Ricostruire la memoria
Dopo decenni di battaglie burocratiche riapre il Filadelfia, lo stadio del Grande Torino. Lo abbiamo visitato in anteprima. Il significato non solo sportivo della ricostruzione
Ogni volta che parla del Toro, Renato Zaccarelli si commuove. Gli succede così da una vita, qualche volta persino durante le telecronache che fa su Sky. Gli è successo poche settimane fa, quando ha commentato il saluto di Giuseppe Vives, sei stagioni nel Torino, alla curva Maratona prima di andare a giocare da un’altra parte. Mentre le immagini ci restituivano un Vives in lacrime, l’audio ci svelava la voce rotta di Zaccarelli, che sotto quella curva è stato tante volte, da giocatore, dirigente e allenatore. Si commuove anche quando ci racconta come venivano lavate le maglie dei calciatori dopo le partite della domenica, negli anni Settanta e Ottanta. E’ una fredda mattinata di gennaio a Torino, e assieme a Renato Zaccarelli entriamo nel cantiere del Filadelfia, lo storico stadio che dal 1926 al 1963 ospitò la squadra granata, quello in cui il Grande Torino vinse cinque scudetti consecutivi e scrisse molti record ancora imbattuti nel campionato di calcio italiano. Siamo nel centro della città, più vicini ai quartieri popolari che al salotto buono, i palazzi che circondano il campo ci guardano dall’alto. In questo stadio il Torino si è allenato fino al 1989. Otto anni più tardi, dopo diversi tentativi falliti di ristrutturazione, l’impianto è stato quasi completamente raso al suolo: la promessa era di ricostruirlo al più presto, e per farlo erano stati chiesti anche soldi ai tifosi con una sottoscrizione popolare: 100.000 lire per avere il proprio nome scritto su un mattone del nuovo Filadelfia. Come spesso succede a Torino se non si sta dalla parte “giusta” della città, ci sono stati negli anni impicci burocratici, divieti, retromarce e scontri di interessi che hanno impedito al progetto di ricostruzione di svilupparsi e diventare realtà. Più i progetti diventavano ambiziosi – si arrivò persino a parlare di un impianto da 35.000 posti – più gli intoppi aumentavano.
Il resto del disastro lo hanno fatto presidenti interessati solo allo sfruttamento commerciale dell’area. In un decennio, il Filadelfia è diventato un prato brullo e pieno di sterpaglie, circondato da muri in rovina. Solo l’amore dei tifosi ha impedito che le cose peggiorassero ancora: c’era chi saltuariamente tagliava l’erba, chi vegliava sui ruderi e chi non smetteva di provare a ricostruirlo. Quando nel 2005 Urbano Cairo diventò presidente del Toro, in molti si riaccese la speranza di tornare a vedere giocare la squadra al Filadelfia. A differenza dei predecessori, Cairo non fece però mai promesse roboanti sulla ricostruzione dello stadio. Quell’anno i tifosi ripulirono il campo e organizzarono un’amichevole con ex giocatori granata per ricordare a se stessi e alla città che quel luogo apparteneva alla storia del Torino e non poteva essere abbandonato. Presto però arrivarono i divieti: per motivi di sicurezza il comune impedì l’accesso alle persone fino al 2009.
In quegli anni il campo che fu calpestato da Valentino Mazzola divenne luogo di spaccio, dimora di senzatetto e persino coltivato a orto. Un gruppo di tifosi allora si organizzò e cominciò a pulirlo regolarmente, fino a che quello che rimaneva del Filadelfia non tornò a essere un luogo granata. Nel maggio del 2007 il presidente Cairo finalmente promise ai tifosi che lo avrebbe ricostruito, come ricorda lui stesso parlando con il Foglio: “Fu prima di una partita con l’Ascoli, e in quell’occasione dissi che mi sarei impegnato a rifarlo”. Dieci anni dopo la promessa è mantenuta. “Non solo per merito mio – ammette Cairo – i tifosi hanno fatto gran parte del lavoro, ma la società ha dato una spinta decisiva”. “E’ molto diverso da un tempo”, sussurra Zaccarelli mentre entriamo nel cantiere, evitando le buche nel piazzale della Memoria, lo spazio davanti allo stadio che diventerà il luogo che accoglierà i tifosi all’ingresso. Lui ci ha passato una vita, arrivandoci ragazzo nel 1969 e andandosene uomo nel 1987, dopo avere vinto uno scudetto, una Coppa Italia ed essere stato uno dei capitani più amati del Torino. Mentre visitiamo la zona che diventerà la palestra in cui si allenerà la prima squadra, proprio di fianco al campo principale, sotto alla tribuna, gli chiedo che effetto gli faccia vedere ricostruita quella che è stata casa sua per tanto tempo: “E’ tutto diverso, ma è importante che questo luogo torni a vivere”.
Walter Novellino, ex giocatore e allenatore granata, diceva che “al Filadelfia c’erano uomini che sembravano muri e muri che sembravano uomini”. Zaccarelli evita la retorica, ma dice la stessa cosa quando racconta – gli occhi di nuovo lucidi – degli allenamenti negli anni Settanta o delle scaramanzie della squadra nella stagione dell’ultimo scudetto. Il Filadelfia è stato per decenni sorgente viva di memoria per tutti quelli che ci passavano, giocatori, tifosi, allenatori, dirigenti o semplici magazzinieri. La prima volta che ci sono entrato avevo sette anni, c’era un provino per far parte dei “pulcini” del Toro e io aspettavo sulla vecchia tribuna che chiamassero il mio nome dall’altoparlante per entrare in campo. Mi sono allenato lì per un anno, respirando a contatto con la prima squadra e i vecchi tifosi che assistevano a tutti gli allenamenti, e sapevano raccontarti per ore i dettagli di una partita del Grande Torino vista coi loro occhi su quegli spalti. Era un popolo che viveva unito, i vecchi a tramandare il passato e i giovani a giocarselo nel presente. Da quel luogo sacro il Torino traeva gran parte della propria forza, faceva crescere i migliori giovani calciatori in Italia, vincendo scudetti primavera e lanciando grandi promesse.
Tra queste mura nasceva il “tremendismo”, come da definizione di Giovanni Arpino. “Non basterà ricostruire le mura per ritrovare quello spirito”, sospira Zaccarelli, “è proprio il calcio che è cambiato”. Per spiegarlo fa un esempio, indicando una parte dei vecchi spalti ancora in piedi, che verrà inglobata nel nuovo impianto: “Proprio là sotto c’erano le signore che tutte le settimane dopo le partite lavavano a mano le maglie con cui avevamo giocato la domenica. E se per caso avevamo perso erano le prime a rimproverarci”. Con noi c’è il presidente della Fondazione Filadelfia, Cesare Salvadori, che da volontario segue il progetto della rinascita dello stadio dagli inizi. Dopo la palestra saliamo sugli spalti della tribuna, ci accompagnano i due architetti che hanno immaginato e progettato il nuovo Fila, Eraldo Martinetto e Marco Aimetti, entrambi tifosi del Toro. Il prato è già verde, e fa impressione vederlo dall’alto, dato che fino a un anno e mezzo fa lì c’erano solo rovi e sterpaglie. Arrivati in cima alla tribuna Zaccarelli si affaccia per guardare il campo secondario, alle nostre spalle, e indica un palazzo costruito proprio a ridosso: “La vedete quella finestra? Per anni io ho abitato lì, praticamente dentro a dove mi allenavo”, sorride.
Il primo lotto del nuovo Filadelfia, quello con i due campi di allenamento, gli spalti, la palestra e i principali spogliatoi verrà terminato in aprile, e inaugurato il 25 maggio. Con il secondo lotto, per cui ancora non ci sono tutti i soldi necessari, si prevede di ultimare gli spazi per la sede del club, la sala stampa, una caffetteria interna e una foresteria che ospiterà alcuni dei ragazzi delle giovanili. Che dormiranno dentro al Filadelfia. E’ un tentativo fatto con il cuore di ricreare quell’atmosfera che rese unico il Torino nei decenni passati, questo nuovo Filadelfia. Non sarà la stessa cosa – anche se il progetto rispetta l’armonia del precedente stadio – ma può essere la stessa cosa: un simbolo serve a rendere presente la memoria. “Siamo qui per amore del Toro e del Fila – ci dice Salvadori, presidente della Fondazione – siamo volontari, senza stipendio”. Dopo le fregature degli anni passati si va avanti un passo alla volta. “Intanto consegniamo la parte sportiva terminata e poi andremo avanti con gli altri lavori man mano che arriveranno i soldi”. Parte dei soldi è già arrivata, da comune, regione e dalla fondazione che Urbano Cairo ha intitolato a sua madre, grande tifosa del Toro. Altri arriveranno dall’affitto – apposta un po’ più alto – che il Torino pagherà per usare lo stadio: non essendo a scopo di lucro, la Fondazione Filadelfia userà ogni centesimo per proseguire con il secondo lotto, e poi con il terzo – che comprende il museo e la zona commerciale.
Altro denaro dovrebbe arrivare dagli sponsor e dai tifosi, che sul sito della Fondazione possono “comprare” un pezzo di stadio, vedendo il proprio nome scritto su una parete ad hoc o addirittura su un seggiolino. Con una tifoseria appassionata come quella torinista, che più volte nella propria storia ha cullato anche il sogno di un azionariato popolare “alla spagnola”, dovrebbe essere un invito a nozze. Invece sono ancora troppo pochi quelli che hanno comprato un posto o fatto un’offerta per ricostruire “il tempio”, come lo chiamano gli iniziati al culto granata. “E’ una grande soddisfazione che il Filadelfia risorga – ci dice ancora Cairo – era un vero peccato che fosse stato lasciato cadere in rovina”. Quando la prima squadra inizierà ad allenarsi regolarmente qui, il Torino diventerà un caso quasi unico nel calcio italiano, essendo una delle pochissime società ad avere il proprio centro sportivo nel cuore della città, a poche centinaia di metri dallo stadio in cui gioca la domenica, l’Olimpico Grande Torino, e in un quartiere ad alto tasso di fede granata tra i suoi abitanti. Uno “stile inglese” che le grandi di serie A hanno volutamente rifiutato, andando ad allenarsi in campi inaccessibili e fuori dalla città (la Juventus a Vinovo, la Roma a Trigoria, il Milan e l’Inter a Milanello e alla Pinetina, e così via). Non è uno stadio di proprietà, ma un primo passo importante. “Sono sicuro che il nuovo Filadelfia – continua Cairo – aiuterà ad aumentare la coesione tra squadra, società, tifosi e giovanili, ricreando un centro granata doc su un suolo sacro come quello del campo del Grande Torino. La nostra è una tifoseria unica, lo merita”.
Il Filadelfia verrà inaugurato pochi mesi dopo l’arrivo su Sky di Torino Channel, altro mattone nell’operazione pensata per solleticare l’orgoglio e l’identità granata dei tifosi. Operazione che si completerebbe idealmente – in attesa che la prima squadra torni a vincere qualcosa – con il centro sportivo Robaldo, 45 mila metri quadri in cui si alleneranno tutte le giovanili del Torino: terreno che la società si è aggiudicato un anno fa ma su cui pesano colpevolmente alcuni ritardi amministrativi da parte del comune guidato dal sindaco Chiara Appendino. Prima di terminare il nostro giro con Renato Zaccarelli passiamo negli spogliatoi, costruiti secondo le indicazioni dell’attuale allenatore granata, Sinisa Mihajlovic, e saliamo le scalette che porteranno al campo. Proprio in cima c’è una zolla “sacra”, l’ultimo pezzo originale del vecchio prato del Filadelfia, che i giocatori calpesteranno prima di entrare in campo.
Gli architetti Martinetto e Aimetti ci accompagnano nel garage da 50 posti, ci parlano dei 25 km di tubi che sono stati messi giù, del milione e 500 mila semi piantati sui due campi. Parlano del nuovo Fila con l’orgoglio commosso di chi sta realizzando un sogno. Ci mostrano la struttura a boomerang della tribuna, composta da dodici elementi che guardano, dall’altra parte del piazzale della Memoria – che divide il campo principale da quello secondario – altrettanti piloni: ognuno di essi sarà dedicato a giocatori simbolo o momenti storici della storia del Toro. Perché dodici?, chiediamo intuendo la risposta. “In onore del dodicesimo uomo in campo – ci risponde Martinetto – la curva Maratona”. Guardando ancora una volta la struttura che circonda il campo, Zaccarelli sorride. Gli alti pali sui tre lati senza tribuna serviranno a tenere una struttura che impedirà a chi è fuori di vedere cosa succede in campo. “Come se la vecchietta al quinto piano del palazzo qua di fronte prendesse appunti degli schemi per passarli di nascosto ai prossimi avversari del Toro”, scherza l’ex capitano. Lui era stato al Filadelfia pochi giorni prima con Joe Hart, il portiere che quest’anno difende la porta granata, numero uno anche della Nazionale inglese. “Oggi il calcio è frenetico – dice Zaccarelli – si cambia squadra continuamente ed è difficile affezionarsi a una maglia, capirne la storia”. Serve una vita per immedesimarsi in un popolo, o un cuore enorme. Occorrono pazienza e convivenza, e uomini che danno la vita per un ideale da guardare tutti i giorni: siano essi magazzinieri, autisti, massaggiatori o le signore che lavano le maglie a mano. Oltre ai muri e al prato bisognerà ricostruire tutto questo. Per farlo basterà un popolo che dovrà tornare ad abitare quei luoghi come faceva un tempo. (Ha collaborato Giorgia Mecca)
Il Foglio sportivo - in corpore sano