Mademoiselle Vogue
Dalla rivista di moda al romanzo. Le molte vite di Edmonde Charles-Roux, donna di mondo e ribelle
Mademoiselle Charles-Roux era bella, colta, spiritosa, elegantissima nei suoi monacali completi Chanel, naturalmente molto mondana, e aveva un’aura romanzesca accreditata da tutta Parigi. Direttrice di Vogue France, nel 1966 Edmonde Charles-Roux aveva vissuto già quattro o cinque vite, tutte molto mitologiche e compiute, quando a 46 anni venne licenziata in tronco dall’editore americano Condé Nast. Figlia della buona borghesia marsigliese, infanzia e adolescenza dorate nei più bei palazzi d’Europa a seguito del padre diplomatico, a Palazzo Farnese, a Palazzo Buquoy a Praga e di nuovo a Roma dal 1932 al 1940 a Palazzo Taverna, sede dell’ambasciata presso la Santa Sede. Scoppiata la guerra, si era iscritta a un corso di infermiera della Croce rossa e l’aveva passato a pieni voti. Partita per il fronte, era finita a Verdun, come autista di ambulanze, alla vigilia dell’invasione nazista. Intrepida, attivissima, coraggiosa, era stata persino ferita durante un bombardamento e avendo continuato a curare giorno e notte i malati come se nulla fosse, era stata decorata con la croce di guerra. Smobilitata nel settembre 1940, era tornata con i genitori a Marsiglia dove rimarrà fino all’arrivo degli americani nell’estate del 1944, vivendo spesso in casa di Lily Pastré, la contessa melomane e mecenate, grande amica di famiglia, che avrebbe fondato il Festival di Aix-en-Provence e che intanto aveva aperto le porte della sua villa nella pineta sul mare a tantissimi artisti di talentoe en détresse, spesso ebrei e perseguitati, come i musicisti Clara Haskil e Pablo Casals, gli scenografi Christian Bérard e Boris Kochno, il coreografo Serge Lifar, ma anche cantanti e attori come Edith Piaf e Louis Jouvet. E’ stata quella la mia scuola, la mia vera università, dirà più tardi ECR, che si farà le ossa in quell’atmosfera surreale sotto il terrore nazista, partecipando in prima persona a spettacoli e concerti. Quando è a Marsiglia, invece di starsene con le mani in mano o limitarsi a prendere lezioni di canto da un’allieva di Nadia Boulanger, si getta nella mischia, diventando sin dalla prima ora un’eroina della resistenza in attività clandestina, pronta a fornire informazioni ai partigiani, a servire da staffetta trasportando giornali e volantini sull’ambulanza della Croce rossa, non senza rischiare in proprio nascondendo in casa amici e non amici ebrei e perseguitati, e aiutandoli a espatriare con documenti falsi.
Al giornalismo era approdata quasi per caso come factotum di Elle, rivista di tendenza, fondata dalla russa Hélène Lazareff moglie del proprietario di France Soir, ricorda oggi il suo biografo simpatetico, ma non agiografico Jean-Noël Liaut (Elle, Edmonde, 250 pagine, 18,90 euro Allary Editions). Dopo tre anni di gavetta, molta dedizione e un’insperata occasione di inviata supplente alla Scala per il primo concerto diretto nel dopoguerra da Arturo Toscanini, altro amico di famiglia spesso ospite dei suoi a Palazzo Taverna, ECR era passata a Vogue France. I suoi mentori furono il poeta Paul Eluard, il gallerista Pierre Colle e il pittore e scenografo Bébé Bérard, da lei conosciuto a Montredon, nonché illustratore di Coco Chanel, Elsa Schiaparelli, Nina Ricci, intimo amico e collaboratore di Cocteau, e dedicatario dello Stabat Mater di Francis Poulenc. Perché a quei tempi la moda e i giornali di moda erano arte, cultura, genialità, eleganza, amore del bello, senso della raffinatezza, gusto delle forme. Bisognava ricostruire l’opinione pubblica europea, nutrire il sogno del pubblico femminile, alimentare nelle donne la speranza di poter essere moderne e diventare eleganti; bisognava educarle al savoir-vivre: per questo serviva non solo la cultura ma l’appetito della cultura, e bisognava scoprire il nuovo, l’eccentrico, il moderno, dosando il tutto artatamente con la nostalgia dell’autentico, come la stessa ECR scriverà nel suo romanzo, Oublier Palerme, col quale vincerà il Premio Goncourt imponendosi per decenni ai vertici del mondo culturale francese.
Ma andiamo con ordine. Intanto, dopo vent’anni di giornalismo attivo, la futura scrittrice capì a sue spese che poco o nulla era valso lanciare una rivista che faceva epoca e che i lettori conservavano come una reliquia. E nemmeno era servito tanto promuovere creatori geniali come Christian Dior o tenere a battesimo un certo Yves Saint Laurent, quel giovanottone timido con gli occhiali spessi, che non faceva altro che disegnare. E non parliamo di accreditare i migliori talenti dell’arte contemporanea, pittori, scrittori, fotografi, musicisti, perché su cento pagine di Vogue France trenta erano dedicate alla cultura e sotto la direzione di ECR spaziavano da un inedito di Balzac all’ultimo libro di Truman Capote, dai romanzi ermetici di Nathalie Sarraute ai racconti di Moravia, alle cronache sulla Nouvelle Vague, con articoli su Louis Malle, Truffaut, Godard. Vogue France pubblicava le foto di Agnès Varda, di Cartier Bresson, di Robert Doisneau e del grandissimo Irving Penn, arruolato a costo zero per una serie choc sui nuovi abiti di YSL… e poi le foto surrealiste di William Klein e quelle audaci di Guy Bourdin, altra creatura di ECR, che poteva immortalare una modella con veletta dentro una macelleria coi ganci in bella vista, o una famosa egeria del tempo che si faceva sbavare dalla lingua di un cammello entrato in carne e ossa nella redazione di Place du Palais Bourbon.
Tanta effervescenza poteva anche dare ai nervi. E infatti. La notizia del suo licenziamento colse ECR in piena notte, nella mansarda dell’Hôtel particulier in rue de Saints-Pères, al 7bis dove al piano terra vivevano i genitori e dove aveva vissuto anche Joseph Fouché, ministro della Polizia ai tempi di Napoleone. Alexander Libermann, che chiamava per conto di Sam Newhouse, fu piuttosto sbrigativo: “Non siamo tenuti a darti spiegazioni”. E un mese dopo, quando Mademoiselle Charles-Roux andò a ritirare il suo stipendio, il contabile l’avvertì: “Temo che sarà l’ultimo”. Motivo? Top secret. Per anni lei stessa continuò a schivare la domanda, non volendo confermare o infirmare la vulgata secondo la quale il brutale distacco era stato l’effetto dell’ostinazione con cui si era rifiutata di cambiare una certa copertina. Dovettero passare vari decenni perché fosse ancora lei, ormai vecchia e onusta di gloria, a ricordare come cadde dalle nuvole il giorno in cui il suo avvocato finalmente le aprì gli occhi. “Non hai ancora capito? Gli americani di Condé Nast non volevano la modella di colore in copertina”.
Correva l’anno 1966. L’edizione inglese aveva pubblicato la stessa foto di Donyale Luna. E quella in Francia forse era stata una scusa per scaricare la direttrice troppo colta e snob, troppo amica dei comunisti, intima di Aragon e di Elsa Triolet, assidua frequentatrice di Jean Genet e di molti altri genialoidi artisti marginali, e soprattutto assai invisa a Diana Vreeland, la direttrice di Vogue America che ne pativa la sofisticheria francese. Senza darsi per vinta, ECR tirò fuori dal cassetto un romanzo, che conteneva una malcelata critica dell’american way of life, e si presentò da Grasset, il quale complice il suo ex braccio destro nelle pagine culturali di Vogue, François Nourrissier, non solo glielo pubblicò seduta stante, ma le fece persino vincere il Premio Goncourt: proprio a lei, l’ex giornalista di moda, l’amica degli artisti, la signora più chic di Parigi. Nel giro di otto mesi, la vita dell’ex direttrice di Vogue France cambiò. ECR divenne una scrittrice di successo, nonché l’amante clandestina e poi la moglie n. 3 di Gaston Defferre, socialista fiammeggiante, amico di Mitterrand, sindaco di Marsiglia, futuro ministro degli Interni, il quale capitolò in poche ore davanti al fascino di quella quarantenne con la voce da mezzosoprano, gli occhi azzurri pieni di luce, gli zigomi alti, un sorriso da liceale curiosa e un’autodisciplina di ferro.
ECR aveva già vissuto molte vite per non inventarsene un altro paio. Parlava quattro o cinque lingue, benissimo l’italiano e l’inglese, ma anche il tedesco e un po’ di ceco, e conosceva gli usi di mondo, perché sin da piccola aveva frequentato cacce e balli dell’aristocrazia boema e italiana, respirando l’amore per l’arte e per la cultura. La nonna materna, con cui era cresciuta, era una patita di letteratura che poteva recitare a memoria per ore intere i versi di Hugo, Vigny e Leconte de Lisle, e aveva una venerazione per Edmond Rostand, che leggerà in anteprima l’Aiglon a casa sua. E poi c’era il nonno paterno, figlio di un fortunato fabbricante di sapone: nel 1910 aveva aggiunto il Charles al patronimico Roux, e forte del prestigio del doppio cognome aveva fondato la dinastia. Industriale, uomo politico, umanista e sensibile al sociale, Jules Charles-Roux era stato un mecenate generoso, protettore di artisti, creatore di musei come l’Arlaten in Arles, voluto dall’amico e premio Nobel Frédéric Mistral, ma morì senza lasciare un soldo. “Ho l’onore di essere la nipote di un grande capitalista morto senza capitale”, confesserà ECR, che era nata due anni dopo la sua morte. Da qui il suo gusto non poco ostentato per l’anticonformismo sociale e culturale, l’amore per gli irregolari, la capacità di vivere ai margini, pur essendo al centro del sistema, di apprezzare i segni della ricchezza, senza farsene condizionare, di appartenere al mondo incantato delle élite, senza nutrire soverchie illusioni…
Che fosse un tipo un po’ ribelle fu subito chiaro. Dodicenne, a Roma, tiene testa ai genitori: basta precettori e niente suore. Dopo un passaggio lampo a Trinità dei Monti, finisce allo Chateaubriand, unica femmina in una classe di 17 maschi, dove scopre però di avere non poche lacune, cadendo perciò preda di un senso di inadeguatezza contro il quale combatterà tutta la vita, per dimostrare che invece è brava, colta, capace e riesce benissimo in tutto quello che fa. Ostinata, la ragazza è anche miope, legge molto, gioca di fantasia, e passa per l’intellettuale di casa. Altrettanto seducente, ma meno bella di Cyprienne, la sorella maggiore e di rara bellezza che nel 1939 convola a nozze col principe Maurizio Del Drago, capo di gabinetto del ministro degli Esteri e genero del Duce, Galeazzo Ciano, Edmonde punta sull’arte e la cultura. Anche lei è molto elegante, come ricorda il fratello prete a proposito di un certo damasco ricevuto in dono del segretario di stato vaticano Eugenio Pacelli e trasformato in abito da sera, ma è meno attratta dalla jeunesse dorée alla corte dei Ciano.
La sua religione è fatta di orgoglio, volontà di indipendenza, libertà. “Vivi come un uomo” le dirà il padre, che assiste impotente alla sequela di amanti, dei tanti Messieurs de Maintenant ai quali si accompagna la figlia, che per niente al mondo intende sposarsi. Ma per una che ha vissuto la guerra al fronte lavorando negli ospedali di campo, che ha curato i soldati feriti ed è scampata per un pelo alle bombe, l’universo maschile non ha segreti. Niente di misterioso, niente di affascinante. I rapporti con gli uomini sono facili, immediati, spontanei, camerateschi anche all’apice della libido, quando la passione si fa torrida, tanto poi, comunque, si resta sempre amici. La lista degli amanti è lunga e sorprendente. Ci sono vecchi artisti colossali di nome e di fatto, come il pittore André Derain, l’inventore del “fauvisme”, il contadino dal corpo deforme e dall’umore rabelaisiano che guidava una Bugatti, l’orco libertino che collezionava antiche terrecotte cinesi, l’amante, l’amico, il mentore, che la ritrae con le perle al collo e le spalle nude in un velo di tulle. Emarginato con l’accusa di collaborazionismo, dopo l’infelice viaggio a Berlino ai tempi dell’occupazione, frequenta assiduamente ECR che l’adora e lo difende sino al punto di restituirgli l’onorabilità sociale. C’è fra i suoi amanti André-Pieyre de Mandiargues, il surrealista sciupafemmine che l’insegue, l’assedia, la sogna sino a farne l’eroina di un romanzo sadista, L’anglais décrit dans le château fermé, pubblicato nel 1953 con lo pseudonimo di Pierre Morion, anche se tutti sanno che l’autore è lui. Lì la protagonista è una Mlle Edmonde con doti molto speciali: “C’est ce que l’on est convenu d’appeler une jeune fille du monde, et, dans ce monde là, son renom était de posséder le plus beau cul de Paris et de savoir s’en servir”. E le virtù callipigie di Mlle Edmone non hanno segreti. ”Pas une ride, pas un pli, pas un grain n’en venait gâter la rondeur admirable, et pour le lisse et pour la fermeté c’était beaucoup mieux que du marbre très pur”… Poi c’è Maurice Druon, di cui ECR sarà uno dei nègres durante la stesura di Les Rois maudits, la sua nave scuola nel romanzo d’avventura, ramo nel quale lei stessa si cimenterà pubblicando nel 1959, con lo stesso editore italiano Cino del Duca, la biografia di Don Giovanni d’Austria, il figlio bastardo di Carlo V. E fra gli amanti celebri di ECR pare ci fossero addirittura Gheddafi e persino Orson Welles, da lei braccato e inseguito a Londra dopo un’intervista pronuba, oltre un’infinità di altri meno illustri o perfetti sconosciuti, ma tutti oggetto di grande generosità.
Per una che ha sempre teorizzato la vita solitaria da signorina bene, il rifiuto dei figli come zavorra inaccettabile per la propria libertà, difficile pensare che nel pieno del successo potesse soccombere a un politico scaltro, grande ammaliatore, noto libertino, uomo fascinoso e tentacolare. Eppure è accaduto. E qui il suo biografo, che sembra non capire fino in fondo alcune cose, supera se stesso, ricostruendo per filo e per segno il primo incontro, in occasione di un premio della Città Focea alla concittadina illustre, il colpo di fulmine e il telegramma del sindaco che annuncia “J’arrive demain”, la cena a tre e il primo tête a tête, nella mansarda in rue des Saint Pères riarredata da Jacques Grange. E il loro sarà un tête à tête che durerà vent’anni, con lei che scrive giorno e notte e lui che sbarca all’improvviso da Marsiglia per una seduta a Palais Bourbon, e la ritrova nel suo cucinino sotto i tetti, in tailleur Chanel e filo di perle, pronta a servirgli una cena frugale, ma con bicchieri di Baccarat e porcellane di Meissen. L’amore non ha età, ma il loro sa cercare il posto giusto e trova Panarea, l’isola siciliana che è ancora il paradiso inaccessibile di Luchino Visconti e del principe Alliata, di Roberto Matta e di Fulco di Verdura , il cugino di Tomasi di Lampedusa di cui ECR adatterà in francese le memorie. Un paradiso di discrezione ancora ignoto ai commercialisti milanesi, dove si scende a mare da soli per fare il bagno su un gozzo, si va a cenare a piedi da una coppia non conforme, Toto Koopman ed Erica Brausen, le case sono senza cisterna e senza luce e l’unico telefono è nella bottega di Giovannino, che usa l’altoparlante per avvisare i clienti delle chiamate dal Continente…
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