E Davide divenne Golia
Che cosa ha spinto Israele a trasformarsi in una superpotenza militare? La paura. Così il paese “un po’ Rambo e un po’ Primo Levi” è diventato un modello per tutto il mondo
Il regista francese Claude Lanzmann una volta ha detto che i paracadutisti israeliani sono di un altro tipo rispetto ai parà francesi: “La prova è che hanno ancora i capelli”. L’autore del monumentale “Shoah” voleva dire che gli israeliani sono grandi soldati per necessità, non per militarismo. Sono pochi, circondati da nemici implacabili, venti volte più numerosi: per sopravvivere, Israele deve vincere subito e con un successo risolutivo. Lo scrittore Amos Oz ha dato forse la migliore definizione di Israele: “Di giorno è Rambo, ma di notte si trasforma in un fragile Primo Levi”. La superiorità tecnica ha contribuito alle vittorie; ma è valsa soprattutto la volontà di non morire come popolo. Ancora oggi basta un annuncio convenzionale alla radio perché uomini e donne corrano al fronte, spesso in autostop. Qualcuno, convinto di esaltare la stupefacente vittoria nella Guerra dei sei giorni, ha definito Israele “la moderna Sparta”; altri, meno benevoli, l’hanno definita “la piccola Prussia mediorientale”, un paese militarista e sciovinista da tener d’occhio. Sono state le condizioni esterne, la feroce ostilità degli arabi, a costringere gli israeliani a dormire col fucile e guidare il trattore col mitra, a essere perennemente dei soldati. Se fossero stati riconosciuti dagli arabi come stato che ha diritto di esistere entro confini pacificati, gli israeliani avrebbero investito altrove i miliardi che sono stati costretti a spendere in armi.
La popolazione d’Israele non ha, infatti, nulla in comune con l’immagine che ci siamo fatta degli spartani. Sono molto più simili agli italiani e piacerebbe loro vivere bene, in una casa confortevole, divertirsi e godersi la vita. Ma gli arabi non glielo consentono, e devono alternare i brevi momenti di esistenza piacevole alle guerre ricorrenti. Per la posizione geografica e la popolazione, Israele non può affrontare una guerra di logoramento. Deve vincere subito e bene. Nel 1967 due milioni e mezzo di israeliani hanno così sbaragliato in tre giorni trenta milioni di arabi forniti di mezzi bellici almeno tre volte superiori ai loro.
Adesso un libro racconta come Israele è diventato una superpotenza militare. Si tratta di “The weapon wizards”, i maghi delle armi, a firma di Yaakov Katz e Amir Bohbot, due giornalisti israeliani esperti di sicurezza. Israele è un paese di otto milioni di abitanti circondato da ogni lato da nemici che vorrebbero cancellarlo dalla mappa geografica: Hezbollah a nord, Hamas a sud, Bashar al Assad, Stato Islamico e Iran a est. Eppure questa piccola nazione ha costruito un sistema di difesa missilistico, una aviazione e una serie di apparecchi di intelligence per i quali è venerato in tutto il mondo e copiato dai militari degli Stati Uniti, tra molti altri. Israele è stato il primo paese occidentale a combattere contro le armi sovietiche in Egitto e Siria e il primo stato moderno ad affrontare il terrorismo suicida nelle sue strade, molto prima che New York o Londra, Madrid e altre capitali in Europa venissero sventrate dai kamikaze islamici.
Da un possibile attacco militare contro l’Iran alla caccia di un sospetto terrorista in Cisgiordania, Israele affronta prima e più minacce rispetto alla maggior parte dei paesi ed è in continuo sviluppo nella sua tecnologia militare. Il virus Stuxnet, nel 2010, è stato uno dei primi attacchi informatici nella storia e si ritiene che sia stata l’opera di israeliani che volevano manomettere e rallentare il programma atomico iraniano. Essendo l’obiettivo dei terroristi di tutto il mondo, Israele è stato costretto a diventare una sorta di laboratorio militare. I passeggeri delle linee aeree commerciali israeliane, per esempio, sono stati le prime vittime dei dirottamenti internazionali al mondo. I commando israeliani hanno condotto il primo salvataggio di ostaggi di una compagnia aerea nel 1972 e poi di nuovo a Entebbe nel 1976. L’americana Delta Force è stata fondata proprio emulando quella leggendaria operazione israeliana in Uganda. Donald Trump sta studiando i modelli israeliani di “fence”, i recinti di sicurezza, per costruirne uno al confine col Messico. Il Pentagono ha copiato le tattiche israeliane utilizzate durante l’Intifada per adattarle alla guerriglia urbana islamista in Iraq e in Afghanistan. Queste tecniche israeliane comprendono lo sviluppo di unità dell’esercito, come la “Shatzi”, che hanno una conoscenza completa degli obiettivi da colpire (sono loro ad aver stilato la lista dei terroristi da uccidere a Gaza). E’ israeliana l’azienda che produce i veicoli e che in Iraq e Afghanistan gli americani hanno usato per far fronte alle bombe nel sottosuolo. Si chiama “Plasan Sasa” e ha sede in uno sperduto kibbutz del nord, al confine col Libano. I suoi profitti, da 23 milioni di dollari nel 2003, sono passati a 500 nel 2011. Israele ha aperto la strada all’uso di elicotteri per operazioni mirate e ai droni, entrambi usati dagli Stati Uniti contro le cellule terroristiche in Pakistan e Yemen. C’è il sistema di difesa antimissile Iron Dome, concepito per intercettare razzi lanciati da Hezbollah dal Libano e da Hamas da Gaza. E ha raggiunto incredibili percentuali di successo.
Durante gli otto giorni di guerra a Gaza nel 2012, le batterie di Iron Dome hanno abbattuto quasi l’85 per cento dei missili in direzione di Israele. Durante l’operazione anti Hamas nell’estate del 2014, Iron Dome ha realizzato un 90 per cento di tasso di successo. La “cupola di ferro” è stata sviluppata dalla Rafael Defense Advanced Systems. La sede della società di missili è in Galilea, non lontano dal confine con il Libano. Molti degli ingegneri della Rafael vivono nel nord di Israele e hanno combattuto nella riserva durante la guerra del 2006 contro Hezbollah o hanno trascorso 34 giorni nei rifugi sotto gli attacchi missilistici. In altre parole, hanno molto più di una comprensione scientifica e meccanica della minaccia che essi stavano cercando di rendere inoffensiva.
Negli ultimi trent’anni, per esempio, Israele è stato il numero uno al mondo come esportatore di droni, responsabili del 60 per cento del mercato globale (la quota degli Stati Uniti delle esportazioni mondiali è meno della metà). Per la sua volontà di vendere i suoi droni e molti altri prodotti tecnologici di difesa all’estero, tra cui la Cina, Israele è stato molto criticato. Ma lo stato ebraico ne ha sempre fatto una questione esistenziale. L’esercito israeliano non è mai stato sufficientemente grande da essere un acquirente autonomo in modo da incentivare le aziende locali a sviluppare armi o tecnologie. Israele deve esportare all’estero.
Settant’anni fa, lo stato di Israele aveva un esercito che era poco più di un eterogeneo gruppo di irregolari, costretti a produrre proiettili in una struttura segreta costruita sotto un kibbutz. Oggi, l’esercito di Israele è ampiamente considerato come uno dei più efficaci e letali al mondo. Israele è oggi uno dei sei maggiori esportatori di armi, guadagnando miliardi ogni anno attraverso la vendita di attrezzature militari a Cina e India come a Colombia e Russia.
“Come ha fatto Israele?”, Katz e Bohbot si chiedono nel libro. “Qual è stato il segreto di Israele?”. La risposta: cervello, grinta e la prospettiva della distruzione imminente. Circondato da nemici, Israele si è concepito come una nazione che deve, come ha detto Arieh Herzog, l’ex capo dell’agenzia di difesa missilistica di Israele, “innovare o scomparire”. Un decimo oggi dell’export israeliano viene dagli armamenti e dalla tecnologia militare. Katz e Bohbot citano Shimon Peres: “Abbiamo bisogno di investire nei cervelli dei soldati, non solo nei loro muscoli”. Katz e Bohbot sostengono che la cultura di Israele fatta di intraprendenza e informalità abbia offerto un vantaggio senza precedenti: “Ciò che rende unico Israele è la completa mancanza di struttura”. L’assenza di gerarchia aiuta a stimolare l’innovazione. In Israele, i soldati si sentono liberi di discutere con gli ufficiali di alto rango. Così, per strada, tutti chiamano il premier Netanyahu “Bibi”, il presidente Rivlin “Ruby” e il capo dell’opposizione Herzog “Buji”. Non esistono formalità. Israele, si nota con orgoglio nel libro, è “diventato il primo paese a padroneggiare l’arte degli omicidi mirati”, che sono ormai divenuti “lo standard globale nella guerra al terrore”.
Resta poi il fatto che l’esercito israeliano è unico per un altro motivo: costituisce un esercito di popolo e una scuola per tutta la società. Il problema urgente, addirittura angosciante, era l’integrazione di uomini e donne che avevano assorbito le secolari usanze dei popoli coi quali avevano vissuto; e bisognava farlo nel più breve spazio di tempo. Se non era difficile inserire nel rivoluzionario ordinamento statale israeliano gli immigrati che provenivano da paesi prosperi e progrediti d’Europa e d’America, gli ashkenaziti colti e razionalisti, poteva sembrare una impresa disperata il recupero di immigrati yemeniti, protagonisti di una vicenda favolosa. Erano cinquantamila gli ebrei dispersi nel lontano emirato d’Arabia, ancora affondati in un mistero medioevale. Non sapevano che cosa fosse la luce elettrica, non avevano mai visto una bicicletta o un orologio, i soli contatti col mondo esterno nei loro villaggi erano le carovane dei beduini.
Il merito di una così radicale trasformazione, dicono gli israeliani, è stato dell’esercito, la più grande scuola di israelitismo, la sola capace di fondere in unità quasi armonica la gente di Israele che, non bisogna dimenticarlo, proviene da settantadue paesi fra Europa, Asia, Africa e America. L’esperimento ha dato i suoi frutti e lacerato anche il diaframma della lingua ebraica. L’esercito è stato efficiente sui campi di battaglia non meno che nella formazione della coscienza. La caserma come strumento di educazione alla democrazia.
Israele è anche il primo paese al mondo a utilizzare i robot per sostituire i soldati in missioni come il pattugliamento della frontiera. Un veicolo a terra senza equipaggio, chiamato “Guardium”, oggi pattuglia il confine con la Striscia di Gaza. Di fronte a terroristi che usano i tunnel per infiltrarsi in Israele, lo stato ebraico fa affidamento ai serpenti robotici per strisciare sotto terra. Questi sanno mappare le strutture, dando ai soldati un quadro preciso di una zona prima che il luogo sia preso d’assalto. Lo stesso sta accadendo in mare. L’appaltatore della difesa israeliano Rafael ha sviluppato una nave senza equipaggio chiamata “Protector” che viene utilizzata da Israele per proteggere i suoi porti strategici e pattugliare la costa mediterranea. Nel 2000, l’aviazione israeliana ha ricevuto la sua prima batteria anti missile, diventando il primo paese al mondo con un sistema operativo in grado di abbattere i missili nemici in arrivo. L’idea di creare questo sistema è nato a metà degli anni Ottanta dopo che il presidente americano Reagan chiese agli alleati di collaborare a sistemi che potessero proteggere il paese da missili nucleari sovietici in via di sviluppo. L’Arrow israeliano fu quella idea rivoluzionaria.
A causa delle limitate dimensioni geografiche di Israele, tutti i missili balistici dispiegati nella regione – Siria, Iraq e Iran – potevano raggiungere qualsiasi punto all’interno del paese e rappresentavano una minaccia strategica e forse esistenziale. Gli sviluppatori israeliani avevano bisogno di un sistema in grado di abbattere i missili nemici dai paesi vicini e fornire protezione globale per il piccolo stato ebraico. Il programma ha avuto i suoi alti e bassi, ma ha ottenuto una spinta enorme di fondi dopo la prima guerra del Golfo nel 1991, quando Saddam Hussein lanciò 39 Scud su Israele, paralizzando il paese e costringendo milioni di israeliani nei rifugi con le maschere antigas. Israele è stato anche il primo paese al mondo a utilizzare droni nelle operazioni di combattimento. Nel 1982 ha usato il suo primo drone da combattimento, chiamato “Scout”, in Libano, dove ha giocato un ruolo chiave nel localizzare e neutralizzare le postazioni nemiche. Così nel 1986, Israele ha fornito alla marina degli Stati Uniti il suo primo drone, noto come il “Pioneer”. Questi droni oggi volano quasi ogni giorno sul Libano, così come evitano che a Gaza si colpiscano palazzi pieni di civili.
C’è la storia del “Talpiot”, una parola che deriva da un verso del Cantico dei Cantici e che si riferisce a un castello, una fortificazione. E’ l’unità tecnologica cardine di Israele. Ogni anno, migliaia provano a entrarvi, ma solo trenta vengono accettati. Dovranno sorbirsi nove anni di servizio, tre volte la lunghezza usuale della leva militare. L’unità è nata da un disastro della Guerra del Kippur nel 1973 . Israele fu trovato impreparato quando Siria ed Egitto attaccarono e oltre duemila soldati rimasero uccisi, e innumerevoli aerei e carri armati furono distrutti. Poco dopo la guerra, il colonnello Aharon Bet-Halachmi, capo del Dipartimento tecnologia della forza aerea, venne contattato da Shaul Yatziv, il fisico dell’Università di Gerusalemme, che gli suggerì di investire in laser. Molti ufficiali della Talpiot sarebbero andati a fondare compagnie quotate oggi al Nasdaq e avrebbero contributo, da privati, a rivoluzionare la tecnologia israeliana.
Mentre state leggendo questo articolo, sui cieli dell’Afghanistan cinque paesi membri della Nato stanno impiegando droni di produzione israeliana per combattere contro i Talebani. Sono l’evoluzione di quei primi “giocattoli” usati da Israele sul Canale di Suez. Fu quando Davide divenne Golia.
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