Una, nessuna e centomila. Non c'è più la Sicilia di una volta
Scordatevi per un momento di Verga, Pirandello e Sciascia, del “Gattopardo” e di “Divorzio all’italiana”. L’isola è cambiata e da tempo ormai offre a viaggiatori, registi e scrittori una nuova immagine di sé
“Un’isola non abbastanza isola” (Giuseppe Antonio Borgese)
Non ne posso più di Verga, di Pirandello, di Tomasi di Lampedusa, di Sciascia, di Guttuso. Non ne posso più di vinti; di uno, nessuno e centomila; di gattopardi; di uomini, mezzuomini, ominicchi, piglianculo e quaquaraqua. E sono stanco di Godfather, prima e seconda parte, di Sedotta e abbandonata, di Divorzio all’italiana, di marescialli sudati e baroni in lino bianco. Sono stufo di pale di fichidindia a colori accesi e quarti di manzo appesi alla Vucciria. Non ne posso più della Sicilia. Non quella reale, ché ancora mi piace percorrerla con la stessa frenesia che afferrava Vincenzo Consolo a ogni suo ritorno. Non ne posso più della Sicilia immaginaria, costruita e ricostruita dai libri, dai film, dai quadri, dalla fotografia in bianco e nero.
La memoria è tutto, dice chi ha più saggezza di me. E’ vero, la memoria è tutto. Ma non si può vivere di memoria. Solo di memoria. I grandi autori siciliani hanno decrittato l’isola, ne hanno fatto metafora, emblema, paradigma. Ma Verga è morto nel 1922, Pirandello nel 1937, Tomasi di Lampedusa nel 1957 e Sciascia nel 1989. Hanno lasciato pagine indispensabili per chi si avvicina alla Sicilia, per chi ci vive e perfino per chi se ne è andato. Di più: hanno lasciato pagine essenziali per tutte le donne e gli uomini che credono nelle parole scritte nei libri. Ma non è vero che la Sicilia è ancora quella di Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Sciascia. Questo è un inganno. L’inganno di chi vuol far credere, leggendo a proprio uso Il Gattopardo, che tutto cambia perché tutto resti com’è.
La Sicilia è cambiata e molto. Ha ragione Salvatore Lupo quando, a proposito della questione meridionale e degli stereotipi sul Mezzogiorno, dice che è sbagliato condannare la Sicilia e il sud “all’immobilità delle sue pietre o tutt’al più a muoversi verso una maggiore disgregazione”. Questo, dice lo storico, è stato il mainstream imperante per molto tempo nel racconto del sud. Ma, si chiede lo studioso, possiamo ancora spiegare il Mezzogiorno usando le lenti di grandi studiosi del passato come Antonio Gramsci e Gaetano Salvemini o i libri di Rosario Villari e Massimo Salvadori, scritti mezzo secolo fa?
Se la storiografia si aggiorna, passando per revisioni e revisionismi, riflettendo su se stessa e rimettendosi in discussione, non si capisce allora perché l’immagine della Sicilia debba invece restare inchiodata a grandi intuizioni di scrittori, artisti, registi o fotografi di ieri. Naturalmente, chi racconta oggi la Sicilia non può prescindere dai grandi del Novecento che, prendendo a spunto la Sicilia, hanno cercato di illuminare l’umanità, consegnando agli scaffali delle lettere e del cinema libri e film mai strettamente regionali. Non esiste infatti una letteratura strettamente siciliana: esiste piuttosto una letteratura europea scritta in Sicilia o sulla Sicilia. Togliendo dalle mensole i testi di Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Sciascia (solo per citare gli autori già citati) si toglie un pezzo rilevante della migliore letteratura italiana.
In ogni caso, la Sicilia è cambiata. Quella reale come quella immaginaria. Ho rivisto qualche tempo fa Sedotta e abbandonata del grande Pietro Germi, con Stefania Sandrelli e Saro Urzì. Ho sorriso e ho riso. Mi sembrava però un film di mezzo secolo fa. Infatti. Sono andato a controllare: è del 1964, lo stesso anno in cui sono nato io. Nel 1974, quando ero in quinta elementare, la Sicilia era già un’altra cosa. Nel 1980, quando frequentavo il terzo anno di liceo, era un’altra cosa ancora. E infatti non me la ricordavo così, anche al netto di tutta la grottesca comicità del film.
Franco Nero e Claudia Cardinale nel “Giorno della civetta” di Damiano Damiani (1968),
tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia
La Sicilia ha una proiezione molto più vasta di sé. Ci sono luoghi in Italia che hanno un’immagine più ampia di ciò che realmente sono. Nella lingua del marketing si direbbe che hanno un brand molto forte, cioè un marchio di fabbrica conosciuto e rinomato (come, per intenderci, sono la Ferrari o la Coca-Cola). Questa reputazione ce l’hanno in Italia diversi luoghi: Venezia, Firenze, Milano, Napoli, Roma. E la Sicilia.
Il marchio di fabbrica si costruisce nel tempo, attraverso la letteratura, il cinema, il giornalismo, l’arte, la storia. E cambia anche questo nel tempo. Prendiamo Palermo: fino al 1992, anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, acme dell’attacco di Cosa nostra allo Stato, la città era considerata la “capitale della mafia” (definizione rilanciata più o meno nel 1987 dal sindaco di allora e di oggi Leoluca Orlando, tra molte polemiche). Il numero di morti ammazzati, la durata del potere mafioso, le sue infiltrazioni sociali e politiche, la lunga permanenza di guerre e mattanze criminali, il prestigio tenebroso di Cosa nostra, le decennali latitanze dei boss avevano disegnato il profilo più rilevante della città nella percezione interna ed esterna. Capitale della mafia.
A Palermo e nel resto della Sicilia, non meno insanguinata, si combatteva una guerra tra i buoni e i cattivi, tra lo Stato e l’Antistato – magari con accordi sotterranei e nascosti tra le due parti ufficialmente in armi, come spesso avviene nelle guerre. Sotto il piombo dei killer mafiosi che stavano massacrando “i giusti” (magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, medici, cittadini inermi) era possibile produrre immaginario – cioè letteratura, film, foto – che non avesse al centro quella guerra? Dalla Sicilia poteva arrivare solo una narrazione militante: articoli, reportage, inchieste, studi, analisi non potevano che occuparsi di quello scontro. In ballo c’era la saldezza democratica di un regione, dell’Italia intera.
Era giusto così, probabilmente. Fino al 1992 – usiamo questa data per comodità, perché le cose non succedono mai da un anno all’altro, con un taglio netto – la Sicilia produceva un racconto di se stessa con l’elmetto. Giornalisti, scrittori, cineasti sia siciliani che arruolati in Sicilia dovevano essere embedded (almeno in teoria), reclutati nel fronte dei buoni contro i cattivi. In ogni caso, sinceri o in malafede che fossero, potevano descrivere solo ciò che stava succedendo. Certo, a Palermo non si moriva solo di mafia. C’erano gli incidenti sul lavoro, i delitti passionali, le risse, i delitti del vicinato. Ma non affioravano. Restavano confinati nelle pagine interne delle cronache locali. L’omicidio a Palermo o era mafioso o non era.
E gli omicidi non mancavano. Novantotto a Palermo e provincia nel 1981, centocinquanta nel 1982, centotredici nel 1983 e così via. I cronisti di nera aggiornavano di continuo il calendario, un lungo elenco appeso alle loro spalle con i nomi, la data e il luogo di ogni morto ammazzato – lo ricordo perfettamente, nello stanzone della cronaca del Giornale di Sicilia. Il 27 agosto 1982, il quotidiano L’Ora sparò (è il caso di dirlo) una copertina rossa e nera con il titolo: “La morte ha fatto cento”. Cento, il numero dei morti per mafia dall’inizio dell’anno a Palermo e dintorni. I due zeri del cento erano le bocche di una doppietta a canne mozze.
Cosa poteva esserci di più? Niente. Eppure c’erano sempre il cibo, il sesso, la musica, l’amore. Anche nell’imperversare della mattanza, nell’infuriare delle “ammazzatine”, c’era gente che comprava i cannoli, andava al mercato, lucidava la barca, si alzava presto per entrare in ufficio, si innamorava della ragazza incontrata sull’autobus. C’era una regione in guerra, ma anche in guerra le persone continuano a vivere. Ma erano vite non narrabili, troppo minute per farne romanzo.
La mafia era la misura di ogni storia. Il mafioso, l’antimafioso. Il boss, la vittima. Il vile, l’eroe. Si parlava dei nobili, se erano amici dei mafiosi. Si parlava dei ristoranti, se erano frequentati da mafiosi. Si parlava di moda, per descrivere come vestivano i mafiosi. Si parlava dei magistrati se erano nemici, o amici, dei mafiosi. Dei politici, se erano contrari o a favore dei mafiosi. L’unica declinazione possibile della Sicilia stava nella sua relazione con la mafia. Certo, c’erano anche quelli che dicevano: la Sicilia non è solo mafia. Ma appariva discorso tartufesco, buttato lì per sviare dal percorso civile obbligatorio per chiunque avesse un minimo di coscienza.
Qualcosa cambia dopo le stragi del 1992. Dopo il tritolo che fa saltare in aria il 23 maggio Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinari, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Dopo l’autobomba che il 19 luglio uccide Paolo Borsellino e gli agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli. Dopo tutti questi morti, da Palermo e dalla Sicilia si alzò una reazione popolare. Adesso si potrà dire, alla luce del tempo trascorso, che forse era una scossa semplicemente emotiva, un movimento spontaneo e superficiale. Ma le lenzuola bianche ai balconi, i cortei e le fiaccolate per strada, le marce silenziose furono il segnale che Palermo e la Sicilia non erano più la “palude” (per usare una fortunata figura retorica usata da Giampaolo Pansa) immota e fangosa che tutto inghiottiva. E nemmeno il coccodrillo disegnato da Giorgio Forattini che piangeva dopo aver divorato i suoi figli.
L’arresto, pochi mesi dopo, di Totò Riina, ammanettato a Palermo il 13 gennaio 1993, sia pure con le ombre e i sospetti seguiti alla sua cattura, mettevano fine all’ultraventennale latitanza del capo dei capi della mafia corleonese. Qualcosa stava succedendo, qualcosa era successo. La cattura a raffica di altri latitanti illustri, i pentimenti di alcuni boss importanti, le misure repressive, i processi conclusi con condanne erano il segno che lo Stato reagiva e che in Sicilia la mafia non era più un potere assoluto, incontrastato e destinato sempre a vincere. Lasciamo stare se le cose andavano veramente così, ma certo così venivano percepite da gran parte dell’opinione pubblica.
Alain Delon e ancora Claudia Cardinale nel ballo del “Gattopardo” di Luchino Visconti (1963),
dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
E poi, accade qualcosa di inedito. Nel 1994 esplode il fenomeno editoriale di Andrea Camilleri: viene pubblicato La forma dell’acqua, il primo romanzo con il commissario Salvo Montalbano (ma il balzo nelle classifiche avverrà tre anni dopo). Il libro si apre con una lingua che non è italiano, che non è puro dialetto siciliano.
Lume d’alba non filtrava nel cortiglio della Splendor, la società che aveva in appalto la nettezza urbana di Vigàta, una nuvolaglia bassa e densa cummigliava completamente il cielo come se fosse stato tirato un telone grigio da cornicione a cornicione, foglia non si cataminava, il vento di scirocco tardava ad arrisbigliarsi dal suo sonno piombigno, già si faticava a scangiare parole.
Un giallo siciliano. Un giallo mediterraneo. Con un cadavere ritrovato in una macchina, una donna sospettata di essere l’amante assassina – cerchez la femme – una battaglia politica e un doppio, triplo, gioco. La casa editrice Sellerio lo presentava così.
Il primo omicidio letterario in terra di mafia della seconda repubblica - un omicidio eccellente seguito da un altro, secondo il decorso cui hanno abituato le cronache della criminalità organizzata - ha la forma dell’acqua (“Che fai?” gli domandai. E lui, a sua volta, mi fece una domanda. “Qual è la forma dell’acqua?”. “Ma l’acqua non ha forma!” dissi ridendo: “Piglia la forma che le viene data”). Prende la forma del recipiente che lo contiene. E la morte dell’ingegnere Luparello si spande tra gli alambicchi ritorti e i vasi inopinatamente comunicanti del comitato affaristico politico-mafioso che domina la cittadina di Vigàta, anche dopo il crollo apparente del vecchio ceto dirigente. Questa è la sua forma. Ma la sua sostanza (il colpevole, il movente, le circostanze dell’assassinio) è più antica, più resistente, forse di maggior pessimismo: più appassionante per un perfetto racconto poliziesco. L’autore del quale, Andrea Camilleri, è uno scrittore e uno sceneggiatore che pratica il giallo e l’intreccio con una facilità e una felicità d’inventiva, un’ironia e un’intelligenza di scrittura che – oltre il divertimento severo del genere giallo – appartengono all’arte del raccontare. cioè all’ingegno paradossale di far vedere all’occhio del lettore ciò che si racconta, e di contemporaneamente stringere con la sua mente la rete delle sottili intese.
Quella Sicilia, quella lingua, quei personaggi costituiscono il segreto del successo. Successo di pubblico, certo. Ma quanto alla critica, ai giornali, agli intellettuali, beh, lo presero con molte cautele. E con molte riserve. “Camilleri inventa una Sicilia arcaica, un’insularità quasi biologica, come se la sicilianità fosse una qualità del liquido seminale, un Dna, una separatezza che ovviamente non esiste se non come stereotipo, come pregiudizio che raccoglie, in disordine, malanni personali e banalità di ogni genere, nonne con le mutande a baldacchino e zii preti, la voracità sessuale come espressione del lirismo di un popolo, l’amicizia come retorica, l’omicidio come voce del Diritto amministrativo, la pennichella come ritorno alla natura, le melanzane e la pasta con le sarde come archetipo di una modesta ma sicura felicità. Il tutto descritto con la lascivia sentimentale di certe orrende cose di noi stessi che ci piacciono tanto, quasi fossero anacronistiche virtù, elisir da paradiso perduto”. Questo scriveva nel 2000 Francesco Merlo sul Corriere della Sera. E non era il solo.
“La cifra linguistica di Camilleri è di tipo folclorico di secondo grado, nel senso che lui usa una lingua mutuata dai mezzi di comunicazione di massa. E’ una specie di ‘ritorno del superato’, per citare George Steiner. Non esistono più i contesti dialettali, ma il lettore si diverte di fronte a questa buffoneria che già conosce per averla ascoltata nel cattivo cinema e nelle macchiette televisive”, così Vincenzo Consolo nel 2002 su La Nuova Sardegna. E Roberto Cotroneo, nel 2000, sull’Espresso: “Quei libri di Camilleri sembrano così poco intellettuali da diventare libri per un pubblico che ormai detesta la letteratura come sfida, come piacere culturale, come gioco borgesiano, come labirinto”.
Ma al di là delle sottovalutazioni – in seguito molti dei critici della prima ora si ricrederanno, in tutto o in parte – i romanzi di Camilleri propongono la possibilità di narrare la Sicilia, anche sotto forma di noir o poliziesco, in uno spazio sociale in cui la mafia non è preminente. Delitti di rivalità politica, delitti per passione amorosa, delitti per piccoli interessi di bottega. Ma non di mafia. O non solo di mafia. “In effetti la mafia, intesa come totalizzante impero del male, non emerge nei racconti che vedono protagonista quel commissario Salvo Montalbano, sicilianissimo, ma davvero atipico perché lontano dallo stereotipo di uomo imbelle e rassegnato”, ha scritto Francesco La Licata, cronista palermitano esperto di Cosa nostra, in una relazione svolta a Parigi nel 2015 per un seminario all’Université Paris 8. “Non emerge nel senso che il mafioso non è mai il protagonista delle storie. Ma l’onorata società non è che non esista nelle trame, c’è ma non sta in primo piano per esplicita volontà dell’autore che dichiara apertamente di non voler contribuire al consolidamento del mito della mafia. ‘Vuoi o non vuoi, il romanzo finisce col nobilitare anche i personaggi più indegni’”.
Foto di Susan Lucas Hoffman via Flickr
Da quel 1992 è passato un quarto di secolo. Venticinque anni che hanno lasciato sedimentare un nuovo immaginario della Sicilia. La Sicilia del cibo e del vino. La Sicilia del sesso. La Sicilia gay. La Sicilia urbana e metropolitana. La Sicilia dell’approdo. La Sicilia fantascientifica. La Sicilia che detesta la Sicilia. Aspetti disparati e diversi che rientrano difficilmente nelle usurate categorie della “sicilitudine”, della “sicilianità” o dell’“isolitudine”.
Certo, gli stereotipi sono forti in una terra che ne è portatrice insana. E magari si scopre che negli ultimi venticinque anni quegli stereotipi sono stati confermati o ribaltati o, comunque, usati anche in maniera esasperata, fino a diventare parodia di se stessi. Rosario Fiorello che in prima serata si presenta in televisione con coppola e marranzano gioca con lo stereotipo del siciliano alla Tiberio Murgia (che, tra parentesi, era sardo) del film I soliti ignoti. Scherza con i luoghi comuni dell’omertà, del senso dell’onore, della gelosia (“Carmelina, ricomponiti”, diceva Murgia Ferribbotte a sua sorella), secondo una consolidata tradizione iconografica che è tutta cinematografica e televisiva, come già prima di Fiorello avevano fatto in altro modo Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, magari rivolgendosi a un pubblico che a quel tempo poteva ancora credere che i siciliani fossero veramente come i due comici palermitani li rappresentavano.
Percorrere la Sicilia usando solo la Baedeker compilata da Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Sciascia rischia di farci finire fuori strada o in qualche vicolo cieco. Chiunque affronti un viaggio si procura la guida turistica più recente, con i nomi e le informazioni più aggiornate. Non si vede allora per quale motivo per muoversi in Sicilia (o dentro la sua rappresentazione) si debba fare ricorso a manuali sempre validi, ma forse un po’ datati. Ho tentato di fare la controprova con la guida rossa del Touring sulla Sicilia del 1919.
Scopro così che a Messina, in seguito al terremoto che l’ha rasa al suolo, dov’era la città vecchia c’è ora “un vasto piazzale informe sul quale cominciano a sorgere, con molta lentezza, nuovi edifici” mentre sul piano della Mosella si trovano “vastissimi accampamenti di baracche di legno, casette di uniforme tipo e costruzione in cui in gran parte abita ancora la popolazione attuale”. (…)
La mia guida rossa del ’19 è attualissima sulle informazioni essenziali. Poiché desidero visitare la Valle dei Templi, la Touring mi suggerisce di prendere il treno alla stazione centrale di Palermo che in sei ore mi porterà a Girgenti: qui la stazione ferroviaria è a due chilometri dal centro abitato lungo una strada in salita che potrò comunque comodamente percorrere con una vettura pubblica a cavalli, pagando 50 centesimi di giorno e una lira di notte. (…) Girgenti con i suoi 20 mila abitanti “è una piccola città dalle vie strette, spesso tortuose e ripide, di scarso interesse proprio che riceve però luce dagli avanzi della più antica arte dorica che tra la città e il mare formano un insieme che ha riscontro solo in Grecia”.
Chi potrebbe pensare di viaggiare con una guida turistica vecchia di cento anni? Certo, rileggerla oggi ci offre uno sguardo nostalgico su chi eravamo, sulle cose perdute e su quelle guadagnate. Magari la Cappella Palatina o il tempio della Concordia, per fortuna, non sono cambiati molto. Ma è cambiato il panorama attorno, e quindi il contesto in cui sono inseriti quei monumenti. Attraversare una città di giardini e agrumeti o una città di palazzi e cemento abusivo per arrivare alla Cappella Palatina o al tempio della Concordia non è proprio la stessa cosa. Il paesaggio, urbanistico e sociale, modifica la percezione e le sensazioni di un giro turistico. Per questo dobbiamo conservare la nostra guida Touring del ’19 tra i ricordi, magari custodirla gelosamente, ma munirci subito di una mappa più aggiornata.
E allora smettiamola di raccontare la Sicilia facendo sempre ricorso alla cassetta degli attrezzi fornita da Verga, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e Sciascia. Attrezzi buoni, letterariamente inossidabili, ma forse desueti dal punto di vista tecnologico. O, quanto meno, adatti per una Sicilia che non esiste più. Esiste invece la Sicilia raccontata negli ultimi venticinque anni, a partire da quel 1992 (anno più o anno meno, visto che la storia non si taglia a filo col coltello)? Forse non esiste nemmeno questa nuova Sicilia, se è vero che l’immagine che uno scrittore, un regista o un artista danno di un luogo e di un tempo è sempre trasfigurata. In fondo, siamo di fronte a una mistificazione. Letteraria. Cinematografica. Televisiva. Ma mistificazione, nuova mistificazione.
Allora, forse è vero che la Sicilia non esiste. O ne esistono troppe. Che poi è un altro modo per dire che esiste più che mai. Ma non è più quella di una volta.
Il Foglio sportivo - in corpore sano