Nuovo cinema Campidoglio
Manco fosse un film con Alberto Sordi. Misteri, miserie e stramberie di una classe politica stracotta alla vaccinara. Un giorno in comune. La sindaca? C’è, ma non c’è
"Mangia solo frutta secca, sai?". “Come frutta secca?”. “Sì sì. Ma non l’hai letto Simone Canettieri sul Messaggero? Lei apre un cassetto della scrivania e acchiappa quelle bacche rosse cinesi. Sono pure lassative. Com’è che si chiamavano?”. “Ah, le bacche di Goji?”. “Goji, sì. So’ vegane. Fanno veramente schifo”. La Sala della Protomoteca capitolina pullula di telecamere, cronisti e microfoni, una ventina di persone sono tutte buttate a ridosso di un lungo tavolone rettangolare e seicentesco dal quale dovrebbe parlare lei, la sindaca, Virginia Raggi. E’ martedì 14 febbraio, e la giornata è parecchio convulsa. Il costruttore Luca Parnasi e i delegati della Roma – la squadra di calcio – si aggirano segretamente tra il secondo e il terzo piano del Campidoglio, e si sono portati dietro un “rendering” del nuovo quartiere che dovrebbe sorgere intorno al nuovo stadio della Roma. L’assessore all’urbanistica, Paolo Berdini, è mezzo dimissionato (e finirà dimissionario la sera stessa in polemica con lo stadio e con la sindaca, ma ancora non lo sa nessuno). E intanto, fuori, sulla piazza michelangiolesca, c’è un picchetto di dipendenti di una società partecipata dell’Atac che protestano e provano a forzare le transenne e il blocco dei vigili urbani. “Ahò e fatece passà. Nun ce pagano li stipendi da du’ mesi”. Inoltre c’è Consiglio comunale. E così nel Palazzo circolano le facce più note, e anche quelle più improbabili. I cameraman urlano: “Abbàssate!”, i fotografi, di rimando: “E lévate!”. “A coso, spòstate”. E si assiste a una scena di rara imbecillità collettiva, come quando nei “Promessi Sposi”, dopo il tumulto dei forni, arriva Ferrer, e allora per vederlo tutti si mettono in punta di piedi, trovandosi nella condizione di partenza. E infatti, ovviamente, quando finalmente spunta Virginia Raggi, nella famosa Sala della Protomoteca nessuno vede un tubo. Ma qualcuno urla: “Ahò, er microfono!”. Ed è a questo punto che succede una cosa fantastica.
Dal codazzo di uomini dello staff che circonda la sindaca minuta e pallida – codazzo da cui emerge la figura allampanata del portavoce del sindaco, Teodoro Fulgione, un serissimo e bravissimo giornalista dell’Ansa che adesso deve obbedire a Rocco Casalino del Grande Fratello – si stacca una voce sonora come una pernacchia: “Tanto non parla”. E davvero sembra di essere in un film di Alberto Sordi, o forse in una commedia surreale di Ionesco: Come non parla? Ma se è una conferenza stampa! “Ehhhh, ma te lo sai come la chiamano?”. “Come la chiamano?”. “Pure i suoi la chiamano Ologramma”. E se c’è una cosa che a Roma c’è sempre stata, elemento essenziale di ogni sua componente rituale, anche con i grillini al potere, sono i soprannomi. Nomi, pronomi e nomignoli sempre strategicamente posizionati tra “Febbre da cavallo” (comprensivi delle immortali figure der Pomata e di Mandrake) e “Romanzo criminale” (scivolando tra il Freddo e il Libanese). Rutelli era “Cicciobello”, Alemanno era “Retromanno”, Virginia Raggi invece è “Ologramma”. C’è, ma è come se non ci fosse. Il più oscuro tra i misteri del Campidoglio è cosa faccia la sindaca tutto il giorno. Si sa che si alza alle 10 e 30, arriva in Comune, ed è praticamente sola. Ad attenderla, assieme al portavoce, c’è un ragazzino di circa vent’anni, Fabrizio Belfiori, suo segretario particolare e militante cinque stelle. Poi il buio. La sindaca entra in Campidoglio come si entra in un buco nero, scompare.
C’è la riunione definitiva sullo stadio della Roma? E lei non c’è (ma c’è il vicesindaco – o sindaco ombra – Luca Bergamo). C’è consiglio comunale sui “punti verde qualità”? E lei non c’è (ma c’è l’assessore al Bilancio Andrea Mazzillo, molto famoso per aver confessato un giorno a Federico Capurso della Stampa che “non c’era nessuno per fare l’assessore al Bilancio a Roma, dunque eccomi qua”). E d’altra parte per mesi Virginia Raggi ha disertato persino gli incontri istituzionali con il Vaticano. Così, in questo luogo perennemente sul filo di lana tra palcoscenico e bordello, in questo magnifico palazzo in cui tutto sembra immerso in un linguaggio di sbruffoneria parolaia, popolato com’è d’individui ansimanti nell’inventare battute ed esagerazioni con velocità oppressiva – gli uscieri del Campidoglio che parlano di calcio con le gambe poggiate sui tavoli sono uno spettacolo nello spettacolo, come i dipendenti dell’ufficio stampa del comune che i grillini, non fidandosi, hanno trasformato in inviatori seriali di smentite precompilate via email (e allora loro stanno al bar tutto il giorno) – in questo luogo, si diceva, che sta a metà tra la pennichella e la coda alla vaccinara, tra trivio e il caos, e dove nessuno si nasconde (o si vergogna), l’ologramma Virginia Raggi, la sindaca che c’è ma non c’è, con la sua evanescenza persino fisica, è un caso, forse prima antropologico che politico.
Entrare in Aula Giulio Cesare durante il Consiglio comunale è un’epifania, un’esperienza che rivela. Prima di tutto serve a capire dove stanno tutti i vigili urbani della capitale, quelli che per strada sono più rari del panda albino: sono tutti qua dentro. Ce ne sono undici in Aula, quattro nell’anticamera, sette all’ingresso, e altrettanti sulle scale, sotto la statua della Lupa. D’altra parte, ogni volta che c’è Consiglio comunale, fuori c’è qualcuno che protesta, strepita, spintona, e che spesso riesce pure a entrare, e a occupare il Campidoglio con urla e striscioni. In un angolo, accanto alla finestra che guarda sulla statua di Marco Aurelio a cavallo, c’è già un capannello sospetto di donne in leggings, piumini e buste del supermercato. Hanno un’aria agguerritissima. Avvicinandosi si colgono spizzichi di discorsi dal tono drammatico e vagabondo – “Te ricordi quanno avemo fatto entra’ gli ottanta colleghi licenziati dall’Atac? Ce stava Panzironi… Ora sta ‘dentro’… Sta dentro pure per qualche ‘parola’ mia”. Qualcosa forse bolle in pentola. Ma occupare un’Aula semi deserta deve apparire inutile persino a loro. Intanto gli undici vigili sembrano non accorgersi di nulla, nemmeno di quello strano tipo che nell’angolo opposto, quasi sotto quella che sembra essere una statua originale romana di Augusto imperatore, sta parlando ad alta voce a telefono, ma dando le spalle ai consiglieri comunali (e ai vigili), come se tutti i presenti, non vedendogli la faccia, potessero anche non sentirlo mentre bercia, durante la seduta: “T’ho detto de no. NO. NO. NOOOOOOO. HAI CAPITO?!…”. Sugli scranni semivuoti e orrendi – Alemanno, altro che mafia capitale, fece sostituire i banchi antichi e glosiosi di Ernesto Nathan con questi moderni, che sembrano casse da morto in compensato e plexiglass – ci sono appena una decina di consiglieri. Quelli della destra sono soltanto tre, i più numerosi sono i cinquestelle e quelli del Pd.
In particolare, un tale Cozzoli (eletto con Marchini, ma passato dopo un mese all’Udc), sta parlando praticamente da solo, in piedi, appoggiato al suo banco – mentre un giovane con cappellino da baseball e giaccone militare, con le membra abbandonate su una delle poltroncine riservate al pubblico, gioca svogliatamente al poker on-line, e raramente lo degna di uno sguardo assente. Ma Cozzoli è impermeabile. Si rivolge, malgrado tutto, all’aula sonnecchiante. E con il tono compreso di sé che doveva avere De Gasperi alla conferenza di pace di Parigi, dice, al netto dell’inflessione romanesca: “Quello su cui voglio invitarvi a riflettere…”. Ma far riflettere chi? Non c’è nessuno. La vita vera è poco più in là, tra il bar, dove è stata appiccicato con lo scoth un foglio di carta formato A4 che reclamizza “cappuccino di soja 1,50 euro”, e il cortile, dove tutti fumano e buttano le cicche in un’antica e magnifica fontanella di marmo che deve aver visto tempi migliori. A parte auliche suonate su pini e tramonti, è forse la romanità a conferire la sua evocata e risaputa volgarità, che qui, in Campidoglio, è un tripudio esplosivo. Così, quando ci si imbatte in Massimo Colomban, l’imprenditore venuto dal nord a fare l’assessore alle Partecipate, improvvisamente il suo abito di taglio perfetto, i suoi modi garbati e il suo accento veneto, suonano violentemente fuori luogo. Ma lei si è abituato? Ma come fa? Che ci fa qui lei? “Non ci si abitua mai”, dice lui sorridendo, e forse in realtà senza capire, mentre con gentilezza, e un po’ di imbarazzo, si defila dai giornalisti che cominciano ad avvicinarsi. Tra stampa e cinque stelle i rapporti sono per così dire complicati. “Cittadino non rilasciare dichiarazioni alla stampa bugiarda”. La frase è un po’ comica, ma vera (nel senso che la dicono).
Quando infatti Daniele Diaco, giovane consigliere comunale, presidente della commissione ambiente, fa il suo ingresso al bar per fare merenda con un mandarino (è ovviamente vegano), compare alle sue spalle, ma alla distanza di circa dieci passi, un ragazzo dell’ufficio stampa del Movimento. Così appena un giornalista si avvicina, anche lui si avvicina. Quando poi il giornalista si affianca, anche lui si affianca. E quando il giornalista finalmente comincia a parlare, a domandare, allora immancabilmente un ditino si poggia sulla spalla del consigliere comunale grillino – pat pat – per ricordargli che ci sono delle “cose molto urgenti da fare”. Scatta una specie di allarme invisibile. Sono terrorizzati non dai giornalisti, in realtà, ma da quello che potrebbe sfuggire – vedi Berdini – ai loro eletti. Ed è in questo baretto che imita in sedicesimo la bouvette di Montecitorio, ma dove camerieri in livrea bisunta cantano e ballano canzoni di Sanremo mentre servono il cappuccino, che si realizza l’incontro visivo tra il vecchio potere romano e il nuovo potere romano: tra i grillini sotto controllo dello staff e ciò che resta del Pd. “Ah, il romanesimo!”, sospirava Alberto Arbasino su Roma capoccia, che è definizione ben più calzante ed esatta di romanesco, perché è qualcosa d’incarnato, definito, e probabilmente incurabile.
Basta infatti sollevare lo sguardo e tagliare la nuvola di fumo di sigaretta per confrontare facce e fisionomie che affollano questo cortiletto oscurato da una tettoia in metallo e plexiglass di dubbio gusto, tutto un esercizio che sarebbe piaciuto a Cesare Lombroso. Abbandonato il mandarino vegano di Daniele Diaco, ecco infatti a un tavolino, in fondo al cortiletto affollato dai dipendenti comunali in sempiterna pausa caffè, Enzo Foschi, ex consigliere regionale, ex braccio destro di Ignazio Marino: fu accusato, tra le altre cose, di aver finanziato con i soldi del gruppo regionale un murales al Quadraro. E se non fossimo a Roma, tra trivio e caos, puntarelle e sbrachi dialettali, se non fossimo nella commedia italiana, subito il pensiero correrebbe ai due estremi emblematici: il virtuoso, incorruttibile, sanguinario Robespierre, e il principe di Talleyrand, scialacquatore e tangentista. Ma uno normale? Fuori intanto è quasi tramontato il sole, e i dipendenti delle pulizie Atac hanno forzato le transenne dei vigili urbani. E’ arrivata anche la polizia in tenuta anti sommossa. Una giovane funzionaria della Digos sospira, “non li pagano da due mesi. C’hanno ragione pure loro”. Accadeva prima di Virginia Raggi, continua ad accadere. E ogni cosa a Roma ha questo senso dell’identico ritorno – nel gesto, s’intende. Scese le scale monumentali, su piazza Venezia, riecco la città, le buche stradali che sempre là stanno, chiunque governi, quelle a sprofondamento e quelle a groviera, quelle a grappolo e quelle a tronco di cono. E un po’ si avverte un principio di dissolvenza, come quando un film sta per finire.
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