Tech made in Roma
Viaggio tra le eleganti ville di Pi Campus, dove un imprenditore ha deciso di fare startup. A metà tra la Silicon Valley e l’Italia
“Ci siamo accorti che le migliori idee – di business, d’imprenditoria e di vita – ci venivano sistematicamente in bagno, la mattina sotto la doccia. Così, abbiamo iniziato a teorizzare la funzione del bagno nel processo creativo. Abbiamo capito che le idee migliori vengono sotto la doccia perché il bagno è l’unica stanza della casa in cui la privacy è totale, sei da solo e senza distrazioni. Così ci siamo chiesti: possiamo simulare nel nostro ufficio un posto che abbia le stesse caratteristiche?”. Marco Trombetti ridacchia e apre una porta su un bagno molto grande, con le piastrelle scure e la doccia enorme. Dal box doccia, apre un’altra porticina che dà in una stanzetta dal tetto basso. Ci sono poltrone di design, cuscini, e una stampante 3D. “La chiamiamo la stanza segreta. Si può accedere solo dal bagno, e una volta che ti chiudi dietro la porta nessuno può venirti a disturbare – sei in bagno dopotutto. Ci rifugiamo qui per pensare e creare. In più, due volte a settimana, qui viene un massaggiatore professionale”.
Nelle presentazioni ufficiali, Marco Trombetti si definisce “imprenditore seriale”. È fondatore e ceo di Translated, una società digitale che si occupa di traduzioni, e di un manipolo di altre imprese. Ma soprattutto è il leader e il mentore di una piccola comunità tecnologica che lui stesso, insieme alla moglie Isabelle Andreiu e al socio Gianluca Granero, ha creato su una collina della zona verde del quartiere Eur, a sud di Roma, in una zona esclusiva della capitale. “Qui, negli anni Settanta, i ricchi romani avevano costruito le loro residenze. Case a tre piani, in cui si erano stabiliti con le famiglie allargate: a un piano i nonni, poi i padri e i figli. Con il tempo però queste ville si sono svuotate, sono andate in vendita e sono arrivate le grandi compagnie tecnologiche. Adobe, Sony Ericsson – Microsoft ha ancora una sede in un palazzo qui vicino. Ho perfino una foto di Steve Jobs che faceva un meeting in una delle ville di questa collina nel 1984. Poi siamo arrivati noi di Pi Campus”. Tecnicamente, Pi Campus è una società di venture fund e un acceleratore di startup, vale a dire un posto che finanzia e accoglie startup giovani ma già avviate, per farle arrivare allo stadio della maturità, oltre ad avere un portfolio ulteriore di investimenti in startup in mezzo mondo, alcune delle quali scovate grazie a un sistema che usa l’intelligenza artificiale per trovare le idee tecnologiche più promettenti. Nella pratica, si sale per una collina verdissima a sud dell’Eur e si suona al cancello di Pi1, la prima delle cinque ville del Campus, che presto diventeranno sei e “puntiamo a conquistare tutta la collina”, dice Trombetti. Ville residenziali di tre piani con giardini lussureggianti, piscine, terrazze e verande, cucine e stanze segrete nei bagni, che Trombetti e i suoi hanno trasformato in uffici con scrivanie fatte su misura in cui ingegneri e informatici ventenni – sono più di 180, c’è una percentuale di ragazze insolitamente alta e nessuno mostra più di trent’anni – programmano, cucinano, programmano ancora, accolgono gli ospiti, programmano ancora, praticano esoterici sport all’aperto finanziati dal Campus. Il cliché giornalistico irrefrenabile è quello di parlare della Silicon Valley romana, ma Trombetti ne è infastidito, lui dice che questo tipo di ambiente di lavoro non è stato inventato in California, ma in Italia, da Adriano Olivetti.
Il tentativo di imitazione e il moto di differenziazione, l’amore e il contrasto tra la Silicon Valley e la piccola enclave romana è una delle cifre più interessanti di Pi Campus. Trombetti si presenta con tenuta molto italiana, camicia e maglioncino pastello à la Marchionne, ma guida una Tesla, la macchina elettrica di lusso simbolo dell’aristocrazia tech americana. Parla con gli occhi che gli brillano della Silicon Valley, ma la definisce per alcuni versi sopravvalutata. Americanizzazione e italianità, importazione di un modello e creazione di uno nuovo, nell’esperienza di Trombetti le cose si amalgamano in maniera a volte funzionale, a volte contrastante, in una maniera tutta italiana, ma infusa di americanità.
Translated, la sua prima startup fondata insieme a Isabelle Andreiu, risale al 1999. I paragoni tra società tech sono un altro cliché, ma nella preistoria di internet Trombetti inventò la Uber delle traduzioni. Translated mette in contatto un cliente che ha bisogno di tradurre un testo, un sito o una app con un esercito di traduttori professionali freelance che fanno il lavoro. Ovviamente, nel processo intervengono gli algoritmi, che sono la parte innovativa del progetto e sono principalmente due: il primo è un sistema che usa l’intelligenza artificiale per assegnare il documento da tradurre al miglior traduttore disponibile sulla base delle sue esperienze specifiche e delle sue capacità. Il secondo si chiama MateCat ed è uno strumento che usa l’intelligenza artificiale per facilitare il lavoro dei traduttori. Trombetti e i suoi hanno messo a punto un software che usa l’intelligenza artificiale, un sistema di traduzione automatica simile a Google Translate (Trombetti dice che è così avanzato da poter competere tranquillamente con quello di Google) e un archivio sterminato di frasi già tradotte professionalmente per automatizzare la traduzione e rendere il lavoro del traduttore infinitamente più veloce: “Se qualcuno al mondo ha già tradotto quella frase, il sistema te lo mostra e tu non la devi tradurre due volte”. Questo significa che il lavoro diventa più efficiente e veloce ma anche che, visto che il traduttore è pagato a parola, in teoria dovrebbe ricevere un compenso inferiore, perché l’intelligenza artificiale traduce da sé buona parte del testo.
Qui si apre un tema enorme, che è spesso volgarizzato in: “L’intelligenza artificiale e i robot rubano il lavoro agli umani”. MateCat velocizza e migliora la traduzione, ma a tutti gli effetti toglie lavoro e dunque reddito ai traduttori umani. “Noi abbiamo fatto una scelta che secondo me è stata vincente: man mano che l’intelligenza artificiale ci dava benefici di produttività, noi abbiamo deciso di ripartire il beneficio economico a metà tra il traduttore e noi. Ogni guadagno economico generato dall’intelligenza artificiale è suddiviso, in modo che, alla fine, se il lavoro è abbastanza il traduttore riesce a guadagnare più di prima”, dice Trombetti. “Abbiamo cercato un modello economico in cui il beneficio portato dall’intelligenza artificiale è diviso tra tutti, società, freelance e cliente”. In questi giorni, Bill Gates e altri grandi imprenditori tecnologici hanno avanzato la proposta di tassare le imprese che usano l’intelligenza artificiale e i robot per compensare i lavoratori che a causa loro perdono il posto di lavoro. Il sistema di Trombetti, seppure applicabile solo a casi specifici, è un’alternativa interessante.
Trombetti è un purista della disruption. “YouTube, Uber, Airbnb, tra i più grandi successi che abbiamo avuto nell’innovazione e tra i migliori esempi della disruption in occidente, hanno guardato in avanti cercando di capire come sarebbe stato il mondo, e si sono disinteressati di come il mondo è attualmente e di quali sono le leggi che lo regolano. Specie agli inizi, YouTube è stata la più grande violazione di copyright della storia, ma era quello che gli utenti volevano, e tanto le leggi quanto la morale e l’etica si sono adattate al cambiamento. Alcune volte disruption significa perfino correre sul limite di quello che è legale, perché significa gettarsi avanti e realizzare un futuro che ancora deve crearsi”. Trombetti parla nel giorno in cui è appena stato annunciato un accordo tra i tassisti romani e lo stato, dopo quasi una settimana di proteste violente e illegali contro Uber. Non è affatto simpatetico con i tassisti, ma riconosce che “il percorso di transizione deve essere sostenibile. Serve welfare e servono sistemi che attutiscano le cadute”.
Il secondo progetto di Trombetti, sviluppato insieme a Gianluca Granero, è MemoPal, una compagnia di cloud storage simile a Dropbox. “Eravamo arrivati qualche mese prima di Dropbox, avevamo indovinato il mercato alla perfezione, avevamo una tecnologia di archiviazione più avanzata e all’inizio avevamo perfino più finanziamenti di loro. Ma Dropbox ha fatto un’execution migliore”, che è siliconvalleyese per dire che Dropbox era un po’ più facile da usare di MemoPal, un po’ più rifinito nei particolari. “Eravamo sicuri che MemoPal sarebbe diventata un unicorno”, continua Trombetti, usando un altro siliconvalleysmo: unicorni sono le compagnie che ottengono una valutazione di mercato di almeno un miliardo di dollari. “Invece è Dropbox che oggi vale 10 miliardi. MemoPal è stata comunque un successo, ma non delle stesse proporzioni”.
In mezzo tra Translated e Memopal ci sono quasi dieci anni e la scoperta della Silicon Valley e del venture capital. “Nei primi anni di Translated eravamo davvero naïf. Poi Google è diventato uno dei nostri primi clienti. Quando sono andato lì a conoscerli, ho scoperto che Google e Translated erano stati fondati a un anno di distanza l’uno dall’altro, ma loro fatturavano 500 milioni di dollari, noi mezzo. Perché siete già mille volte più grandi di me, come avete fatto?” Era il venture capital, vale a dire che c’era un ambiente di investitori pronti a mettere i soldi in idee ad alto potenziale e alto rischio. A quel punto la possibilità era di prendere tutto e di trasferire Translated in California. Ma l’ambiente lì stava diventando eccessivamente competitivo, quasi asfittico, e Trombetti aveva troppa voglia di provare gli strumenti del venture capital in Italia – dove pure già esistevano in alcune realtà, specie al nord. Translated ha preso parte dei suoi profitti, 5 milioni di euro, e ha fatto un fondo per investirli in startup nel corso di cinque anni. Contestualmente è nato Pi Campus. E qui, con le proteste dei tassisti a Roma ancora fresche e le immagini dei violenti con il tirapugni che manifestano contro Uber, la domanda inevitabile è: ma perché l’Italia, e soprattutto perché Roma, che tra tutte sembra la città più refrattaria all’innovazione?
La risposta arriva dopo, mentre Trombetti racconta le startup che ha finanziato, e durante il tour delle ville del Campus, con le scrivanie e le sedie ergonomiche e gli startuppari giovanissimi. Trombetti è perennemente entusiasta. A ogni conglomerato di scrivanie incita continuamente i giovani imprenditori: “Digli quanto crescete mese su mese”, “Raccontagli quanti utenti avete totalizzato in un anno”, “Spiegagli quanti nuovi clienti arrivano ogni giorno”, dice. C’è Filo, che ha creato un piccolo device bluetooth che serve per non perdere mai le chiavi, c’è MioAssicuratore, il “primo broker assicurativo completamente online”, creato da un ragazzo la cui famiglia è composta da assicuratori da tre generazioni e che ha deciso di applicare la disruption ai suoi cari. Poi wineowine, servizio di ecommerce di vini rari e pregiati, Wanderio, che automatizza l’acquisto di biglietti per qualunque mezzo di trasporto.
Una delle startup su cui Pi Campus ha investito, ma che non è presente fisicamente all’Eur perché è stata fondata a Denver, è Boom, creata da un gruppo di ingegneri che vuole fare il nuovo Concorde. Boom ha attirato l’attenzione di grandi investitori e compagnie anglosassoni (Amazon, Virgin Galactic, Boeing, Nasa, Lockheed Martin), e Pi Campus se n’è aggiudicata una fettina grazie a una partnership con Y Combinator, il più importante acceleratore di startup del mondo. L’impresa di Boom ha suscitato interesse nella stampa mondiale, anche perché il fallimento del Concorde, l’aereo supersonico, è un caso di studio internazionale su come non si deve fare business. Voler ricreare un aereo supersonico che porta da Londra a New York in tre ore e mezza è un’impresa anche concettualmente coraggiosa, “ma in Italia avremmo potuto farla in maniera identica. Certamente non sarebbero mancati né i capitali iniziali né quelli per creare il primo prototipo. Quello che si pensa dell’America è che ci siano soldi a palate e capitale umano per fare tutto ciò che un imprenditore desidera. Ma la competizione è così alta che in realtà i soldi di partenza sono pochi e bisogna lottare molto di più per i talenti. Con tutto il know-how che abbiamo in avionica in Italia avremmo avuto talenti ed esperienze in abbondanza. Quello che manca davvero è il mindset”, l’atteggiamento mentale. “Non sono gli uomini o i capitali che sono diversi tra Italia e America, sono le ambizioni. In Italia ci sono ancora troppo pochi ragazzi pronti ad abbandonare tutto per fare il nuovo Concorde. Gli italiani in tecnologia pensano molto più in piccolo di quanto potrebbero. Magari trovi un trentenne visionario, ma è difficile trovare un team intero che condivida le sue idee”.
Si possono impiantare in Italia i valori di ambizione e del pensare in grande, così come si può impiantare una cultura del fallimento all’americana, in cui il fallimento non è il punto di caduta di un percorso imprenditoriale ma un nuovo inizio. “Non sarebbe né uno stravolgimento culturale né infrastrutturale, non dobbiamo aspettare che lo stato ci metta i capitali o le infrastrutture”, dice Trombetti. “Abbiamo già tutti i mezzi a nostra disposizione”. È una questione di fiducia e di ottimismo. Certo, in Italia il mercato è piccolo, ci sono scarse possibilità di fare un grande business riservato al mercato locale, ma quando l’obiettivo è partire dall’Italia per fare un’impresa di livello globale il rapporto tra opportunità e capitali disponibili non solo è eccellente, ma è migliore che nella Silicon Valley”.
La conversazione finisce e dentro Pi1 è tutto un frullare di ragazzi e ragazze che sembrano appena diplomati al liceo. Ma qual è l’età media qui dentro? “Non lo so, non l’abbiamo mai contata, ma bassissima. Io credo più nei giovani che nei vecchi”.
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