo i ladri” si levano come un sol uomo senza pensare alle conseguenze. Ognuno è responsabile per sé, dice il procuratore Di Florio di fronte alla constatazione anche sconsolata di “non poter indagare un clima”, mentre il ministro della Giustizia Andrea Orlando definisce “inaccettabile” lo “scaricare” sulla giurisdizione l’omicidio di Vasto, e il sindaco di Vasto Francesco Menna invita a non dividersi “in tifoserie”.
Con le luci che calano sulla scena del delitto, fluttuano nell’aria non soltanto le parole del padre di Italo, ma anche quelle della madre di Fabio, che pochi giorni prima del delitto aveva chiesto ai medici che avevano in cura Fabio di ricoverarlo, perché stava male, molto male, e nei giorni successivi al delitto ha detto che avrebbe voluto andare al funerale di Italo, per chiedergli “scusa di tutto”, perché “era solo un bambino”, perché non immaginava che suo figlio Fabio “arrivasse quel punto”, e però poi lei e suo marito non avevano avuto il coraggio di andarci, al funerale, perché forse non sarebbe stato neanche giusto, e allora avevano mandato una corona di fiori. E si resta così, a domandarsi quanto abbia influito quella che Francesco Merlo, su Repubblica, ha chiamato “complicità ambientale” nell’omicidio con “dettaglio da reality macho-noir” della pistola posata sulla tomba, “tragedia esemplare” nell’Italia “eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale”. E quanto ha contato, al cuore della tragedia stessa, il fatto che il linciaggio, come scrive Mattia Feltri nel suo “Buongiorno” sulla Stampa, sia “il modo più comodo e sommario di sentirsi migliori del linciato”? Difficile capire se i tanti singoli inferociti a parole sul web perdano davvero “il contatto con la realtà”, come dicono gli psicologi. E se quell’odio epidermico da pochi caratteri, lanciato in Rete in nome di una fantomatica “giustizia”, si sia fatto davvero formula magica che soffoca l’onere di ragionare con la propria testa.
Il Foglio sportivo - in corpore sano