Culle vuote a est
I paesi dell’ex Unione sovietica erano la giovane speranza dell’Europa. Ma ora sono minacciati da un altro muro: la crisi delle nascite
La chiamavano la “nuova Europa”, per distinguerla da quella “vecchia” franco-tedesca. Doveva venire da lì, dagli ex satelliti sovietici, da Budapest, Varsavia, Praga e Sofia, il vento nuovo che avrebbe rinvigorito il progetto unitario europeo. A Lussemburgo nel 1997 fu disegnata la carta di un’Unione europea che spazzava via anche solo il ricordo del Muro di Berlino: dall’Atlantico al mar Nero e al Baltico, al confine con Ucraina e Russia. Era la stessa idea di “Mitteleuropa”, il centro che si congeda dall’oriente e trasloca a ovest.
D’altronde, non fu Milan Kundera a definire Polonia e Ungheria “occidente sequestrato”? Di “decisione monumentale” parlò Jean-Claude Juncker, allora premier del Lussemburgo e presidente di turno dell’Ue. Oggi Juncker è presidente della Commissione europea e proprio dai paesi di Visegrad viene molta opposizione alle decisioni di Bruxelles, specie in materia di immigrazione.
I paesi dell’est, che dovevano rinverdire e ringiovanire il progetto europeo, sono oggi quelli più esposti alla “bomba demografica” al rovescio: una denatalità devastante. Secondo molti analisti, la paura demografica è anche all’origine di parte delle recenti risposte identitarie che quei paesi hanno messo in campo sull’immigrazione, rinverdendo quella linea di separazione che “da Stettino nei Baltici si estende fino a Trieste sul mare Adriatico” (il discorso di Churchill a Fulton sulla Cortina di ferro).
Il quadro è terrificante. La Romania perderà il 22 per cento della popolazione nel 2050, seguita da Moldavia (20 per cento), Lettonia (19 per cento), Lituania (17 per cento), Croazia (16 per cento) e Ungheria (16 per cento). Kristina Iglika sulla rivista del think tank Aspen si è chiesta se “l’Europa centrale sta morendo”: “La popolazione dei quattro stati della regione (Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria) entro la metà di questo secolo calerà di 10-12 milioni di persone. Quali sono le conseguenze economiche e geopolitiche del fatto che in meno di cinquant’anni un terzo degli abitanti della Polonia sarà in pensione? Per quanto riguarda l’impatto geopolitico, la Polonia perderà importanza sulla scena internazionale. E’ anche plausibile che le sue capacità di difesa si indeboliranno”.
Si stima che la Polonia nel 2050 avrà 32 milioni di abitanti, rispetto agli attuali 38. Quasi duecento istituti scolastici sono stati chiusi in tutto il paese. Non ci sono abbastanza bambini per riempire le scuole. Ma in quindici anni non ci saranno abbastanza lavoratori per sostenerne l’economia.
Maciej Duszczyk, professore presso il Centro di ricerca sull’immigrazione all’Università di Varsavia, indica un paradosso doloroso: se la Polonia fino a pochi anni fa è stata una delle società più giovani d’Europa, in pochi anni diventerà una delle più anziane del mondo. Dopo l’adesione di Varsavia all’Unione europea nel 2004, oltre il cinque per cento dei polacchi ha lasciato il paese. L’impatto di questo deflusso, dell’invecchiamento e della denatalità è evidente sul mercato del lavoro. Un terzo dei datori di lavoro fatica a trovare persone adatte per riempire i posti vacanti, secondo un sondaggio Manpower Group di due anni fa.
“I paesi baltici e la Bulgaria hanno già visto le loro popolazioni ridursi di oltre il quindici per cento a partire dal 1990, la Croazia del dieci per cento, Romania e Ungheria di oltre il cinque per cento”, si legge in un paper della Brookings Institution. “La percentuale di over 65enni nell’Europa centrale è aumentata di più di un terzo tra il 1990 e il 2010”. Per dirla con Douglas Roberts, economista inglese, “è il nuovo Giappone”. La popolazione ungherese è al suo punto più basso in mezzo secolo, essendo caduta costantemente, passando da 10.709.000 nel 1980 agli attuali 9.986.000. Il declino è ora un record dello 0,5 per cento l’anno. Ci saranno meno di otto milioni di persone in Ungheria nel 2050, con il doppio (uno su tre) con una età superiore ai 65 anni. L’Ungheria si classifica ultima in termini di crescita naturale della popolazione. Venti anni fa, il 77 per cento delle donne ungheresi erano sposate, mentre oggi sono scese al 44 per cento. Il numero dei matrimoni è diminuito di due terzi, da 103.775 nel 1975 a 35.520 di oggi. Il numero di nuovi nati è diminuito di conseguenza da 194.240 nel 1975 a 90.350, di cui il 40 per cento sono nati da coppie non sposate o madri single. Oggi l’Ungheria ha un tasso di fertilità di 1,2 figli per donna. Ma se si esclude la popolazione rom questa cifra scende allo 0,8, ovvero la più bassa del mondo (invece di dare la colpa ai rom di “avere troppi figli”, il leader di Jobbik Gábor Vona dovrebbe incolpare gli ungheresi per non averne abbastanza).
La Bulgaria avrà il più rapido declino della popolazione a livello mondiale tra il 2015 e il 2050, secondo un rapporto delle Nazioni Unite. Sofia fa parte di un gruppo in cui si prevede una diminuzione di oltre il 15 per cento della popolazione tra il 2015-2050, insieme a Bosnia-Erzegovina, Croazia, Ungheria, Giappone, Lettonia, Lituania, Moldavia, Romania, Serbia e Ucraina. La Bulgaria ha una popolazione di circa 7.150.000 di persone, che dovrebbe scendere a 5.154 milioni in trent’anni. Ciò suggerisce un calo del 27,9 per cento.
La Romania è al secondo posto con il 22,1 per cento e le prime dieci posizioni sono interamente dominate dai paesi dell’est europeo. Ricerche recenti delineano il pericolo che, in pochi decenni, i bulgari nativi possano diventare una minoranza nel loro stesso paese, in inferiorità numerica rispetto alla minoranza turca e soprattutto ai rom.
Il presidente della Repubblica, Georgi Parvanov, ha convocato i leader del paese a partecipare a una riunione del Comitato consultivo nazionale sulla sicurezza nazionale, interamente dedicato a questo problema. La demografia come problema di sicurezza. “Dalle informazioni che abbiamo, la crisi demografica in Bulgaria è molto più preoccupante che in altri paesi europei, e questo processo è diventato ormai un problema serio per la nostra sicurezza nazionale”, ha dichiarato Parvanov all’apertura dei lavori, aggiungendo che “non possiamo lasciare la strategia demografica solo agli esperti, ma deve essere oggetto di un dibattito politico più ampio”.
Un tempo i paesi dell’est europeo temevano i carri armati sovietici. Oggi sono atterriti dalle culle vuote e dalle teste grigie. L’Onu ha stimato che lo scorso anno c’era 292 milioni di persone in Europa orientale, 18 milioni in meno rispetto al primi anni Novanta, che è più della scomparsa della popolazione dei Paesi Bassi. La caduta corrisponde ad un calo del sei per cento. C’è un netto crollo della natalità in Bulgaria: da 25,2 bambini nati ogni mille abitanti nel 1950, si è passati a 9,6 al giorno d’oggi. La seconda ragione è l’aumento del tasso di mortalità. Questo fenomeno è causato da una popolazione che sta rapidamente invecchiando, ma anche da un tasso di mortalità infantile molto preoccupante, molto al di sopra della media europea.
“Entro la metà del secolo”, ha scritto Anton Ivanov sulla rivista Geopolitica, “la comunità rom raggiungerà probabilmente il 30 per cento della popolazione. Dal momento che tradizionalmente vive grazie ai servizi della maggioranza, questa sproporzione causerà gravi difficoltà non solo ai bulgari, ma ai rom. Il pericolo è quello di diventare ‘un piccolo paese zingaro’”, marginale e lontano dagli standard europei.
Stesso scenario in Romania, che oggi ha il tasso di natalità più basso dalla Seconda guerra mondiale. Numeri ufficiali mostrano che 178 mila bambini sono nati in Romania. A titolo di confronto, nel 1990, il primo anno post comunista, vi erano stati 315 mila nuovi nati. E’ lo stesso scenario ovunque si guardi oltre la ex Cortina di ferro.
Il demografo Stjepan Sterc ha detto che il calo delle nascite in Croazia è il problema numero uno del paese con 32 mila le nascite nell’ultimo anno, un calo del venti per cento a partire dal 2015: “E’ una caduta incredibile della natalità in Croazia. Assieme ai giovani che partono, lo spopolamento della Croazia potrebbe essere più di 50 mila persone ogni anno. Questo è assolutamente orribile”.
Quando la Repubblica Ceca (Cecoslovacchia) faceva parte del blocco comunista, il suo tasso di fecondità totale indugiava comodamente vicino al tasso di sostituzione. In Cecoslovacchia, come in molti dei suoi vicini comunisti, lo stato forniva alloggio, istruzione, assistenza all’infanzia e in modo che le madri potessero continuare a lavorare.
La nuova repubblica parlamentare dopo il 1989 ripudiò l’idea stessa di “politica familiare”, considerandola proprio il tipo di ingegneria sociale contro il quale si era ribellata. Nel 1990, il tasso di fertilità della Repubblica ceca ha cominciato a cadere. Oggi è il quinto paese più infecondo del mondo e perderà un milione di persone in trent’anni. La Slovenia ha il più alto Pil pro capite in Europa orientale, una forza lavoro ben istruita, e una politica della famiglia ben sviluppata. Lo stato ha previsto un anno di congedo parentale con il pieno risarcimento dal 1986 (unico al mondo già allora). Ma queste misure hanno avuto uno scarso effetto sul tasso di fertilità della Slovenia.
Non era mai accaduto nella storia e il Financial Times lo ha definito, senza tanti giri di parole, “la più vasta perdita di popolazione nella storia moderna”. La popolazione dell’Europa orientale si sta restringendo come nessun’altra prima d’ora. “La popolazione è diminuita drasticamente in paesi come la Siria, così come in alcune economie avanzate in tempo di pace, come il Giappone. Ma un calo di popolazione nel corso di una intera regione e per decenni non è mai stato osservato in tutto il mondo dal 1950, ad eccezione del Sud Europa nel corso degli ultimi cinque anni e l’Europa orientale nel corso degli ultimi venticinque anni consecutivi”. L’Italia è quindi avviata allo stesso scenario dell’est europeo. Quando crollò il comunismo, la Bulgaria aveva nove milioni di persone, era quindi più grande della Svezia e dell’Austria. Oggi la popolazione bulgara ammonta a 7,2 milioni, di gran lunga inferiore rispetto a Svezia e Austria. E si pensa che la Bulgaria perderà il 12 per cento della popolazione nel 2030 e il 27 per cento nel 2050.
Neppure la Seconda guerra mondiale, con i suoi massacri e deportazioni, era arrivata a incidere fino a questo punto sul tessuto dell’Europa centro-orientale come stanno facendo denatalità, emigrazione e invecchiamento. Chissà che il destino di questi nobili paesi non anticipi quello della “vecchia Europa”. Fu un mitteleuropeo, Karl Kraus, ad avere la prima visione apocalittica di una natura decaduta, il mondo contraffatto del postmoderno, il suo tormentoso inabissamento, quando ormai non solo il vecchio impero ma anche la giovane e gracile repubblica austriaca erano pasto per i vermi. E il caffè viennese, a poco a poco, atto per atto, si disintegrò.
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