Nemica Francia
Se un’azienda italiana si spinge oltralpe si alzano muri che nemmeno quello di Berlino. L’ultimo braccio di ferro è su Fincantieri, che vuole acquisire gli impianti di Saint-Nazaire
L’ultimo braccio di ferro è su Fincantieri. Il gruppo, controllato dalla Cassa depositi e prestiti attraverso Fintecna, vuole acquisire i cantieri navali di Saint-Nazaire, la cui maggioranza è in mano alla coreana STX. Ma il governo francese si mette di traverso. Un lungo tira e molla, poi il segretario di stato all’Industria Christophe Sirugue accetta che il controllo passi agli italiani (dopo tutto sono europei), però la République intende mantenere il 33 per cento delle quote, è una conditio sine qua non. Del resto, Fincantieri è anch’essa un’azienda pubblica. Politique d’abord. Bene, se così stanno le cose perché non ci difendiamo anche noi dal podestà straniero, dalle scalate ostili, dai finanzieri d’assalto e da tutti quelli che vogliono prendere in mano il nostro destino? Facciamo come la Francia. Ma che cosa fa davvero la Francia? E cosa possiamo fare in concreto, al di là della solita retorica?
La storia è lunga e disseminata di cattive intenzioni, perché “la figlia maggiore di santa madre Chiesa” è diventata la nostra nemica carissima. Quando è accaduto non si sa: c’è chi fa risalire il tutto alla invidia sorda di Parigi per Roma, chi tira in ballo Carlo VIII e la prima calata in Italia manu militari, chi se la prende con il solito Napoleone che rinnegò la lingua materna, mentre i piemontesi che parlavano l’idioma gallico meglio di quello italiano non hanno osato sparare cannonate contro gli zuavi a Porta Pia; senza dimenticare l’umiliazione alla conferenza di pace di Versailles su Trieste e Fiume, che nel 1919 fornì benzina a Mussolini per alimentare il fuoco dei fasci. Allora c’era Georges Clemenceau detto il Tigre, ma nemmeno Charles de Gaulle fu da meno.
Saltiamo indietro nel tempo fino al mitico 1968. Il generale con una mano piegava i ribelli gauchiste alla Sorbona e con l’altra metteva in riga gli Agnelli che pure a Parigi erano riveriti non solo per il loro stile, ma per le loro ricchezze e i loro possedimenti finanziari, immobiliari e industriali (qualcuno ricorda le auto Simca?). François Michelin, per esempio, era entusiasta di unire i propri destini alla Fiat. Il magnate dei pneumatici, azionista principale della Citroën, vedeva nel matrimonio con il gruppo italiano il modo più semplice per tirarsi fuori dai pasticci. Ma non appena il dossier arrivò sulla scrivania del presidente, de Gaulle saltò sulla sedia. “Impossible – esclamò – Citroën c’est la France”. E’ vero, le trattative ripresero quando entrò all’Eliseo Georges Pompidou, che si era fatto una carriera dai Rothschild, però l’incanto era rotto per sempre.
Da allora Parigi ha accettato il mercato aperto in Europa e, bon gré mal gré, anche la globalizzazione, ma appena può continua a chiudersi a riccio. Il manuale dedicato a chi vuole fare affari oltralpe sembra un’enciclopedia di diritto commerciale, solo la lista dei permessi e delle autorizzazioni è più lunga del catalogo di don Giovanni. Il ministero dell’Economia ha diritto di veto, anche rispetto alle decisioni dell’antitrust. Chi intende acquistare una quota sensibile in una banca o in una compagnia d’assicurazione, deve ottenere il permesso della Banca di Francia che poi passerà il dossier alla Banca centrale europea. Nel caso in cui avvenga un cambio di proprietà e di controllo, la decisione spetta all’autorità nazionale. Poi c’è la pletora di settori strategici: non solo la difesa o le tecnologia a doppio uso (civile e militare), non solo l’energia, l’acqua, la salute e le infrastrutture di vitale importanza, ma persino le scommesse (esclusi però i casinò). I tempi per l’autorizzazione sono rapidi: due mesi, dopo i quali scatta il silenzio assenso. Tuttavia nessuno può essere considerato al riparo dalla politica. Come dimostra la legge Florange che prende il nome da una località in riva alla Mosella, al confine con la Germania. La cittadina conta appena 10 mila abitanti e la maggior parte di loro era sempre vissuta sull’industria siderurgica. Senonché la Arcelor nel 2006 viene comprata dal gruppo anglo-indiano Mittal che sei anni dopo, sotto i colpi della recessione, decide di chiudere lo stabilimento, nonostante le promesse del nuovo patron, il miliardario Lakshmi Mittal, e dell’allora candidato presidente François Hollande.
Florange diventa così il simbolo di tutte le vittime della “mondialisation”. Si grida “mai più” e il governo vara una norma che prevede l’attribuzione del doppio diritto di voto agli azionisti presenti da almeno due anni nella proprietà dell’azienda. L’obiettivo generale è privilegiare la stabilità contro i predatori della finanza perduta, in realtà serve a bloccare ogni scalata ostile, in particolare se arriva dall’estero. L’ironia della faccenda vuole che a beneficiarne finora sia stato soprattutto Vincent Bolloré, che con il 15 per cento delle azioni Vivendi in portafoglio, proprio facendo ricorso alla legge Florange è arrivato a controllare il 26 per cento della compagnia senza spendere un euro in più. Bolloré è pur sempre francese; per gli stranieri, invece, è tutta un’altra musica e gli italiani lo sanno bene.
Citroën non è il solo esempio eclatante. La Cinq, il canale televisivo aperto da Silvio Berlusconi nel 1986, è durato solo sei anni. Si mise di traverso fin dall’inizio Jacques Chirac, allora sindaco di Parigi, per fare un dispetto al presidente François Mitterrand e alla prima tv privata, lanciata per di più da un imprenditore italiano sponsorizzato dai socialisti. Dopo una catena di difficoltà e battaglie legali con magnati come Hersant o Lagardère, la Fininvest cercò di lanciare un aumento di capitale, ma non trovò i sostegni necessari. Il sistema aveva chiuso i battenti, proprio come avvenne due anni dopo con le Assicurazioni Generali che volevano acquisire la Compagnie du Midi. Anche se il Leone di Trieste era appoggiato dalla Lazard, storica partner di Mediobanca, la Banca di Francia cercò ogni scusa per ritardare l’autorizzazione, finché non scese in campo Claude Bébéar, il patron di Axa, che organizzò una fusione intrappolando la compagnia italiana.
Il cavaliere bianco chiamato dal governo è la classica tattica che si ripete anche nel 1999 quando l’Eni sta trattando un’alleanza con la Elf controllata dallo stato francese. Sollecitata dall’Eliseo, si fa avanti la TotalFina che lancia un’offerta con un cospicuo premio di maggioranza. Un’ opa ostile, ma comunque l’esecutivo (presidente Chirac, primo ministro il socialista Lionel Jospin) dà via libera. La questione finisce sul tavolo del vertice franco-italiano, però Massimo D’Alema presidente del Consiglio e Pierluigi Bersani ministro dell’Industria tornano a casa con le pive nel sacco.
Clamorosa l’entrata a gamba tesa per contrastare l’Enel. E’ il 2006 e la compagnia elettrica italiana, dopo aver preso la spagnola Endesa, punta su Electrabel. La contromossa d’oltralpe non si fa attendere. Il premier Dominique de Villepin annuncia la fusione tra Gaz de France e l’utility franco-belga Suez che controlla Electrabel. L’obiettivo esplicito è impedire un’opa dell’Enel sulla Suez. De Villepin chiede al Parlamento di modificare la legge secondo la quale lo stato non può scendere al di sotto del 70 per cento nel capitale di GdF. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti reagisce irritato con quella che chiama ironia giuridica: “Alla clausola della nazione più favorita bisogna a questo punto aggiungere quella della nazione più protetta”. Oggi GdF-Suez ha una robusta presenza in Italia con impianti e reti distributive, ed è il primo socio privato della municipalizzata romana Acea. Perché i francesi sono entrati, eccome.
Fanno notizia lo shopping che LVMH di Bernard Arnault va facendo nella moda, da Loro Piana a Bulgari, e le campagne del suo arcirivale François Pinault cominciate con l’acquisto di Gucci fino a Brioni e Bottega Veneta. Sappiamo tutto o quasi della espansione nell’alimentare da Parmalat a Eridania. E poi la grande distribuzione dove spiccano Carrefour e Auchan. Mentre un francese, Philippe Donnet, guida le Assicurazioni Generali e il suo connazionale Jean-Pierre Mustier è amministratore delegato di Unicredit. Dalle due banche Bnl e Cariparma, cedute nel 2006 a Bnp e Credit Agricole per 10,9 e 4,7 miliardi rispettivamente, per arrivare alla cessione di Pioneer da Unicredit ad Amundi per 4 miliardi, l’elenco dei buoni affari francesi è lungo anche nel mondo bancario. Ma la presenza più estesa è senza dubbio quella di Vincent Bolloré tra Mediobanca, della quale possiede l’8 per cento, Mediaset e Telecom dove è entrato con Vivendi: il gruppo controllato dal finanziere bretone ha in mano rispettivamente il 28,8 per cento e il 23,9 per cento delle due aziende.
Anche se con meno glamour, i francesi hanno un peso rilevante nelle utilities. A parte Vivendi e Suez, va ricordata la Edf. Quando, alla svolta del nuovo millennio, la società elettrica francese, posseduta dallo stato, entrò in Edison, lo fece chiamata dalla Fiat che stava scalando la compagnia per sottrarla a Mediobanca ancora scossa dalla scomparsa del fondatore Enrico Cuccia. L’offensiva Edf-Fiat suscitò un’ondata di proteste tanto che Giuliano Amato, arrivato al governo dopo le dimissioni di Massimo D’Alema sconfitto alle elezioni regionali, emanò un decreto per bloccare al 2 per cento il possesso di Edison.
Dal 1996 a oggi i francesi hanno comprato in Italia aziende per 101,5 miliardi di euro, gli italiani in Francia hanno speso 52,5 miliardi, poco più della metà. Fino al 2005 erano in testa le imprese italiane con un valore di 20 miliardi contro i 13 dei francesi. Poi la lunga recessione ha invertito i rapporti di forza. Stando a un’elaborazione che il Sole 24 Ore ha fatto usando la banca dati S&P Capital IQ, il controvalore delle partecipazioni azionarie a Piazza Affari che fa capo a investitori francesi è pari a 37 miliardi di euro, il 7 per cento circa della capitalizzazione della piazza milanese; il valore delle partecipazioni di soggetti italiani nella Borsa francese non arriva a 20 miliardi che equivale a una briciola (0,9 per cento) della Borsa di Parigi.
Forse l’operazione Luxottica-Essilor può ridurre un po’ lo squilibrio visto che il nuovo gruppo sarà quotato a Parigi e avrà il quartier generale oltralpe. La holding della famiglia Del Vecchio resta prima azionista con una quota tra il 31 e il 38 per cento, mentre l’ottantunenne fondatore avrà il ruolo di amministratore delegato. Cosa accadrà quando questi passerà la mano? Non saranno i figli a governare il gruppo, da quel che si capisce faranno da azionisti, ma il comando toccherà al management che viene da Essilor.
E se fosse meglio così? Se le nostre imprese e le nostre banche stessero meglio in mani transalpine? La società di ricerca Prometeia ha pubblicato tre anni fa un rapporto su come vanno le imprese straniere in Italia studiando quasi 500 acquisizioni. Il risultato è ben lontano da quell’immagine predatoria che domina la polemica politico-mediatica. I bilanci rivelano che le imprese acquisite non sono realtà in crisi e fuori mercato, al contrario risultano più strutturate, finanziariamente solide e dotate di attività competitive superiori ai propri concorrenti.
La compravendita, tuttavia, lascia aperti due problemi: la reciprocità e il comando. L’Italia è il settimo paese esportatore mondiale di merci, ma appena il diciottesimo in termini di investimenti diretti esteri sul territorio. Rispetto ai concorrenti europei, paga ancora un ritardo che solo recentemente ha mostrato qualche debole segno di recupero. Le iniziative dall’estero nell’ultimo decennio tra nuovi investimenti e acquisizioni sono per l’Italia rispettivamente 1.652 e 2.315 contro 4.500 e 4.200 per la Francia e 6.100 e 5.900 per la Germania. Dunque, c’è ancora ampio margine e non è proprio il caso di alzare le barricate. Il flusso, però, deve andare in entrambe le direzioni.
L’Italia ha bisogno di diventare più aggressiva nella internazionalizzazione delle proprie imprese, ma senza spostare il quartier generale. Al contrario, dovrebbe attrarre centri di ricerca e centri direzionali delle aziende multinazionali. La sede e la cabina di regia portano con sé una serie di ricadute inevitabili. C’è l’aspetto fiscale, che non è affatto irrilevante perché vengono sottratte le imposte sui profitti. Ma non solo. I consulenti, le banche di sostegno, persino le università dalle quali attingere nuovi talenti, cambiano; è più semplice utilizzare l’expertise del paese in cui si risiede, fare ricorso alla rete di relazioni locali, conoscere chi sa ungere le ruote giuste nel modo giusto e ciascuno nel mondo possiede il proprio olio e la oliera adeguata. Le capacità intellettuali che ruotano attorno all’impresa rischiano di fuggire, il capitale umano se ne va con il capitale finanziario e industriale.
A Via Veneto, dove parlano francese, cercano di reagire, senza spocchia e senza grandeur perché a noi il protezionismo fa ancor più male. Il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda intende ispirarsi alla normativa francese e al Securities Exchange Act americano come ha anticipato venerdì 24 febbraio al dibattito organizzato dal Foglio. In sostanza, si tratta di obbligare chi acquista, in una impresa strategica, più del 10 per cento delle azioni (ma il ministro ha parlato di scendere fino al 5 per cento) a informare le autorità su tutte le proprie intenzioni, dall’inizio (quanto vuole comprare e quanto a lungo intende tenere la partecipazione) alla fine (il piano industriale). Non sarà facile definire i settori strategici. Senza dubbio vengono considerate gioielli da tutelare l’Eni, l’Enel, Leonardo (la ex Finmeccanica), le Poste, Terna, le Ferrovie, Prysmian (produce cavi e sistemi per energia e comunicazioni). Il governo vorrebbe includere anche la telefonia, mettendo quindi un freno a Vivendi in Telecom. E c’è chi intende arrivare fino alle banche: nel mirino sarebbe la Unicredit la quale, ancor più dopo l’aumento di capitale, è una public company con una dominante presenza straniera, a cominciare dagli arabi di Aabar. Non sarà facile allargare così tanto i confini, cinque anni fa del resto venne introdotto il golden power per proteggersi da scalate ostili nei settori sensibili e non è servito a granché. Ma se i francesi hanno suonato le loro trombe, noi adesso suoniamo le nostre campane.
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