Foto di Boris Kasimov via Flickr

L'Italia degli antilagna

Marianna Rizzini

A Pompei e a Caserta, Massimo Osanna e Mauro Felicori sfatano il mito del paese “che non ce la fa”

Italia “che non ce la fa”, Italia “stagnante”, Italia “immobile”. E Italia che, zitta zitta, risolve da sé. Ecco due storie antilagna, con due uomini simbolo al centro. Uno, Mauro Felicori, in qualità di neo direttore della Reggia di Caserta, si è trovato sul tavolo, a un certo punto, una lettera dei sindacati (cui “spiaceva” constatare la sua permanenza sul luogo di lavoro “fino a tarda ora”). L’altro, Massimo Osanna, in qualità di nuovo sovrintendente speciale per i Beni archeologici a Pompei, un certo giorno ha letteralmente strappato le chiavi degli scavi dalla tasca di un custode per far entrare i turisti durante un’assemblea sindacale a sorpresa: “Fermo restando il diritto di sciopero”, dice, trovava assurdo restare chiusi in una normale giornata di apertura con i turisti assiepati fuori, motivo per cui, avendo verificato la presenza di un numero sufficiente di dipendenti non in assemblea, aveva deciso di aprire comunque.

E’ il sistema-paese che è incapace di risolvere i suoi guai, come dice Draghi o è un fattore esterno? Intanto c’è chi fa da sé

(Non era finita: in un’altra occasione Osanna è stato denunciato ai carabinieri per comportamento antisindacale).

 

Entrambi, Felicori e Osanna, hanno tirato dritto, con l’idea di ribaltare la situazione a Caserta e a Pompei. Al momento del loro arrivo – Osanna nel 2014 e Felicori nel 2015 – i due siti erano infatti presenze fisse dei servizi televisivi da “Italia che non ce la fa”: crolli, bivacchi, cartacce, cani randagi, erbacce, transenne, incuria, inefficienza, abusivismo, clientelismo, chiusure, lucchetti. E nel 2010, all’ennesimo “caso Pompei” (era ministro dei Beni culturali Sandro Bondi), e all’improvviso moltiplicarsi di articoli sull’“umiliazione” del sito archeologico (tra cui quello di Sergio Rizzo sul Corriere della Sera), si era giunti alla conclusione che si dovesse andare oltre il dilemma: metterci o no un altro commissario? A Caserta, invece, tra il 2010 e il 2013, ci si era abituati non soltanto al calo di visitatori, ma anche al fiorire di leggende metropolitane, alcune delle quali verissime, sui dipendenti che “avevano messo le tende” all’interno del bene artistico-culturale borbonico, anche muovendosi con auto propria. Caserta e Pompei parevano due situazioni di ordinaria insolubilità, con sfondo di scontro ideologico a intermittenza (e a seconda del ministro). E se la riforma museale del 2014 (governo Renzi, ministro Dario Franceschini) ha aperto la strada all’autonomia del “luogo della cultura”, la differenza sul campo, intanto, l’ha fatta una rivoluzione di mentalità, quella che ha portato per esempio Osanna e Felicori a scontrarsi con “abitudini” mai sfidate negli ultimi trenta-quarant’anni.

Quando le trasmissioni tv indugiavano sulla Pompei dei crolli e sulla Caserta dei bivacchi. Poi l’inversione di tendenza

Anche per questo le loro storie interpellano l’Italia che Mario Draghi vede afflitta non tanto dai cosiddetti “vincoli esterni” quanto dall’incapacità del sistema di riformarsi da solo.

 

Quando è arrivato a Pompei, nel 2014, Massimo Osanna, archeologo e professore con esperienza universitaria in Italia e all’estero, si è accorto che mancavano “le professionalità per poter affrontare i problemi di un sito così complesso”. In passato ci si era sempre regolati con commissariamenti straordinari: “Si mandava un commissario non tecnico con poteri speciali e possibilità di spendere velocemente il denaro destinato all’emergenza”, dice Osanna, convinto che quella non fosse la giusta soluzione: “Si è puntato molto sulla valorizzazione e comunicazione – cosa comunque fondamentale per aprirsi alla contemporaneità – ma è stato saltato il gradino della manutenzione e della messa in sicurezza dell’area-rovine, anche se dal 2010 ci sono stati interventi spot e grandi aperture che hanno contribuito a migliorare l’immagine allora compromessa di Pompei. Per affrontare le vere criticità non c’era il personale adatto, nonostante l’organico contasse 430 persone, distribuite in maniera non adeguata alle esigenze reali. C’erano cioè pochissimi tecnici e molti impiegati con qualifiche da Italia anni Ottanta, quando, per dire, si assumevano addetti alla fotocopie e dattilografe. Molti si erano anche riqualificati, solo che mancavano amministrativi di alto livello, capaci di gestire problemi contemporanei – si pensi per esempio al nuovo codice degli appalti”. Mancavano poi, dice Osanna, per poter intervenire sui crolli e sui vecchi restauri, gli ingegneri, e, “nonostante le venti nuove assunzioni del 2012, gli archeologici e gli architetti”. Per poter implementare il Grande Progetto Pompei (varato nel 2002 dalla commissione Ue con una dotazione finanziaria di 105 milioni di euro e cofinanziamento dallo Stato italiano), e grazie alla legge speciale che ha permesso la creazione della Segreteria tecnica del sovrintendente, Osanna ha ottenuto venti unità di personale a contratto e ha poi firmato una convenzione con la società in house del ministero, la Ales (molto osteggiata dai sindacati), usando i fondi europei per assumere a tempo determinato personale qualificato. Nonostante gli attriti sindacali, sono arrivate a Pompei 128 persone: amministrativi, informatici, avvocati (Osanna dice: “Perdevamo tutte le cause, e per per forza: non c’era neanche un avvocato interno”), oltre a cinquanta nuovi addetti alla vigilanza per poter tenere aperte le domus restaurate. “Quella della Ales era l’unica strada percorribile”, dice Osanna, che da sovrintendente speciale ha un bilancio separato ma non può usare i ricavi dei biglietti venduti per il personale, la cui gestione è centralizzata (uno dei problemi non risolti con la riforma dei musei). Ma perché così tanti scontri con i sindacati? “Perché ogni volta che si va a toccare un microinteresse cristallizzato, come sulla riorganizzazione della vigilanza, scoppia un putiferio. Ci servono, oggi, diciannove custodi notturni? Non più, visto che abbiamo un nuovo sistema di videosorgeveglianza capillare. Ma se vado a toccare i turni di notte e i relativi vantaggi collegati – si guadagna di più, si ha il recupero di un giorno e mezzo – scateno reazioni. E però la mia idea è un’altra: o ci si rimbocca tutti le maniche, facendo tutti piccoli sacrifici, o non si va da nessuna parte”. Il problema, dice Osanna, nasce anche dal fatto di avere “ereditato” un organico e una mentalità “risalente agli anni Settanta e Ottanta, quando le assunzioni erano spesso fatte con logiche politico-clientelari e l’ideologia dettava comportamenti che si posavano come vestiti rigidi sulle cose, ingessando tutto. E oggi, appena cerchi di fare qualcosa, trovi resistenza, vedi l’assemblea usata come criptosciopero”. Intanto però, il 9 febbraio scorso, la Pompei della gestione Osanna ha ricevuto i complimenti sul campo di Corina Cretu, commissaria europea per le Politiche regionali. Ma come si è arrivati al rovesciamento d’immagine – da Pompei simbolo del degrado italiano a Pompei simbolo di rilancio? “Si è capito che commissariare non era la soluzione”, dice Osanna, nominato da Massimo Bray ed entrato in servizio con Franceschini. “Bray ha deciso il cambio di governance, affiancando al sovrintendente una specie di stazione appaltante del Grande Progetto Pompei, diretta da un generale dei carabinieri, Giovanni Nistri, coadiuvato da un team altamente specializzato dell’Arma capace di vigilare su legalità e appalti in un territorio difficile. Noi progettavamo, e il team di Nistri vigilava sulle gare d’appalto. Con questo lavoro corale il sistema-Pompei si è finalmente rimesso a funzionare”. Il resto l’ha fatto il piano di promozione e fruizione. Sono state “riaperte strade chiuse dal terremoto dell’80, ed è stato dato spazio a giovani e bravi professionisti, anche a costo di creare dissapori interni”. Già sovrintendente in Basilicata e visiting professor a Berlino e Parigi, Osanna si dice “ottimista anche per il futuro dell’intera area napoletana:

I sindacati contro Felicori, reo di lavorare troppo e “fino a tarda notte”, e contro Osanna, reo di “apertura straordinaria al pubblico”

a Napoli si percepisce una grande voglia di rinnovamento, nonostante tutto. E io sono contento di partecipare a questa temperie felice”.

 

Dalla vicina Caserta, altro ottimismo (della volontà) arriva da Mauro Felicori, marziano bolognese in Campania che dall’enorme studio nella Reggia (“ereditato – io per me ne vorrei uno più piccolo”, dice ridendo ) vive un altro piccolo rinascimento: a Caserta il numero di visitatori, dopo il suo primo anno di permanenza, era cresciuto del 37 per cento, e gli incassi del cinquanta. E ora, dopo altri mesi di lavoro “intenso ma entusiasmante”, Felicori si rifiuta di dire che in Italia “non si può fare niente per cambiare le cose”. Il suo caso lo dimostra: dopo una vita da dirigente culturale al comune di Bologna, è arrivato a Caserta dopo selezione pubblica internazionale. “Avevo l’ambizione di chiudere la carriera con un’esperienza importante”, dice, “ed essendo io un manager, non uno storico dell’arte o dell’architettura, ho fatto domanda su tutti e venti le posizioni museali disponibili”. E’ arrivato tra i primi tre in sette musei. Poi il colloquio che l’ha portato a Caserta. Qui si è messo a esplorare stanza per stanza la Reggia dove “da quindici anni non si spolveravano i lampadari”. Su Facebook, mentre gli arrivavano le suddette, surreali contestazioni sulla sua permanenza serale in ufficio, scriveva che ci voleva “umiltà” per capire che cosa si dovesse fare. Ma Felicori non si è mai sentito “un giacobino nelle azioni”: “Sono una persona dai pensieri netti e radicali, come sempre devono essere i pensieri, ma moderata nella gestione. Gli organismi sono fatti di persone e le persone cambiano lentamente. Nel caso di Caserta, poi, c’era un’eredità di amministrazione mediocre. Quando si amministrano aziende di persone, ci vuole senso del tempo e dell’investimento. E però, nonostante questa attitudine, il mio arrivo qui è apparso abbastanza stravagante”. Questione di abitudini che apparivano eccentriche: “Effettivamente fin dall’inizio lavoro alla Reggia per dieci, dodici ore al giorno, ma non perché io sia un eroe. Dirigere un museo è un’attività che ti assorbe, ma è anche divertente, pur restando tutti i problemi. Appena arrivato tutti mi chiedevano: ‘Ma lei intende abitare a Caserta?’. A me, lì per lì, quella pareva una domanda immotivata, ma alla quinta volta che me la sono sentita rivolgere mi sono interrogato: ma perché? Prima com’era? Non sono un provocatore, ma se la mia fermezza sul concetto di buona gestione e serietà nel lavoro genera conflitti, pazienza. Non ho paura: faccio il mio dovere e pretendo che tutti facciano il proprio. Non chiedo l’impossibile, ma su alcune cose dovevo intervenire. Quando sono arrivato, c’erano ancora quindici famiglie che vivevano da privati nella Reggia”. Da privati, nel senso che avevano le chiavi di alcuni appartementi, in alcuni casi rimasti a coniugi di dipendenti separati e a figli di dipendenti defunti o a dipendenti in pensione. E se i sindacati indipendenti avevano scomodato la questione “della sicurezza” per lamentarsi con il Mibac del Felicori lavoratore notturno, non si sentivano analoghe preoccupate dichiarazioni a proposito dei dipendenti “residenti” che “entravano e uscivano a qualunque ora, anche parcheggiando all’interno della Reggia”.

Eliminati i “residenti”, restavano i danni derivanti da quindici anni di incuria: “Erba alta, alberi non potati, mobili polverosi”, dice Felicori. Poi molte resistenze si sono in parte sciolte: “C’erano dipendenti stufi di vedersi sempre additare come i fannulloni di Caserta. Ora che la Reggia sta tornando a splendere, sento un certo orgoglio nel dire ‘io lavoro qui’. E comunque lo spazio per la dialettica sindacale si riduce quasi a zero anche perché siamo soltanto all’inizio della riforma del sistema museale. Prima i musei dipendevano dalle sovrintendenze, che a loro volta erano come uffici periferici del ministero. Come si può contrattare se tutto dipende ancora dal governo centrale? Le normative sono decise a livello nazionale. I premi di produttività vengono distruibuiti in modo uguale per tutti: di fatto sono piccoli aumenti salariali. I turni sono regolati a livello nazionale. Che cosa resta da contrattare?”. Dice Felicori che “la riforma ha portato molti risultati, ma si è fermata davanti al nodo ‘lavoratori’” e che, se si affronta questo tema, “in prospettiva si aprirà lo spazio per una contrattazione di tipo aziendale nei musei”. Tra i problemi ancora aperti a Caserta, quello delle gare per i servizi in concessione (tutti scaduti). Solo che la macchina amministrativa non è adeguata al compito: “Funziona sulla base della volontà dei singoli di imparare cose nuove. La riforma, infatti, si sta facendo in situazione di immobilità del personale, in assenza di mobilità verticale e orizzontale. Ma uno spostamento di dieci o venti chilometri da un luogo di lavoro a un altro non sarebbe una tragedia, anzi, se vogliamo sfruttare i margini di crescita nella Pa culturale, che sono enormi”. Per Caserta, intanto, Felicori ha messo in cantiere il progetto di restauro completo (oltre alle due facciate e ai due cortili già restaurati) e l’utilizzo delle aree prima chiuse o tornate a disposizione, anche dandole in affitto per valorizzarle ed evitare il degrado (il Corsorzio della Bufala, per esempio, ha trovato casa nello spazio delle Regie cavallerizze), il tutto nell’ottica di un rapporto col territorio che Felicori vuole intensificare: “I beni culturali sono trainanti per l’economia di un territorio. Vorrei che Caserta non fosse soltanto meta ‘mordi-e-fuggi’: stiamo mappando in dintorni, per favorire progetti comuni, e stiamo cercando di convincere Trenitalia a mettere più treni Frecciabianca da Roma. Lo sapete che in poco più di un’ora si arriva da Termini qui, davanti alla Reggia?”. E vorrebbe, Felicori, che il visitatore non mordi-e-fuggi provasse quello che ha provato lui la prima volta che, arrivando a Caserta, ha attraversato la valle del Volturno ed è voluto scendere dalla macchina per fermarsi a guardare dall’alto “un paesaggio che emoziona profondamente”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.