Il Centro Georges Pompidou, il più rivoluzionario dei musei parigini, fu inaugurato il 31 gennaio 1977. Il presidente, grande collezionista d’arte contemporanea, voleva recuperare il gap con New York

La leva culturale

Mauro Zanon

Festa a Parigi. Il Beaubourg voluto da Pompidou e disegnato da Piano compie quarant’anni. Nato tra le polemiche, è più in forma che mai

I parigini se la ricordano ancora quella prima pagina del Monde: “Lo stupro di Parigi”. Il quotidiano dell’establishment francese, sempre misurato, si era lasciato trascinare dal malumore diffuso in un certo milieu cultural-mondano, per l’installazione nella capitale del nuovo ed esuberante museo voluto dal presidente della Repubblica, Georges Pompidou. “Sembra una raffineria di petrolio”, dissero i detrattori più accaniti, “è un’officina del gas nel cuore di Parigi”, attaccarono altri. Ma dietro quei soprannomi poco lusinghieri, che celavano l’eterna querelle tra classicisti e modernisti, tra accademici e anti accademici, che in Francia, in quegli anni di liberazione post sessantottina, dopo il severo periodo gollista, aveva raggiunto il suo apice, stava per nascere il secondo museo di arte moderna e contemporanea più importante del mondo dopo il MoMa di New York. Fu inaugurato il 31 gennaio 1977 il Centro Georges Pompidou, il più rivoluzionario dei musei parigini, che quest’anno festeggia il suo quarantesimo anno di vita con lo stesso fascino dei suoi albori. E lo festeggia con innumerevoli esposizioni, concerti, spettacoli di danza e teatrali, retrospettive fotografiche ed eventi cinematografici, tra cui SoixanteDixSept, un omaggio al regista italiano Roberto Rossellini, che dedicò la sua ultima opera su celluloide proprio al centro culturale situato tra il Terzo e il Quarto arrondissement di Parigi (Beaubourg, è il titolo dell’inedito documentario, dove il regista romano si fa testimone di questa epifania postmoderna, interrogandosi per mezzo della sua telecamera sull’irruzione di una nuova museologia, di un nuovo spettatore e di un nuovo rapporto dell’arte con la città).

“Lo stupro di Parigi”, scrisse in prima pagina
il Monde. “Sembra
una raffineria
di petrolio”, dissero
i detrattori più accaniti

 

Quella del “Beaubourg”, come lo chiamano i parigini, non è una storia, è un’epopea. Che inizia con questa frase di Georges Pompidou: “Desidero ardentemente che Parigi possegga un centro culturale come già hanno cercato di crearne negli Stati Uniti con un successo finora senza eguali, che sia allo stesso tempo un museo e un centro di creazione, dove le arti visive si accompagnano alla musica, al cinema, ai libri, alla ricerca audio-visiva e così via. Il museo non può che essere di arte moderna, dal momento che abbiamo il Louvre. La biblioteca attirerà migliaia di lettori, che a loro volta saranno messi in contatto con le arti”. La volontà di Pompidou, primo ministro di De Gaulle dal 1962 al 1968 e grande collezionista di opere d’arte contemporanea assieme alla moglie Claude, era quella di recuperare lo scarto con gli Stati Uniti, e in particolare con New York, diventata con l’arrivo di Jackson Pollock, poi di Andy Warhol e della sua factory, “the place to be” per gli artisti di tutto il mondo. Parigi, negli anni Sessanta, non era più il cuore pulsante dell’arte mondiale, il Musée d’art moderne, situato nel Palais de Tokyo, mancava di dinamismo e attirava pochi visitatori, e gli artisti francesi dell’epoca, come Martial Raysse e Jean-Pierre Raynaud, preferivano andare a trovare ispirazione oltreoceano. Per riflessi di grandeur, bisognava dunque risollevare rapidamente la scena artistica parigina.

 

Pompidou voleva
che fosse “museo
e centro di ricreazione, dove le arti visive
si accompagnano alla musica, al cinema, ai libri”

L’idea di un museo d’arte moderna che potesse concorrere con il MoMa di New York, in realtà, balenava già da qualche anno nella testa di André Malraux, carismatico ministro della Cultura negli anni del gollismo. Quest’ultimo aveva conferito il progetto a Le Corbusier, che aveva immaginato un “museo del Ventesimo secolo” a forma di spirale ed estensibile a volontà. L’architetto aveva addirittura pensato di installare il nuovo museo al posto del Grand Palais, il padiglione espositivo di vetro costruito in occasione dell’esposizione universale del 1900, ma la sua morte nel 1965 mandò all’aria tutti i piani. Fu così che Pompidou, da primo ministro, prese in mano le redini del progetto, manifestò ad alta voce la sua volontà di aprire la Francia all’interdisciplinarietà, di rendere l’arte contemporanea accessibile a un pubblico più ampio e trasversale, di creare un museo che non fosse soltanto un museo, ma anche un luogo di vita, di conoscenza, di creazione, e rapidamente individuò la zona in cui far sorgere il nuovo centro: il “plateau Beaubourg”, uno degli ultimi terreni vaghi rimasti a Parigi, che all’epoca serviva da parcheggio. Il progetto del “Centre d’art du plateau Beaubourg” è uno dei primi dossier affrontati da Pompidou una volta salito all’Eliseo, nel 1969.

 

La Francia, negli anni pompidoliani, è il paese industrializzato che vanta la crescita più rapida, e il simbolo di questo sussulto di grandeur, di questo benessere ritrovato dopo i tumulti del maggio ’68, è l’aereo Concorde, che spicca il suo primo volo nel 1969. Al dinamismo economico si affianca subito il dinamismo culturale. E per la prima volta nella storia contemporanea francese, Pompidou decide di lanciare un grande concorso mondiale di architetti per trovare coloro che si occuperanno della costruzione del futuro centro espositivo e creativo. 681 studi di architettura rispondono al bando del presidente della Repubblica francese, presentando i progetti più disparati, folli e inimmaginabili per una Francia ancora molto classica, austera, haussmaniana: uno studio propone un edificio a forma di uovo, un altro un complesso architettonico a forma di centrale elettrica coperto da una mastodontica griglia di ferro. La giuria, composta da grandi nomi dell’architettura mondiale tra cui il brasiliano Oscar Niemeyer e l’americano Philip Johnson, sorprendendo tutti, sceglie comunque un progetto radicale: quello di due spettinati trentenni, praticamente sconosciuti all’epoca, un genovese, Renzo Piano, e un fiorentino naturalizzato inglese, Richard Rogers. I due architetti immaginano sul terreno del piazzale Beaubourg un grande parallelepipedo alto 42 metri, lungo 166 e largo 60, sostenuto da una struttura in acciaio, e dotato di una facciata ricoperta da tubi colorati e pareti di vetro. Gli elementi portanti, gli ascensori, le scale, mobili e no, le gallerie di circolazione, i tubi di ventilazione e riscaldamento, le condutture per l’acqua e per il gas, vengono tutti collocati all’esterno di questo edificio funzionale, flessibile, in potenziale trasformazione, e anticipatore della “postmodernità”, i cui contorni verranno definiti da Jean-François Lyotard nell’opera La condition postmoderne, uscita nel 1979.

 

La giuria sceglie
il progetto radicale
di due spettinati trentenni, all’epoca quasi sconosciuti. “Eravamo ribelli
e maleducati”

Sviluppato su sei piani, ognuno di 7.500 metri quadrati, raggiungibili tramite la scala mobile esterna – il famoso “bruco” rosso – nacque così il museo ribelle che i parigini non volevano (in un filmato d’epoca, facilmente reperibile sul sito dell’Ina, l’Institut national de l’audiovisuel, numerosi abitanti della capitale francese si lamentano perché non troveranno più parcheggio nel centro della capitale, dato che proprio nella zona in cui è stato costruito il Centre Pompidou erano soliti parcheggiare le loro utilitarie prima di raggiungere il loro ufficio) e che oggi invece figura in cima alla classifica delle loro gallerie d’arte preferite. Ma, come sottolineato in precedenza, il Pompidou non era stato progettato soltanto come galleria d’arte moderna e contemporanea. Al suo interno, secondo l’idea pompidoliana dell’interdisciplinarità e della democratizzazione della cultura, che combaciò con quella “italiana” del duo Piano-Rogers, venne installata una biblioteca, la Bpi (Bibliothèque publique d’information), accessibile a tutti, aperta a tutte le forme del sapere, e con un catalogo tra i più ricchi d’Europa, una videoteca, una collezione di architettura, un museo del design, un museo d’arte moderna, allestito negli anni Ottanta da Gae Aulenti, un centro di creazione industriale, un istituto (Ircam) specializzato nella sperimentazione in campo acustico e musicale, che fu fondato da Pierre Boulez, la ricostruzione dell’atelier del grande scultore Constantin Brancusi, che fu curata anch’essa da Renzo Piano. E poi i tubi, codificati secondo un colore, ognuno con una diversa funzione: i tubi blu per l’impianto di climatizzazione, quelli verdi per i circuiti dell’acqua, quelli gialli per l’impianto elettrico, quelli bianchi per l’areazione dell’edificio, mentre quelli rossi, ascensori e scale, simboleggiavano i legami di comunicazione.

 

“Eravamo ribelli e maleducati”, dice oggi l’architetto italiano, che si ricorda ancora della prima volta che entrò con Rogers nel bureau di Pompidou: “Vi rendete conto che costruirete un edificio che durerà 500 anni?”. Loro che fino a quel momento si erano occupati di progetti che al massimo duravano sei mesi. Piano e Rogers erano due architetti insubordinati e immaginifici, che avevano deciso di far atterrare una navicella futurista nel cuore di Parigi, per fare uno sberleffo alla cultura d’élite, per sfidare la cultura di stato francese, per rompere la monotonia del vecchio museo intimidente, sacrale, di marmo. “Abbiamo demolito l’immagine di un edificio culturale che fa paura. E’ il sogno di un rapporto straordinariamente libero tra l’arte e la gente, dove allo stesso tempo si respira la città”, disse all’epoca Renzo Piano. Un luogo per la gente, di apertura e non di chiusura, una città nella città – con un po’ di Genova e del porto della sua infanzia, secondo le stesse parole di Piano, quando “tutto volava”, a partire dalle navi, e “non c’erano container”, con i piani concepiti come tante piazze, e con le scale mobili per scoprire la città gradualmente – città reale e immaginaria, che suscitò anche la curiosità di Italo Calvino, il quale, negli anni Settanta, si recò più volte nei cantieri del futuro Pompidou.

 

L’idea alla base del nuovo centro era quella che i cittadini potessero trascorrere al suo interno un’intera giornata, grazie a un nuovo rapporto di interazione e di multidisciplinarietà che creava uno strappo netto con l’idea classica di visita del museo. E anche le vie per entrare e uscire dal Pompidou erano multiple, per rafforzare questa idea di prosecuzione della città. Le élite parigine, gelosamente legate alla visione classica ed esclusiva della cultura, parlarono con toni spregiativi di “supermercato dell’arte”, di “Notre-Dame dei tubi”, di sacrilegio, e predissero un fallimento rovinoso per il nuovo centro culturale della coppia Piano-Rogers, ma il giorno dell’apertura i pessimismi lasciarono spazio agli entusiasmanti numeri dei visitatori: i poteri pubblici ne aspettavano 8.000, ma ne arrivarono più del doppio (al vernissage furono presenti, tra gli altri, la principessa Grace di Monaco, la regina Fabiola del Belgio e il poeta Léopold Sédar Senghor). Da allora, il successo non si è mai attenuato, e soltanto nel 2016, grazie alle esposizioni faro dedicate a Paul Klee, alla Beat Generation e a Magritte, sono stati registrati più di 3,3 milioni di visitatori. E pensare che il “Beaubourg”, che oggi grazie alle sue 120.000 opere dispone della più importante collezione di arte moderna e contemporanea dopo il MoMa a New York, ha rischiato di non vedere mai la luce. La morte improvvisa del presidente Pompidou, nel 1974, galvanizzò i detrattori del progetto del “Centre d’art du plateau Beaubourg”, che fecero di tutto per insabbiarlo. Detrattori che trovarono nel successore di Pompidou, Valéry Giscard d’Estaing, un grande alleato. Il presidente cristiano-liberale era così refrattario all’arte contemporanea che tra le prime azioni del suo mandato decise di rifare l’arredo dell’Eliseo, che era stato modernizzato dalla coppia Pompidou. Poi, ponendo l’accento sui costi esorbitanti del cantiere pompidoliano (900 milioni di franchi, oltre ai 130 all’anno di manutenzione), tentò di bloccare definitivamente i lavori. Ma a fargli cambiare idea, e con le maniere forti, fu un giovane Jacques Chirac, allora primo ministro di Francia, che minacciò addirittura di dimettersi, se Giscard non avesse proseguito il progetto di Pompidou.

 

Attacchi politici
e lamentele
degli architetti, ma
per la “Notre-Dame
dei tubi” fu subito successo, e non si è
mai attenuato

Oltre agli attacchi politici che minacciarono la costruzione del “Beabourg”, arrivarono anche le lamentele degli architetti concorrenti, innervositi dal fatto che il concorso fosse stato vinto da due trentenni pressoché sconosciuti. Un’associazione, “Le Geste architectural”, sporse addirittura denuncia contro il progetto visionario di Piano e di Rogers, affermando che non era un “lavoro da architetti”, che il loro gesto di rottura era un insulto a Parigi. I lavori, nel 1975, furono sospesi dal tribunale amministrativo. Ma soltanto per qualche settimana. Il Consiglio di stato annullò rapidamente la sentenza del Tar e i lavori del “museo del futuro”, come venne definito all’epoca, poterono riprendere.

“Un’immensa folla percorrerà per decine di anni questo centro dal primo bagliore del giorno alla fosforescenza della sera”, disse Giscard d’Estaing, con lirismo, il giorno del vernissage, con 5.000 selezionatissimi invitati. Nei suoi quarant’anni di storia, il record di entrate appartiene ancora alla prima esposizione consacrata al pittore catalano Salvador Dalí, nel 1979. Un’esposizione che attirò ben 840 mila curiosi. Quasi quanto la seconda esposizione più visitata della storia del centro, sempre dedicata a Dalí, nel 2012: 790 mila visitatori.

 

Oggi il Pompidou continua a moltiplicare le sue succursali, due delle quali, dopo Metz, in Francia, e Malaga, in Spagna, verranno costruite a Bruxelles e a Shangai. Tra le novità a venire per il 2017, secondo quanto dichiarato dal suo attuale presidente, Serge Lasvignes, “una scuola Pompidou dell’arte contemporanea”. Nel dettaglio: “Una scuola principalmente su internet che userà nuovi approcci pedagogici per rendere familiare l’arte contemporanea”. Ceci n’est pas un musée.

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