Gran taxi Italia
Non solo la lotta dura dei tassisti. Il “boia chi molla” di farmacisti, notai, stabilimenti balneari
Dopo giorni di interruzione di un servizio pubblico da parte dei taxi, in violazione delle norme sullo sciopero, molti cittadini si sono resi conto che esiste un problema sul fronte delle liberalizzazioni. La classe politica invece non se n’è affatto resa conto. A parte qualche sparuta eccezione i partiti hanno fatto a gara a dimostrare, con dichiarazioni sempre più roboanti, vicinanza e solidarietà ai tassisti che hanno paralizzato le città e lasciato i cittadini a piedi. Persino il Partito democratico, che è stato letteralmente assediato durante la direzione in via del Nazareno da tassisti agguerriti, ha ceduto al ricatto dei manifestanti. Il ministro Graziano Delrio, dopo il lancio di bombe carta contro la sede del ministero durante la giornata, ha chiuso in serata un accordo nello stesso ministero con i rappresentanti dei tassisti, che hanno visto soddisfatte le proprie richieste.
A differenza di quanto è stato detto da tutte le parti in questi giorni, non era prevista alcuna liberalizzazione del settore, ma solo una proroga dell’esistente. L’emendamento contestato prevedeva semplicemente di lasciare le cose come stanno per un altro anno, in attesa di un piano per regolare il trasporto con conducente, a sua volta rinviato da anni: in pratica si voleva sospendere una norma, infilata anni fa con un emendamento notturno e mai entrata in vigore, che obbligherebbe in maniera discriminatoria gli Ncc (noleggio con conducente) a tornare dopo ogni viaggio in autorimessa e aspettare un quarto d’ora prima di un nuovo viaggio. Non si tratta quindi di una norma “pro Uber”, che non c’entra nulla, ma di una norma di buon senso, soprattuto nell’ottica di una futura equiparazione tra taxi e Ncc più volte sollecitata dall’Antitrust e dall’Autorità dei trasporti.
Naturalmente l’emendamento al decreto Milleproroghe non è lo strumento più adeguato, servirebbe una legge che magari si occupasse non solo dei tassisti ma anche degli altri settori. Servirebbe insomma una legge sulla concorrenza. Ma in Italia, alla faccia di chi dice che viviamo in un “far west” senza regole e senza leggi, c’è qualcosa di più: dal 2009 esiste una legge dello stato che impone allo stato l’obbligo di fare ogni anno una legge sulla concorrenza. Anzi, la norma dà un suggerimento ulteriore: la legge deve essere predisposta sulla base di una relazione dell’Autorità garante del mercato (Antitrust). E così dal 2009, l’Authority invia il suo compitino al governo, con i suggerimenti sulle cose da fare per ampliare la concorrenza, ma la segnalazione viene sempre ignorata.
Il governo Renzi, con l’ex ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, è stato il primo esecutivo a predisporre una legge sulla concorrenza, che prima è stata amputata, poi annacquata e ora quel che resta giace da due anni in Parlamento in attesa di un’approvazione che nessuno sembra volere, a parte il successore della Guidi, Carlo Calenda, che invece spinge per una rapida approvazione del testo ora al Senato. La storia del ddl Concorrenza è lì a dimostrare che oltre ai tassisti, ormai diventati a seconda dei punti di vista simbolo del corporativismo o della resistenza alle multinazionali, ci sono altre categorie che sono riuscite, con metodi più urbani e civili, a ottenere gli stessi risultati: impedire le liberalizzazioni e conservare la propria posizione di rendita.
Notai
Nei giorni scorsi si è levato il grido di dolore del Notariato: c’è una crisi di vocazioni, non si guadagna più come una volta, nessuno vuole fare più il notaio. E la colpa sarà sicuramente degli “eccessi del liberismo”, come dichiarò qualche mese fa il Consiglio nazionale del Notariato, che al Corriere della Sera ha recentemente mostrato alcuni dati che mostrano la “crisi” dei notai: in quattro anni i praticanti sono crollati da 1.211 unità a 425 e anche il reddito è in calo, il 75 per cento dei notai guadagna meno di 70 mila euro all’anno. E poi non è vero che sono una casta perché “solo il 18 per cento è a sua volta figlio di un notaio, tra gli avvocati si arriva al 40 per cento”, dicono i notai. Partendo dall’ultimo punto, il confronto oltre ad essere improprio è davvero sorprendente. Se la professione di avvocato è libera e l’attività dei genitori può essere ceduta ai figli, per diventare notaio bisogna vincere un concorso pubblico ed è incredibile che su 4.821 notai, 868 siano figli d’arte. Se nei ministeri o nella magistratura, posti a cui si accede per concorso pubblico, un dipendente su cinque fosse figlio di un dirigente ministeriale o di un giudice sarebbe considerata un’anomalia. Sulla flessione dei redditi dei notai sicuramente hanno influito la recessione e la stagnazione economica, con la conseguente riduzione delle compravendite immobiliari, ma parlare di crisi è un po’ eccessivo perché chi guadagna 70 mila euro annui rientra nel 2-3 per cento di contribuenti con i redditi più elevati e, secondo gli ultimi dati disponibili, i notai dichiarano in media 200 mila euro l’anno (siamo nel top 1 per cento, ma anche nel top 0,1 per cento). I notai insomma non devono temere di diventare poveri, anche perché sono protetti dalla concorrenza (una sede ogni 7 mila abitanti, che in realtà sono quasi il doppio) e la garanzia di un livello minimo di reddito annuo pari a 50 mila euro di onorari professionali. Insomma, i notai sono gli unici in Italia ad avere una sorta di reddito minimo garantito e anche piuttosto alto (50.000 euro di onorari professionali repertoriali).
Con dati del genere c’è da sospettare che il calo delle vocazioni non dipenda dalla crisi economica dei notai, ma da altri fattori, come ad esempio l’accesso alla professione. Attualmente, delle 6.270 sedi notarili previste 1.449 sono vacanti, cioè da assegnare (il 23 per cento). Per legge il ministero della Giustizia dovrebbe indire un concorso ogni anno, ma in realtà ne passano in genere due a cui se ne aggiunge un altro per le correzioni e l’approvazione della graduatoria. Se si considera che servono anche 18 mesi di pratica, vuol dire che un giovane neolaureato deve investire dai sei agli otto anni della propria vita e in tempi di crisi economica è una scelta che in pochi possono permettersi (tranne, forse, i figli di notaio).
Si era cercato di aprire un pochino il mercato, inserendo nel ddl Concorrenza la possibilità di costituire una srl semplificata senza necessariamente passare per il notaio (come già accade per le startup innovative), ma la norma è stata soppressa in commissione, così come la possibilità di cedere le quote delle srl attraverso la sottoscrizione digitale. Stessa sorte per il provvedimento che avrebbe consentito anche agli avvocati di redigere compravendite di immobili a uso non abitativo (box e cantine) per un valore catastale non superiore a 100 mila euro. La norma, è stata cancellata in cambio di un aumento delle sedi notarili (1 ogni 5 mila abitanti anziché 1 ogni 7 mila), una soluzione che non dispiace ai notai visto che i concorsi non si fanno e quando si fanno vengono messi in palio solo qualche centinaio di posti. Così le sedi restano vuote e il rapporto reale è di 1 notaio ogni 10 mila abitanti. Nel ddl è resistita solo la norma che inserisce un po’ di concorrenza all’interno della categoria, consentendo ai notai di operare non solo nel distretto di competenza ma anche nella regione. Non si capisce però perché non estendere la possibilità all’intero territorio nazionale.
Farmacisti
Ancora a liberalizzare le farmacie? Ma non ci aveva già pensato il governo Monti? Correva l’anno 2012 e, a qualche stagione dalle “lenzuolate” di Bersani, il governo tecnico di Monti approvò il decreto Cresci Italia che prevedeva la riduzione del numero necessario di abitanti per far scattare una nuova sede e quindi l’apertura di circa 2.500 nuove farmacie. Non si trattava quindi in senso stretto di una liberalizzazione, ma di ridisegnare la pianta organica di un settore che resta protetto. Erano previsti tempi stretti: concorso per titoli, graduatoria, assegnazione e apertura entro sei mesi. In un annetto i giovani farmacisti avrebbero dovuto inaugurare le nuove sedi. A distanza di cinque anni però le nuove farmacie aperte sono qualche centinaio: le regioni ci hanno messo tempo per bandire i concorsi, i comuni altro tempo per individuare le zone per le nuove sedi e poi ricorsi e contro ricorsi. Dodici regioni non hanno ancora fatto l’interpello, non hanno cioè assegnato le sedi: la Lombardia, il Piemonte, la Toscana, la Campania, la Sicilia. Tutto fermo. In altre regioni le sedi sono state assegnate, ma non tutte sono state aperte e altre non lo saranno mai, perché i comuni le hanno piazzate in posti dimenticati da Dio e dagli uomini, in zone industriali, sperse nel nulla, in strade dove non ci sono locali, lontano da medici e potenziali clienti. Sarà questo un ottimo pretesto per far dire che non c’era bisogno di così tante nuove farmacie quando a qualcuno verrà in mente di proporre un ampliamento dell’offerta. In realtà la soluzione al problema della pianta organica è stata suggerita dall’Antitrust: “Il contingentamento del numero di farmacie appare sostanzialmente finalizzato a garantire i livelli di reddito degli esercenti. In tale ottica la trasformazione dell’attuale numero massimo di farmacie in numero minimo tutelerebbe l’interesse pubblico ad una efficiente distribuzione senza impedire l’accesso ai potenziali nuovi entranti”. Insomma, il servizio pubblico viene garantito meglio se ci sono più farmacie e non se ce ne sono meno. L’osservazione è banale e ovvia, ma proprio per questo non è a neppure accolta nel testo originario del ddl Concorrenza. Allo stesso modo non è a neppure presa in considerazione la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, che consentirebbe la vendita dei medicinali con obbligo di ricetta anche nelle parafarmacie. E’ difficile immaginare che gli stessi farmacisti, iscritti allo stesso ordine e sottoposti alle stesse leggi, diventino pericolosi solo perché operano in un luogo che si chiama “parafarmacia” anziché “farmacia”. E invece prevale l’idea che la salute dei cittadini non venga garantita dalle leggi, ma da cosa c’è scritto sull’insegna del locale.
Nel ddl Concorrenza sono presenti solo la liberalizzazione dell’orario di apertura delle farmacie e l’apertura all’ingresso nell’assetto proprietario delle farmacie delle società di capitali. Ma la Federfarma, il sindacato dei farmacisti titolari, sta lavorando per eliminare anche questa norma.
Stabilimenti balneari
Stessa spiaggia stesso stabilimento balneare. Di rinvio in rinvio, di proroga in proroga, la scadenza delle concessioni per lo sfruttamento dei beni demaniali marittimi e lacustri, con la conseguente messa a gara, è stata rinviata dal Parlamento al 31 dicembre 2020. Sul tema si è già espressa la Corte di Giustizia europea, che ha dichiarato la proroga automatica in contrasto con la “direttiva servizi” (la cosiddetta Bolkestein, contro cui protestano per gli stessi motivi gli ambulanti): “Il rilascio di autorizzazioni relative allo sfruttamento economico del demanio marittimo deve essere soggetto a una procedura di selezione tra i potenziali candidati, che deve presentare tutte le garanzie di imparzialità e di trasparenza” e invece la proroga continua “costituisce una disparità di trattamento”. In pratica l’Europa dice, come ha anche confermato la Corte costituzionale, che una volta scadute le concessioni devono essere affidate con una gara pubblica e trasparente e non riaffidate agli stessi operatori che continuano a versare canoni spesso irrisori. “Senza gare competitive – scrive l’Istituto Bruno Leoni in un recente studio di Francesco Bruno – continueremo a protrarre una situazione paradossale, nella quale si rivendica in via di principio una nozione pubblicistica delle spiagge, ma nella realtà si consente un meccanismo che ricorda, vista la durata, l’usufrutto”. In pratica, senza concorrenza, un bene che a parole è pubblico viene nei fatti privatizzato. Per usucapione.
Il Foglio sportivo - in corpore sano