Il cinepantalone
Dal grande schermo al palcoscenico, un Italian Style che fa ancora scuola. Le sartorie teatrali: maestri da Oscar, costumi da museo
Nel mondo parallelo che guarda meno i volti degli attori e più i loro abiti dentro e fuori dalla scena, pochi si sono accorti dello sfondone di Warren Beatty durante la notte degli Oscar perché erano già corsi a twittare commenti entusiasti sull’account facebook della sartoria Farani di Roma che aveva, idealmente ma in forma molto concreta, vinto la statuetta insieme con la costumista Colleen Atwood per “Animali fantastici e dove trovarli”, spin off di Harry Potter diretto da David Yates. “Bravi!”. “Evvai”; “Raccontiamo anche le cose belle della capitale, non solo gli scandali e la Raggi”. Due settimane fa, Farani aveva vinto sempre per interposta persona e in questo caso con la costumista francese Anais Romand il César per “La danseuse”, biografia di Loie Fuller, feticcio di Henri de Toulouse Lautrec prima e di Isadora Duncan poi.
Luigino Piccolo, per tutti “Giuti”, che trent’anni fa ha raccolto le redini e l’eredità del fondatore Piero Farani, collaboratore principale di Danilo Donati e sarto di riferimento dei film di Pier Paolo Pasolini, è quasi certo che nei prossimi giorni arriveranno molte nuove richieste di stage e di collaborazioni dai tanti giovani usciti dalle scuole di moda e di cinematografia che, a poco a poco, vanno riscoprendo il mestiere. Di recente ne ha assunto qualcuno, “bravissimo ed entusiasta”, badando però bene a non superare il numero totale dei quattordici oltre il quale il passaggio societario dalla categoria “artigiano” a quella di “industriale” diventa proibitiva. La sartoria artistica italiana fa faville ma, per dirla con una vecchia metafora, tiene l’anima coi denti. Nel solito bla bla sulle eccellenze italiane che si fa in questi anni – spesso a sproposito perché dovreste vedere da quali gelidi capannoni di periferia escono certe borsette spacciate come le delicate creazioni della Fata Turchina – nessuno parla mai delle nostre sartorie teatrali. Non ne sono rimaste molte, otto, di cui le quattro più famose, Tirelli, Farani, Peruzzi e Annamode con il suo poderoso archivio, basate a Roma. Sempre a Roma lavora Il Costume, ma per produzioni più contenute; a Milano Fiore; a Torino Devalle; a Venezia Nicolao; a Napoli Canzanella e credo di non aver dimenticato nessuno.
Il celeberrimo archivio di The One, ex Gp11 che vestiva i film di Federico Fellini disegnati da Piero Gherardi e che negli scorsi anni ha lavorato al “Marie Antoinette” di Sofia Coppola, è stato in parte ceduto a collezionisti privati (il repertorio di Raffaella Carrà non conservato in Rai o nella casa di Roma della conduttrice a una coppia di gentili signori di Salerno ossessionati dalla sua icona) e alla Sastreria spagnola Cornejo che ha acquisito anche il celeberrimo Atelier de Costumes di Parigi, di fatto azzerando il settore in Francia, e offrendo a prezzi molto concorrenziali in tutto il mondo costumi completi corredati di cappello, scarpe e borsetta o spadino in tinta, modello fast costume. A Londra tiene ancora banco Angels, fondata in anni thackeriani cioè a metà dell’Ottocento, ma ricordo ancora i pianti notturni del premio Oscar Sandy Powell perché due costumi di un film girato a Venezia che le avevo chiesto in prestito per una mostra erano stati affittati per una certa feste in costume da cui erano tornati distrutti. Come tanti, anche gli eredi di Morris Angel vivono di grandi produzioni (l’ultima, “Grand Budapest Hotel”) ma anche di noleggi serali ai privati.
Qualcuno potrebbe dunque sostenere che vinciamo per abbandono del campo da parte della concorrenza. La realtà è più complessa: con le sartorie teatrali abbiamo infatti esportato non solo i cervelli, ma anche le mani. Tirelli con la sua allure abilmente coltivata e i suoi premi Oscar resident come Piero Tosi, Gabriella Pescucci e Maurizio Millenotti; Farani con i suoi teatri d’opera e il nuovo sodalizio con la Atwood (un balletto alla Scala seguito da “Biancaneve e il cacciatore”, “Mrs Peregrine”, “Animali fantastici” e ora il “Dumbo” di Tim Burton per Walt Disney), sono tutti andati a cercare lavoro all’estero perché in Italia i teatri pagano affitti di costumi per uno spettacolo da quattromila euro a centoventi giorni o a rate di mille euro al mese o anche mai perché producono sempre meno. Essendo bravissimi, i nostri sarti hanno trovato naturalmente ingaggi e contratti. Hollywood e Londra pagano bene, accompagnano perfino la nota di credito con una nota aggiuntiva di ringraziamento e un mazzo di fiori, invece di darsi per dispersi che è un po’ la prassi pubblica nazionale in ogni settore. Soprattutto, realizzano ancora film e opere in costume. “Checco Zalone è geniale e dunque ha giustamente successo, ma i film sulla sua scia, che in Italia sono la stragrande maggioranza, non hanno bisogno di sartorie”, osserva Giuti, che ogni settimana parte alla volta di qualche teatro della Sassonia o d’Oltremanica, come peraltro fa Gabriele Mayer, fondatore della Gp11, che è forse il più grande tecnico di sartoria teatrale rimasto, uno dei pochissimi in grado di tagliare un paio di culotte settecentesche senza trasformarle in sacchi informi, e che per questo viene conteso dai laboratori di tutto il mondo, Opera di Pechino compresa che, come ovvio, non porta i codici dell’abbigliamento di un Andrea Chenier inscritti nel proprio dna. L’ultimo film italiano in costume di una certa rilevanza è stato il “Racconto dei racconti” di Matteo Garrone, e se fece più scalpore di quanto atteso, fu, oltre che per la poesia e l’incanto della narrazione, per la sontuosità dei costumi di Massimo Cantini Parrini, allievo di Tosi, ai quali gli spettatori italiani non erano più abituati da decenni, produzioni televisive comprese che, duole dirlo e fatti salvi “I Medici”, sfiorano e non di rado superano il patetico. Nel caso di “Animali fantastici”, attenta ricostruzione storica che, come spesso accade nelle grandi produzioni, affiancava e sovrapponeva abiti autentici degli anni Venti a nuovi costumi caratterizzati per i personaggi principali, i sarti di Farani hanno lavorato per i quattro, cinque mesi canonici che intercorrono fra la discussione di un progetto, la ricerca dei materiali più adatti a realizzare i bozzetti del costumista, le prove (che si tengono naturalmente tutte a Londra o a Los Angeles: si caricano i bauli e si parte), e la consegna.
Le major, Walt Disney in particolare, acquistano e ritirano i costumi ordinati, che entrano a far parte del loro archivio e diventano oggetto di storytelling, promozione e comunicazione a sé. Vengono, insomma, tolti dal mercato. Per tutti gli altri, la casistica è infinita. “Ogni film è un caso a sé”, come dice Piccolo, ma in genere l’accordo, per non superare in onerosità i budget di entrambe le parti, prevede che una volta usati, i costumi entrino a far parte dell’archivio della sartoria, esattamente come le foto commissionate dai giornali alle grandi firme dell’obbiettivo. In questo caso non vale il diritto d’autore vero e proprio, ma una sua efficace derivazione. I costumi che hanno vinto premi importanti o vantano particolari qualità tecniche e materiche entrano a far parte dell’archivio protetto della sartoria godendo di uno status di aristocratici, richiesti per mostre, cataloghi e studio; per gli altri, la destinazione è il repertorio e le modifiche leggere o sostanziali di altri costumisti, stratificazioni visibili di pensieri e di eredità diverse che, seppure li rendano per molti versi più interessanti, di fatto li inchiodano alla loro funzione d’uso. “Abiti rinascimentali, abiti 700, abiti 800, gli autentici”, cioè costumi e abiti d’epoca, raccolti fra collezioni e mercatini. Basta cliccare sul sito di qualunque di queste grandi sartorie per vedere elencati i link dai quali visionare il repertorio: tanti costumisti dell’ultimissima generazione lavorano così, come stylist di moda, sovrapponendo “suggestioni”, realizzando il cosiddetto “moodboard”, collage di facce, pettinature, espressioni, poesie, tramonti, come i direttori creativi delle maison di moda quando affidano il lavoro ai disegnatori. Portano nelle sartorie il risultato delle ricerche in un bel fascio di fogli e si affidano in toto. Poi, ci sono i grandi nomi che, come Sandy Powell, Colleen Atwood, Livia Aymonino che ha firmato le Olimpiadi di Rio de Janeiro o la Pescucci, lavorano invece ancora secondo tradizione, con figurini, ritagli di stoffa del colore e della trama immaginata come ideale e ogni sorta di altra indicazione. Presenziano alle tinture dei tessuti, rimestano nei calderoni, vanno a caccia di trouvailles nei mercati delle pulci, tengono archivi privati nei solai di casa per ogni evenienza, fosse pure un bottone o una scarpina da far copiare. Una mattina di due anni fa, ho visto con i miei occhi Alessandro Lai e i suoi assistenti far sobbollire fra vapori e odori pungenti le canape destinate ai protagonisti de “I Medici” per dar loro la patina del vissuto nel cortile del palazzetto di Tirelli a Prati, surreale sabba tessile fra giardinetti e lesene umbertine. Per un film di Paolo Genovese usò qualche decina di numeri del Foglio (“bella carta bianca e spessa, tiene benissimo il plissé”) per una serie di costumi che avrebbero dovuto parodiare degli abiti di moda e che chissà dove sono finiti, peccato. Farani ha invece sede a Trastevere, in un palazzo popolare di qualche pretesa dove occupa il pianterreno e una parte del cortile con forme architettoniche variabili (loft, veranda), compresa una piccola sala prove con pedana dall’aria fané quanto basta. Capita abbastanza spesso di trovare i costumi del “Decameron”, della “Medea” e dei “Racconti di Canterbury” sulle relle appendiabiti all’ingresso, pronti per essere inviati a una mostra, ed è impossibile non soffermarsi ogni volta ad ammirare le geniali soluzioni tattili e visive di Donati, fantasia e filologia insieme, e ricordare (fa parte della leggenda e del tributo al fondatore) quella volta che, per il “Satyricon” di Fellini, Farani attrezzò la sartoria di un’incredibile macchina di ferro alimentata da quattro bombole di gas per plissettare le tuniche, oppure gli insostenibili busti spessi due centimetri delle ciociare delle “Storie scellerate” o ancora le placche di metallo dei costumi sconcio-sexy di “Barbarella”, firmavano Jean Fonteray e Paco Rabanne. La sartoria di via Dandolo ha sempre lavorato bene con i metalli e i fabbri.
Qualche anno prima della sua morte, alla fine degli anni Novanta, Farani fece una grossa donazione al Centro studi Archivio della comunicazione dell’Università di Parma, la città dov’era nato negli anni Trenta: oltre duecento costumi firmati da Donati, Franca Squarciapino, Santuzza Calì, Maria de Matteis e Lele Luzzati. Per anni, giacquero negletti in sacchi e bauli, e Giuti fece il diavolo a quattro per tornarne in possesso, orripilato all’idea che le lane lavorate a mano della Medea e di “Porcile” finissero come il titolo del film indica, senza successo: recuperare una donazione pubblica è infatti praticamente impossibile, chiederne la cura del tutto inutile. Le relazioni sono tornate normali, anzi affettuose, solo pochi mesi fa quando, grazie a una dirigenza più attenta e al nuovo percorso espositivo dell’Abbazia cistercense di Valserena, che ospita dodici milioni di pezzi fra arte, fotografia, media, spettacolo e progetti architettonici (Ignazio Gardella, Luigi Vietti, Roberto Menghi), anche i capi dell’atelier Farani hanno trovato collocazione adeguata e, soprattutto, protetta dagli agenti atmosferici della zona, perfetti per stagionare il culatello, meno per conservare manufatti tessili. Giuti ne è diventato, anzi, il primo sostenitore. Acribioso quanto affettuoso nei confronti di chi stima (a Natale ha offerto molti dei pagliacci di Donati per l’allestimento del grande presepe fotografico di Fiorenzo Niccoli nella chiesa degli artisti di piazza del Popolo, supervisionato da Tosi e sostenuto dalla Fondazione Carla Fendi), per anni ha cercato di realizzare un museo Pasolini in Friuli, da affiancare al Centro studi di Casarsa. Avrebbe donato volentieri anche tutti i costumi dei film realizzati nella sua sartoria, praticamente l’opera omnia del regista, e contribuito al suo sviluppo. Dice che le istituzioni si sono ritirate tutte, una dopo l’altra. Per ora, i costumi del “Fiore delle mille e una notte” rimangono dunque a Trastevere, e ogni tanto escono a prendere aria.
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